giovedì 17 aprile 2025

Joyce, Ulisse. Sesto episodio Ade il funerale. terza parte.


Il gusto del mostruoso

 

Alcuni conoscenti seguono il funerale di Patrick Dignam

La carrozza si inerpica su una salita. Acciottolio delle sue ossa

sopra i sassi 133

Rattle of his bones. Over the stones 86.

Mr. Power deplora il suicidio come una disgrazia estrema e una vergogna per la famiglia. Il padre di Bloom si è suicidato e il figlio sta per replicare ma si trattiene e serra le labbra: “Mr. Bloom, about to speak, closed his lips again”v86

Poi pensa a quello che ha sentito.  “Non perdonano né il suicidio né l’infanticidio.  Apprezza Mr. Cunningham che ha detto: “it is not for us to judge” non sta a noi giudicare. Bloom pensa che ai suicidi  è  rifiutata la sepoltura cristiana. Anzi infilano un palo di legno nel cuore- As if it wasn’t broken already, come se non fosse già spezzato. E’ l’eterna spietatezza verso chi cade.

Un armento di bovini misto a un gregge di pecore sfilò davanti ai finestrini e Mr. Power il fustigatore dei suicidi dice emigrants 87, emigranti 135.

Il mandriano incalza il bestiame e Bloom pensa al crudele destino di quelle bestie: Tomorrow is killing day. Roast beef for old England 87, domani è girno di mattatoio. Rosbif per la vecchia Inghilterra 135. Commercio di carne morta. Parlano di un funerale durante il quale si capovolse il carro funebre e scodellò la bara per strada 136 and upset the coffin on to the road 88 and the corpse fell about the road, terribile disse Cunningham. Poi aggiunge piamente piously: “ Dio ci scampi”

Bloom procede con pensieri funerei irriverenti e pure inverecondi.

Pensa alla bocca aperta del morto dall’aria interrogativa: chiede che cosa succede. L’interno si decompone: much better to close up all orifices molto meglio tappare tutti gli orifizi. Sì, anche  con la cera with wax. Lo sfintere rilassato. Sigillare tutto 136. The sphincter loose. Seal up all 88

 

La morte e la vita

Il gusto della provocazione, dell’orrore. Tipico della decadenza, di ogni decadenza. Mi viene in mente un brano del Trionfo della morte di D’Annunzio con “tutte le brutture dell’ilota eterno (…) le bocche sottili come tagli di rasoio, o aperte e flaccide come fichi sfatti, o munite di denti formidabili come zanne dei cinghiali; i labbri leporini, i gozzi, le scrofole, le rispole, le pustole: tutti gli orrori della carne umana passavano nella luce del sole, davanti alls Casa della Vergine.

Viva Maria!” (IV, 6).

Si vuole stupire il lettore o l’osservatore.

Passando al cinema, penso a Fellini. Anche l’ultimo di Sorrentino Parthenope che pure racconta le vicende di una ragazza meravigliosa si compiace della mostruosità. Perfino la bellissima protagonista è attirata dal mostruoso.

Questo capitolo è un controcanto rispetto all’XI canto dell’Odissea dove Ulisse evoca gli spettri.

Nietzsche vi ravvisa un rovesciamento della sapienza silenica. Achille nella Nevkuia dice al figlio di Laerte " non consolarmi della morte, splendido Odisseo./Io preferirei essendo un uomo che vive sulla terra servire un altro,/presso un uomo povero, che non avesse molti mezzi per vivere,/piuttosto che regnare su tutti i morti consunti"(Odissea , XI, 488-491).

Essere vivi diventa il valore supremo. "Per esprimere con impressionante efficacia il suo rimpianto per la vita, il morto Achille dice a Odisseo che lo incontra nell'oltretomba: vorrei lavorare come un thes ( qhteuevmen[1], Od. XI, 489)"[2].

Già nel IX canto dell’Iliade Achille aveva detto che niente ha lo stesso valore della vita: “ouj ga;r ejmoi; yuch`~ ajntavxion (v. 401): non le ricchezze di Ilio prima della guerra, non quanto racchiude la soglia di pietra del tempio di Apollo.

Buoi e grassi montoni si possono rapire, i tripodi si possono comprare e pure bionde criniere di cavalli, ma la vita di un uomo (ajndro;~ de; yuchv) non la puoi rapire né afferrare perché torni indietro, quando ha superato la chiostra dei denti (405-408).

Ora rileggiamo Nietzsche:

“Il Greco conobbe e sentì i terrori e le atrocità dell’esistenza: per poter comunque vivere, egli dové porre davanti a tutto ciò la splendida nascita sognata degli dèi olimpici. L’enorme diffidenza verso le forze titaniche della natura, la Moira spietatamente troneggiante su tutte le conoscenze, l’avvoltoio del grande amico degli uomini Prometeo, il destino orrendo del saggio Edipo, la maledizione della stirpe degli Atridi, che costringe Oreste al matricidio, insomma la filosofia del dio silvestre  con i suoi esempi mitici, per la quale perirono i malinconici Etruschi –fu dai Greci ogni volta superata, o comunque nascosta e sottratta alla vista, mediante quel mondo artistico intermedio degli dèi olimpici.   Fu per poter vivere che i Greci dovettero, per profondissima necessità, creare questi dèi: questo evento noi dobbiamo senz’altro immaginarlo così, che dall’originario ordinamento titanico del terrore  fu sviluppato attraverso quell’impulso apollineo della bellezza, in lenti passaggi, l’ordinamento divino olimpico della gioia, allo stesso modo che le rose spuntano da spinosi cespugli"[3].

 

Grazie al mondo olimpico l’esistenza diventa sopportabile, anzi desiderabile, per quel popolo incline a soffrire. Così gli dèi giustificano la vita umana, vivendola loro stessi.

Allora la sapienza silenica si ribalta

La misura apollinea e omerica dunque costituisce un antidoto a tale pessimismo: Omero giustifica le difficoltà e gli inganni della vita con l'eroismo e la bellezza; allora vivere, vivere comunque, diventa il bene supremo, e Achille nell'Ade chiede a Odisseo di non volere consolarlo della morte ("mh; dh; moi qavnaton ge parauvda, Odissea , XI, 488)

 

Bologna 17 aprile 2025 ore 16, 33 giovanni ghiselli

p. s.

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[1]  infinito atematico con desinenza  -men (considerato un eolismo come vedremo) del verbo qhteuvw che   significa "lavoro come salariato, qhv""; ebbene, commenta M. Finley, "Un thes , non uno schiavo, era l'ultima creatura sulla terra che Achille potesse pensare. Il terribile per un thes  era il fatto di non avere legami, di non appartenere a nulla" (Il mondo di Odisseo , p. 39).

[2]F. Codino, Introduzione a Omero , p. 128.

[3] F. Nietzsche, La nascita della tragedia, capitolo 3

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