sabato 12 aprile 2025

Ifigenia XXXI Decadenza della cultura e della libertà negli ultimi anni Settanta.


 

“Che cosa fate voi due, appiccicati qui come piccioni? Non avete sentito la seconda campanella? Che cosa aspettate a entrare ciascuno nella sua classe? Forse la fine dell’ora? Voi mi fate perdere tempo e rubate dei minuti tanto al vostro lavoro quanto agli alunni”.

 

In quel momento aveva ragione poiché facevamo aspettare i nostri allievi per problemi che riguardavano soltanto noi. Avrei potuto scusarmi del ritardo ma non me lo consentì lo stile maleducato e offensivo di quella censura verbale.

Dissi solo: “Ora vado”.

 Appena entrato in classe però mi scusai con i ragazzi.

Lo stile di un adulto non è un fatto esteriore alla persona ma ne rappresenta il pensiero, il carattere, lo stesso destino. Insomma non dobbiamo mai chiederci perché uno si comporti in un certo modo: ciascuno di noi “fa” quello che  “è”.

In greco fare -dra`n- è il verbo che significa l’azione, compreso l’agire del dra`ma; ebbene io penso che ciascuno di noi vivendo reciti la persona che è, quindi la vera maschera-persona appunto in latino- di ognuno è la sua faccia. La maschera del resto può avere almeno due facce, come la testa di Giano. 

 

Il preside mio se doveva rivolgersi alle persone  presunte deboli in quanto  sottopposte alla sua autorità, usava il tono del duce sicuro di sé, imperioso  e intollerante di qualsiasi obiezione; tuttavia non era efficace, cioè non otteneva il risultato voluto, in quanto appariva presto come di fatto era: un uomo stentato,  e per smontarlo bastava non dargli importanza, ossia rispondergli con signorile noncuranza. Allora il suono rauco del suo trombone, teso ad affermare una supremazia sovrana, diventava un singhiozzo strozzato.

Nei momenti migliori quel pover’uomo  poteva manifestare aspetti di carattere non cattivo, perfino di umanità, come quando parlando con me una volta ammise di avermi fatto un grave torto nello spostarmi in una classe inferiore: “abbia pazienza professore- mi disse- summum ius summa iniuria”. Rimaneva comunque un uomo dal potere meschino, privo di ogni potenza: il summum ius , voleva dire,  non era  tanto incarnato  da lui, quanto dalla vicepreside che gli aveva potuto ordinare quello spostamento, e lui, appena arrivato nel liceo,  non aveva osato contraddire  la sua vice, una specie di factotum[1] che  nell’interregno aveva preso in mano la gestione della scuola e aveva attirato diversi seguaci tra i colleghi se non altro per i favori che poteva fare a chi le obbediva.

Se poi tale degradazione era ingiuriosa per me e danneggiava gli allievi del triennio, lui non aveva potuto fare altro. Davvero un pover’uomo.

Il suo intervento poco garbato aveva comunque ottenuto l’effetto di riavvicinare a me la giovane bella collega.

 

Mi ero dunque mosso dal primo piano per scendere a fare la lezione  dovuta agli scolari. Nel separarmi da Ifigenia, la ragazza mi fece un cenno amichevole con volto rasserenato. Simili alla pioggia e al sole nel cielo, sul viso di lei si alternavano, talora perfino si mescolavano, sorrisi e lacrime.

 

Dopo l’intervallo c’era un’assemblea studentesca. Il popolo degli studenti si radunava nella palestra. Mentre accompagnavo i miei, attendevo un altro segno da Ifigenia sperando che sarebbe stato buono. Infatti mi venne vicina con aria amichevole e disse che intendeva parlare in assemblea. Se tornare a casa dal marito o in quella dei genitori l’avrebbe deciso più tardi. Che non avesse menzionato casa mia quale dimora fissa non mi dispiacque. Ero già avvezzo alla solitudine strutturale necessaria allo studio, allo sport, alla riflessione. Gli incontri in casa mia dovevano essere sporadici e festevoli. La vita privata, nel senso di familiare, non doveva prevalere su quella dedicata a me stesso e alla scuola. 

Alla fine di novembre gli studenti liceali, in particolare quelli educati da me nei due anni precedenti, non avevano fatto il callo al predominio  della nuova cricca al potere : i giovani non erano ancora deculturalizzati e spoliticizzati  del tutto come sarebbero diventati nel giro di pochi anni.

Il verso delle mode stava comunque già cambiando da tempo.

Il non impedito assassinio di Aldo Moro era stato un segnale forte per la stessa classe politica italiana. Aleggiava nell’aria il detto di Caifas: “expedit ut unus moriatur homo”. Il tentativo del presidente della DC di avvicinare il PCI al governo non era piaciuto ai poteri veri. Il 9 maggio del 1978 ha segnato una svolta nella vita politica italiana. Più avanti saebbero stati annientati politicamente Craxi e Andreotti per la loro insubordinazione a chi comandava davvero.

Non si erano sottomessi abbastanza al potere reale.

 

Da un paio di mesi il preside appena arrivato e i suoi complici pretendevano che a scuola non si facesse politica né cultura, che non si evidenziassero le immagini belle né le idèe originali, sovversive, secondo loro, anche se lette nell’opera di Seneca per esempio.

Tutto ciò che poteva smentire il modo comune di pensare stava diventando tabù. La critica agli stereotipi del potere era già passata di moda.

Erano guardati e trattati male i pochi docenti che impiegavano i testi per aprire le menti dei giovani a quanto di intelligente e di bello c’è nell’umanità e nel mondo, al di là dei luoghi comuni imposti dalla pubblicità e dalla propaganda del potere.

Nel campo del latino e del greco docenti e discenti dovevano fermarsi a declinazioni, coniugazioni, regole ed eccezioni vere o presunte, senza arrivare al messaggio politico, estetico e morale contenuto nei testi.

Come seppe che insegnavo il latino con la grammatica e la sintassi necessarie ma non mi fermavo lì e procedevo analizzando i testi degli autori con i loro messaggi  etici, estetici e politici avversi all’ingiustizia, alla prepotenza e alla volgarità, il preside un giorno entrò in classe senza bussare, del tutto  inopinato e  cercò di sbugiardare me e Seneca morale, del quale leggevo e commentavo la Lettera 47. Disse ai ragazzini che quel finto filosofo bastonava gli schiavi. Le parole “Servi sunt, immo homines.  Servi sunt immo contubernales. Servi sunt immo humiles amici. Servi sunt immo conservi si cogitaveris tantundem in utrosque licēre fortunae (47, 1) secondo lui erano ipocrite e ingannevoli.

Gli alunni insomma dovevano pensare di meno e obbedire di più.

Pretendere che lo studio dei classici si fermi prima di dotare  i ragazzi dei mezzi della critica nei confronti delle varie tirannidi che vogliono annientare la libertà di parola, di pensiero e di sentimento, è come imporre che nel letto dove si nasce si dorma ma non si faccia l’amore, o che nel bagno non ci si lavi.

 

Bologna 12 aprile 2025 2024 ore 16, 28 giovanni ghiselli

 

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[1] Cfr. Fortunata del Satyricon  che è la moglie e il factotum di Trimalchione:" in caelum abiit et Trimalchionis topanta est " (37, 4).

 

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