domenica 27 aprile 2025

Ifigenia LXXVII. La superstizione della partenogenesi. Dedicato alle ragazze madri.


 


 

Dopo cena scesi di nuovo sulla sponda dell’Avisio, poi salìi fino alla Malga Panna di Sorte. Quindi rifeci la discesa e la salita, infine andai a letto, pago di questo moto necessario alla salute e alla conservazione della decenza  somatica

Ricordai la prima notte passata a Moena una trentina di anni addietro. Allora  non mi addormentai fino all’alba siccome mi mancava la mamma . Abbracciavo la suo posto il cuscino, lo accarezzavo, lo baciavo, giuravo che non avrei amato mai altra donna che lei, che mai mi sarei sposato.

Una promessa mantenuta questa delle nozze neglette. Le chiedevo perché mi avesse allontanato da sé  affidandomi alle due sorelle più anziane, le zie Rina e Giulia che durante il viaggio in treno da Pesaro a Bologna, poi con un altro treno fino a  Ora, quindi nel trenino che arrivava a  Predazzo, e in conclusione nella corriera fino a Moena mi avevano spinto a fare il segno della croce ogni volta che vedevano anche lontani una chiesa o un cimitero di campagna. Almeno cento volte. Per giunta mi avevano rinchiuso in diversi golf dicendo che a Fontanefredde duecento metri sopra Ora iniziava l’inverno con le sue brume tremende. Ero imbozzolato come un verme e non ero per niente sicuro che mi sarei trasformato in un’angelica farfalla.

Quella notte lontana  del 1948, la prima di Moena dunque, avevo la testa aggirata da mille torbidi pensieri.

Non  ero sereno nemmeno la notte fra il 13 e il 14 aprile del 1979 a trentaquattro anni suonati. A Bologna mi aspettava una donna giovane, bella e disponibile assai, un risultato atteso, agognato e conseguito, una borsa di studio da studente ottimo, davvero meritevole,  un successo non da poco, eppure non trovavo il coraggio di gioirne senza riserve.

A venti anni nel tempo della depressione che mi aveva reso pazzo e deforme sarebbe stata follia sperarlo[1].

Quella sera di aprile dopo quasi tre lustri ero depresso e pazzo di nuovo, sia pure in maniera diversa. Tendevo di nuovo al ribasso.

“Una vergine voglio, per amare senza angoscia!” pensavo, “una che non faccia sesso nemmeno con me”.

Sia chiaro che mi vergogno molto confessando questo demenziale orrore. Cerco di scusarmi e giustificarmi adducendo il lavaggio del cervello subìto in famiglia, in parrocchia, a scuola, perfino giocando per strada con i  bambini coetanei, gli “squizzi”, come ci chiamavano i ragazzi più grandi del vicinato.

Mi vergogno ma devo chiarire questo ai miei lettori perché vedano una delle cause dell’ingiustizia, della prepotenza di tanti maschi verso tutte le femmine umane. La storia della verginità di Maria ha segnato, ha ferito le menti dei giovani della mia generazione e non solo. Il sesso secondo

l’ orrenda superstizione della “vergine madre” doveva essere la cosa più sporca del mondo, se  fatto da una donna. I maschi invece si vantavano di pagare le prostitute da strada. Tale modo di pensare è stato  una peste mentale odiosissima e deleteria.

Vero è che con le tre finlandesi di Debrecen non mi ero posto questo problema ed ero stato felice per tre mesi. Una che era incinta di un altro, e ciò non- ostante venne a letto con me, la amai più di tutte, senza riserve, e la considero ancora la migliore che abbia incontrato.

Come mai? Perché era una donna intelligente, sincera, dotata di stile: Elena era bella e fine.  Era autentica, non era fittizia. Era libera mentalmente e mi ha insegnato a diventarlo.

Per giunta più avanti avrei avuto una relazione triste con una vergine bugiarda.

 Arrivato intorno ai quaranta anni ho capito che quel pregiudizio odioso inculcatomi da un’educazione cattiva, nefanda, mi faceva spostare sulla mancanza della verginità i difetti reali della donna: quelli della insincerità, dell’insensibilità, dell’ignoranza dell’avidità, del calcolo meschino, insomma della disonestà associata alla maleducazione.

 

La mattina seguente chiedevo lumi al Piz Meda. Ma la sua roccia in forma di faccia umana taceva. Allora provai a guardare una rupe bicipite del Catinaccio: una la cui forma mi aveva fatto sempre pensare a una madre con il figlio piccino in braccio. Mi tornò in mente il dogma della Vergine madre. Mi avvelenava ancora, non l’avevo già rifiutato.

 

“Una vergine voglio: per amarla senza riserve” continuavo a  pensare, da imbecille. A trentaquattro anni suonati non era arrivato a una considerazione razionale dei fatti naturali  naturae species ratioque”.

Lo studio  di Lucrezio  mi aveva erudito ma non ancora educato: il sapere non era diventato sapienza. Avverrà solo qualche anno più tardi riguardo alla verginità: quando conobbi una vergine mendace, furace, rapace e incapace.

 

Allora non capivo che i veri difetti di Ifigenia non stavano nel suo imene bensì nell’egoismo, nell’esibizionismo, nella scarsa disciplina mentale.

 

Vagai inquieto per le vie del paese rimuginando pensieri confusi, cercando una chiarezza e un equilibrio tra questi. Di Ifigenia apprezzavo molto le belle membra e la volontà di imparare. Non era poco pensandoci bene.

Ma la depressione sceglie il male nel misto.

 

Poco prima delle sei, il sole richiamò la mia attenzione aprendosi un ampio varco tra le nuvole. Era già prossimo alla soglia del talamo. Entro qualche minuto vi sarebbe entrato chiudendo l’uscio e lasciandomi fuori, desolato del tutto.

Si trovava molto vicino al dorso del Sass da Ciamp e ne faceva ardere gli abeti come brace che sprizza scintille incandescenti. Quindi, toccata la schiena del monte, sembrava girare vorticosamente come una sega circolare e pareva polverizzare la poca neve rimasta, tagliuzzare le piante, frantumare le rocce sgretolandole in un pulviscolo rosso.

Da Someda osservavo il primo fra tutti gli dei adorandolo, e gli rivolsi una preghiera ad alta voce: “Con il tuo fuoco catartico, Signore, Mente dell’Universo, brucia i bubboni della mia mente schiava, malata, ammorbata dai furfanti bigotti, rapaci profanatori del tuo volto santo. Rendimi puro e capace di amare un’altra donna pura di cuore come era l’Augusta Elena”.

Un anziano con la moglie passavano vicino a me che pregavo inginocchiato e l’uomo disse alla donna: “che vergogna! così giovane e già ubriaco a quest’ora!”.

 

Quel “giovane” mi fece bene e anche l’”ubriaco” perché mi sentivo pieno  di spirito santo come gli Apostoli nel giorno della Pentecoste: et repleti sunt omnes Spiritu sancto” mentre venivano presi per brilli: “musto pleni sunt isti” (Atti degli Apostoli, 2, 4 e 13)

Mi girai e sorrisi al vecchio uomo con gratitudine per l’ottimo segno vocale che, senza sapere, mi aveva lanciato. Capì tutto e ricambiò il saluto.

 

Bologna 27  aprile 2025 ore 18, 40. giovanni ghiselli

p. s.

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[1] Vedi il primo capitolo del mio Tre amori a Debrecen disponibile per il prestito nella biblioteca Ginzburg di Bologna.

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