Procedo con il riassunto commentato del I canto sottolineando le parti più interessanti. Aggiungo altri versi e le citazioni di alcune parole belle che danno luce al pensiero.
Le citazioni. Ne troverete molte continuando a leggermi. Leggendo il “mio” Omero troverete diverse informazioni sulla letteratura europea.
“Esiste comunque un metodo sicuro, e soprattutto molto rapido, per rendere sfizioso qualsiasi classico: quello della citazione. La citazione infatti antologizza il classico fino alla carne viva, gli attribuisce una tale misura minimale che a questo punto la sfiziosità è comunque garantita. Questo spiega perché, negli ultimi tempi, le raccolte di citazioni si sono moltiplicate (mettendo inaspettatamente in buona compagnia la gloriosa Ape Latina di Fumagalli) : tanto che in alcuni paesi, come gli Stati Uniti, le grandi librerie dispongono addirittura di un apposito settore in cui sono allineati i libri di citazioni di ogni possibile letteratura. Il fatto è che, nella citazione, il classico diventa talmente piccolo da poter entrare persino in una “battuta”.[1]
vv. 22-31.
sommario
Poseidone era andato a godere delle ecatombi offerte dagli Etiopi e sedeva a banchetto in quel mondo remoto; gli altri dèi invece erano riuniti nella dimora di Zeus che si ricordò del misfatto di Egisto e cominciò a parlare nell’assemblea divina
Traduzione
Ma quello era andato a trovare gli Etiopi che stanno lontano,/gli Etiopi che sono divisi in due parti, estremi tra gli uomini,/quelli del sole che tramonta e quelli del sole che sorge/per fruire di un ecatombe di tori e di agnelli./Là egli si dilettava seduto al banchetto; mentre gli altri invece/erano tutti insieme nella dimora di Zeus Olimpio./Tra loro diede inizio alle parole il padre degli uomini e degli dèi:/ infatti gli era venuto nell’animo il pensiero dell’egregio Egisto,/ che il figlio di Agamennone, Oreste famoso, uccise;/di lui ricordandosi diceva parole agli immortali”.
Un esempio di commento solo grammaticale. Chi non è interessato può saltarlo.
Aijqivopa~ (v. 22): formato sul verbo ai[qw, “brucio” con l’aggiunta della radice ojp- sulla quale si forma, tra l’altro, o[yi~, aspetto”.-thlovq j (i) (v.22): avverbio di luogo.-Aiqivopa~ (v. 23): epanalessi, ossia ripresa dello stesso termine nel medesimo periodo.-toiv: articolo con funzione di pronome relativo.-dicqav (v. 22): avverbio. Come preposizione regge il genitivo e significa “diversamente da” o anche “senza”.-dedaivatai: perfetto medio di daivomai.-e[scatoi: superlativo da ejk-ejx, che nei composti conferisce spesso il significato di allontanamento.-dusomevnou (v. 24): participio dell’aoristo misto epico di duvw.-ajnivonto~ (v. 22): participio di a[neimi.-ajntiovwn(v. 25): forma distratta da ajntiavwn. Il verbo regge il genitivo. La “distrazione omerica” omerica è un fenomeno per cui i verbi in -avw e -ovw invece della vocale derivante dalla contrazione presentano due vocali omofone. "I grammatici greci usano il termine dievktasi" (Zerdehnung i Tedeschi, distension i Francesi). Le teorie finora tentate per spiegare il fenomeno si dividono sostanzialmente in due tendenze: una che attribuisce ai copisti le forme e le considera mostri linguistici, senza corrispondenza nella lingua di nessun dialetto; l'altra che ritiene veramente esistite tali forme. La prima fa capo al Wackernagel...la seconda ipotesi...è sostenuta da Leo Meyer il quale pensa che le forme distratte rappresentino lo stadio intermedio tra le forme non contratte e le forme contratte: cioè oJravw prima di diventare oJrw' è passato attraverso oJrovw (a 301 ecc.) e così oJravesqe è divenuto oJravasqe (Y 495). I poemi omerici ci conserverebbero le preziose testimonianze di questo stadio di transizione. Si tratterebbe quindi di un processo di assimilazione di una vocale all'altra: assimilazione progressiva in oJravasqe (per oJravesqe), oJravasqai, ecc. ; e assimilazione regressiva in ajntioovntwn per ajntiaovntwn"[2].-ejkatovmbh~ (v. 25): da eJkatovn , “cento” e bou`~, “bue”.-tevrpeto (v. 26): imperfetto medio, senza aumento da tevrpw.-daitiv : dalla radice da-/dai- sulla quale si forma anche daviomai del v. 23. Per i vari tipi di banchetto vedi la schede di approfondimento.-parhvmeno~ (v. 26): participio di pavrhmai. –h\rce (v. 28): imperfetto di a[rcw con il genitivo.-mnhvsato (v. 29): aoristo medio, senza aumento, da mimnhvskw.-ajmuvmono~ (v. 29): formato da aj- privativo e mw`mo~ “biasimo”. Egisto è un uomo di razza: è nipote di Pelope e bisnipote di Tantalo ma è degenerato e ha smentito la nobiltà del suo gevno~ con il delitto compiuto.-jAgamemnonivdh~ (v. 30): patronimico.-thleklutov~ (v. 30): formato da th`le “lontano” e la radice di kluvw, “ sento dire di me”. Cfr. latino clueo, “ho fama” e inclitus, “famoso”.-ejktan j (e) (v. 30): aoristo II di kteivnw.-ejpimnhsqeiv~ (v. 31): aoristo passivo di ejpimimnh/vskomai. Regge il genitivo.-ejpe j (a): gli dèi, come gli uomini parlano in discorsi diretti.
“ I personaggi agiscono o parlano; o meglio, parlano e agiscono. Parlano in discorso diretto, davanti a noi, per noi. Questo talvolta avvicina già la poesia omerica, in qualche modo, al teatro e fa sì che ci sia la ppssibilità, in molti casi, di presentarla in forma di sceneggiatura. Il canto I dell’Iliade si compone in totale di 611 versi, più della metà dei quali (373 esattamente) sono versi parlati…In totale vi sono trentasei interventi parlati, con una lunghezza che varia dai tre ai quarantotto versi. L’Iliade, insomma, si apre come una scena teatrale a scenario multiplo”[3].
-methuvda (v. 31): imperfetto di metaudavw.
vv. 32-34.
Il dio supremo afferma che non sono gli dèi la causa dei dolori degli uomini, ma gli uomini stessi per la loro stolta scelleratezza.
Traduzione
"Ahimé, come ora davvero i mortali incolpano gli dèi!-
da noi infatti dicono che derivano i mali, ma anzi essi stessi
per la loro stupida presunzione hanno dolori oltre il destino
v. 34 uJpe;r movron: oltre il destino, o la parte assegnata a ciascuno (moi`ra), per cui cfr. la scheda seguente.
v, 35 ajjtasqalivh/sin: cfr. v. 7 la stessa u{bri~ di stupida presunzione che fece morire tutti i compagni di Odisseo durante il ritorno.
Il “libero voler” e la “necessità” nella Divina Commedia.
Marco Lombardo nella terza cornice del Purgatorio (quella degli iracondi) dice a Dante: “ Frate,/lo mondo è cieco, e tu vien ben da lui./Voi che vivete ogne cagion recate/pur suso al cielo, pur come se tutto/movesse seco di necessitate./Se così fosse, in voi fora distrutto/libero arbitrio, e non fora giustizia/per ben letizia, e per male aver lutto./Lo cielo i vostri movimenti inizia;/non dico tutti, ma posto ch’il dica,/lume v’è dato a bene e a malizia,/e libero voler…” (XVI, 65-77).
Quindi nel Paradiso Cacciaguida dice a Dante:
“La contingenza che fuor del quaderno
della vostra matera non si stende
tutta è dipinta nel cospetto etterno.
necessità però quindi non prende
se non come del viso in che si specchia
nave che per corrente giù discende”
Torniamo all’Odissea.
Moi`ra letteralmente significa “parte” , ossia la porzione che risulta da una suddivisione e con questo valore inizia a configurarsi già nel linguaggio omerico col valore di “destino”, ossia porzione di vita che è assegnata a ciascuno. La più antica raffigurazione dell’idea di un destino stabilito già al momento della nascita è im Omero, Il. XXIV 525-39”[4].
Achille parla a Priamo assimilandolo al proprio padre Peleo: entrambi i vecchi sono destinati a perdere i figli ancora giovani.
Andare contro il destino è comunque una forma di u{bri~. Sentiamo Nilsson: “Hybris e nemesis sono due parole greche ben note, e i concetti che esse esprimono formano una coppia che si ritrova già in Omero. Hybris è l’orgoglio nei discorsi e nell’azione, la tracotanza; nemesis è il sentimento di avversione e di indignazione che un simile modo di essere e di operare risveglia. Hybris ha una certa parentela con l’omerico hyper moron, comunemente tradotto con “oltre il destino”, espressione contraddittoria, ma il cui vero significato è: “in più della debita parte. Giacché le parole omeriche generalmente intese per “destino”, e cioè moira ed aisa, valgono “parte”, “lotto”, per esempio, della preda, o anche la “porzione” che a ciascuno tocca in un banchetto: in altri termini, la giusta o debita parte che spetta a ogni uomo. Può accadere che uno si appropri di più del dovuto, “di più della sua parte”, ciò che più tardi vien detto u{bri~”[5].
riquadro
Libero arbitrio umano e potenza divina. Si può andare "contro il destino"?
Al v. 34 ritroviamo un'affermazione già incontrata al v. 7, e che viene considerata come la dichiarazione della responsabilità dell'individuo. Non è del tutto d'accordo su questa interpretazione F. Codino:"un passo come questo, che appunto è sempre citato per dimostrare l'esistenza del libero arbitrio nel mondo omerico, non può essere considerato rappresentativo per tutto Omero. Lo stesso tono polemico di Zeus avverte che la verità da lui espressa era tutt'altro che universalmente accettata. Non è possibile ridurre a sistema il modo omerico di spiegare la condotta degli eroi e i suoi moventi"[6]. Quindi Codino fa una serie di esempi che negano la libertà del volere umano. Vediamone uno: Patroclo errò quando non diede retta alle parole del Pelide e si mise a inseguire Lici e Troiani trovando la morte, ma "il volere di Zeus è sempre più forte di quello degli uomini" commenta Omero (Iliade , XVI, 688). Tra Iliade e Odissea dunque su questo problema c'è una discrepanza. Ma questa si trova anche all'interno del primo poema:"il proemio dell'Iliade fa capire con tutta chiarezza che i fatti del poema derivano da una scelta cosciente di Agamennone: il "piano" o "consiglio" di Zeus ne è soltanto una conseguenza". Codino mette in rilievo alcune contraddizioni anche per quanto concerne le interpretazioni dell'agire di un singolo personaggio, ossia del capo supremo che nel IX canto viene accusato (da Nestore, vv. 1O9-110) o si autoaccusa (v. 119) come responsabile, mentre nel XIX "Anche i passi sopra citati sulla colpa di Agamennone appaiono smentiti in un grande episodio...quello della cosiddetta Riconciliazione...Di fronte ad Achille e a tutto il pubblico, Agamennone proclama in una lunga apologia (vv. 78-144) di non essere colpevole: Zeus, la Moira e l'Erinni gli hanno messo nell'anima l'Ate, il folle errore".
Riporto alcune parole di Agamennone:" ejgw; d joujk ai[tiov" eijmi,-ajlla; Zeu;" kai; Moi'ra kai; hjerofoi'ti" jErinuv""(Iliade , XIX, 86-87), io non sono colpevole,/ ma Zeus e la Moira e l'Erinni che vaga nell'oscurità.
La conclusione di Codino dunque è:"Perciò la questione della responsabilità umana, che a noi sta tanto a cuore, in Omero sembra trattata con indifferenza e incoerenza"[7]. Insomma chi è colpevole del male, l'uomo o Dio? Le risposte, abbiamo visto, in Omero variano; il dramma invece afferma sempre la necessità tragica: quello che deve accadere, accade, e non sempre l'uomo è del tutto colpevole. Il protagonista della tragedia piomba nell'infelicità non tanto per un crimine commesso con piena e cosciente malvagità quanto per un errore "di j aJmartivan tinav", come preferisce Aristotele[8],
Anche secondo Kierkegaard, come per Aristotele, l’eroe della tragedia non è del tutto colpevole.
Infatti l'uomo greco che viveva nella povli" democratica ne era “politicamente” condizionato :"benché si muovesse liberamente, l' individuo restava nell'ambito delle determinazioni sostanziali, nello stato, nella famiglia, nel fato. Questa determinazione sostanziale è la vera e propria fatalità della tragedia greca, e la sua vera e propria caratteristica. La rovina dell'eroe non è perciò solo una conseguenza della sua azione, ma è anche un patire"[9]. Ma l’attenuazione della colpa non riduce la pena: “La pena è più profonda poiché la colpa ha l’ambiguità estetica”[10].
Se l'uomo non è del tutto colpevole, qualche colpa si può attribuire al fato o addirittura alla divinità. Una non impossibile interpretazione che Platone si premura di escludere:" aijtiva eJlomevnou: qeov" ajnaivtio"", la responsabilità è di chi ha fatto la scelta, dio non ha colpe"[11]. Infatti il divino è ciò che è bello, sapiente e buono e tutto quanto è siffatto:"to; de; qei'on kalovn, sofovn, kai; pa'n oJvti toiou'ton", Fedro , 246e, e pertanto l'invidia rimane fuori dal coro divino ("fqovno" ga;r e[xw qeivou corou' iJvstatai", Fedro , 247a). Successivamente sarà Menandro ad affermare che "dio è sempre buono e chi si comporta male si crea una vita imbrogliata per la propria sconsideratezza e guasta tutto, ma, mentre chiama malvagio il demone, il malvagio è lui" fr. 714 K.-Th.
Su questa linea che riconosce l'assoluta bontà di Dio si trova Seneca: "Deos nemo sanus timet; furor est enim metuere salutaria "[12] nessuna persona equilibrata teme gli dèi, infatti è pazzia temere le entità benefiche. Nelle Epistole a Lucilio il filosofo ribadisce convinzione che gli dèi non possano essere malvagi:"Quae causa est dis bene faciendi? natura. Errat si quis illos putat nocere nolle: non possunt "(95, 49) , quale è la causa per gli dèi di fare del bene? La loro natura. Se qualcuno pensa che quelli non vogliono nuocere si sbaglia: non possono.
Concludo considerando la locuzione "uJpe;r movron" (vv. 34 e 35) che, alternata con uJpe;r moi'ran e uJpevrmora, uJpevrmoron "è un'espressione non rara nell'Iliade (II 155, XX 30, 336, XXI, 557; cfr. uJpe;r Dio;" ai'jsan XVII 321): va tuttavia considerata come un modo di accrescere la tensione, dando rilievo ad un punto critico della narrazione. Zeus stesso non cerca di modificare il destino (Il . XVI 431 sgg., XXII 167 sgg.), e ciò che è contrario al fato non può semplicemente avvenire"[13].
Una legge che verrà ribadita chiaramente da Eschilo:"tevcnh d& ajnavgkh" ajsqenestevra makrw'/" , la tecnologia è di gran lunga più debole della necessità, afferma lo stesso Prometeo incatenato (v. 514) che pure si atteggia a "benefattore tecnologico" degli uomini. Allora il Coro domanda chi governi il timone della necessità. Sono le tre Moire e le Erinni che non dimenticano, risponde il Titano. Quindi le Oceanine domandano se Zeus sia più debole di loro, e Prometeo risponde:"ou[koun aj;n ejkfuvgoi ge th;n peprwmevnhn" (v. 518), certo non potrebbe sfuggire al destino.
Il potere assoluto dell' jjjjAnavgkh verrà apertamente affermato da Euripide nell'Alcesti.
Nel terzo Stasimo della tragedia più antica ( è del 438) tra le diciassette a noi pervenute, il Coro eleva un inno alla Necessità vista come la divinità massima, quella che vincola e subordina tutti, compresi gli dèi:
"Io attraverso le muse/mi lanciai nelle altezze, e/ho toccato moltissimi ragionamenti (pleivstwn aJyavmeno" lovgwn),/ma non ho trovato niente più forte/della Necessità né alcun rimedio (krei'sson oujde;n jAnavgka"-hu|ron oujdev ti favrmakon)/nelle tavolette tracie che scrisse la voce di/Orfeo, né tra quanti rimedi/diede agli Asclepiadi Febo/dopo averli ricavati dalle erbe come antidoti/per i mortali afflitti dalle malattie"(vv. 962-972). Da questi versi si vede che la Necessità è più forte del lovgo" , della poesia, dell'arte medica.
Nell'Odissea al contrario sembra che non sia
impossibile nemmeno per gli uomini andare contro il destino:" Al di là delle differenze tra i singoli eroi, l'eroe dell'Iliade è colui che compie il proprio destino, colui che, avendo ricevuto dagli dèi la parte (moron ) che gli compete, nel poema non fa altro che ottemperare a questa parte: fino alla morte o verso la morte, la quale dunque non è fine, ma compimento. Nell'Iliade , un eroe agisce così perché è così[14]. Nel mondo dell'Iliade ogni eroe coincide con se stesso. La responsabilità di ognuno è questa coincidenza. Gli eroi non possono travalicare quello che sono, non possono non adempiere alla parte che loro si conviene. Per essi, esistere è determinarsi: compiere il proprio destino, che si identifica con la loro parte.
Nell'Odissea , invece, è contemplata la possibilità che qualcuno, secondo l'opinione di Zeus, possa andare "oltre la sua parte" (hyper moron ), cagionarsi, come tradusse Segalà, sciagure "non decretate dal destino" (I, 35). Questo qualcuno è Egisto, e quello che fece, come sappiamo, fu di avvicinarsi alla donna di Agamennone, nonostante gli avvertimenti degli dèi perché non facesse una tal cosa"[15].
fine
riquadro
Zeus dunque procede facendo l'esempio tipicamente negativo di Egisto che era
stato avvertito da Ermes, ma non diede retta e uccise Agamennone appena tornato
(nosthvsanta, v. 36) dopo avergli preso la sposa legittima
contro il destino (uJpe;r movron, v. 35) , sicché ha pagato tutto
insieme (" aJqrova pavnta ajpevtise", v 43). Questo Zeus
si esprime con dignità maestosa e
possiamo riconoscervi il dio supremo individuato da J. J. Winckelmann nei poemi omerici:"Di tutte le immagini del
padre degli dei, che ci sono rimaste e che hanno valore d'arte, nessuna esiste che
si avvicina alla maestà intravvista da Omero"[16].
Zeus dunque procede facendo l'esempio tipicamente negativo di Egisto che era stato avvertito da Ermes, ma non diede retta e uccise Agamennone appena tornato (nosthvsanta, v. 36) dopo avergli preso la sposa legittima contro il destino (uJpe;r movron, v. 35) , sicché ha pagato tutto insieme (" aJqrova pavnta ajpevtise", v 43). Questo Zeus si esprime con dignità maestosa e possiamo riconoscervi il dio supremo individuato da J. J. Winckelmann nei poemi omerici:"Di tutte le immagini del padre degli dei, che ci sono rimaste e che hanno valore d'arte, nessuna esiste che si avvicina alla maestà intravvista da Omero"[17].
Bologna 30 aprile 2025 ore 10, 38 giovanni ghiselli
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[1] M.Bettini, I classici nell’età dell’indiscrezione, p. 66.
[2]Cantarella-Scarpat, op. cit., pp. 191-193.
[3] J, de Romilly, Omero, p. 56.
[4] Avezzù-Guidorizzi, Edipo a Colono, p. 232.
[5] Religiosità greca, p. 70.
[6]Introduzione a Omero , p. 99.
[7]F. Codino, Introduzione a Omero , p. 101.
[8]Poetica , 1453a.
[9]S. Kierkegaard, Enten-Eller , Il riflesso del tragico antico nel tragico moderno, Tomo Secondo, p. 24.
[10] S. Kierkegaard, Enten-Eller , Il riflesso del tragico antico nel tragico moderno, Tomo Secondo, p. 30.
[11]Repubblica , 617e.
[12]De beneficiis , 4, 19.
[13]S. West, Omero Odissea , Volume I a cura di A. Heubeck e S. West, p. 192.
[14]M. Bachtin, Esthétique de la création verbale , trad. francese, Paris 1984, p. 181 (trad. it. Estetica e romanzo . Teoria e storia del discorso narrativo, Einaudi , Torino, 1979).
[15]C. Miralles , Come leggere Omero , pp. 84-85.
[16]Storia dell'arte antica , in Il Bello Nell'arte , p. 133.
[17]Storia dell'arte antica , in Il Bello Nell'arte , p. 133.
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