Post amicitiam credendum est, ante amicitiam iudicandum (2), dopo che si è fatta amicizia si deve credere, prima bisogna giudicare
Cum placuerit fieri, toto illum pectore admitte; tam audaciter cum illo loquere quam tecum (2), quando avrai deciso che si faccia, spalancagli le porte del cuore; parlagli con lo stesso coraggio che con te stesso,
Fidelem si putaveris, facies; nam quidam fallere docuerunt dum timent falli (3) se lo avrai considerato fedele, lo renderai tale; infatti alcuni hanno insegnato a ingannare mentre temono di essere ingannati
Utrumque enim vitium est, et omnibus credere et nulli (4) è un errore tanto fidarsi di tutti quanto di nessuno
Cum rerum natura delibera: illa dicet tibi et diem fecisse et noctem. Vale. (3, 6) decidi in sintonia con la natura: ella ti dirà che ha fatto il giorno e la notte .
Cfr. le Fenicie di Euripide sull’eguaglianza come legge del cosmo dove luce e tenebra sono equamente divise
Euripide strappa a Eteocle l’aura eschilea del re preoccupato del bene comune. Giocasta contrappone all’ambizione del figlio l’ ijsovthς, l’uguaglianza, una norma del cosmo come si vede nella distribuzione di ore di luce e di buio che durante l’anno si pareggiano. Il più è invece il principio della discordia. Questa tragedia è del periodo del colpo di Stato oligarchico.
Tucidide ricorda che nello stesso governo dei Quattrocento prevalevano invidie e rancori poiché nessuno voleva l’uguaglianza ma ciascuno pretendeva di essere il primo. Tali sforzi portarono alla rovina di una oligarchia nata da una democrazia (VIII, 89, 3).
Giocasta nelle Fenicie dunque dunque professa un atto di fede nella democrazia e nell’uguaglianza.
Il più ha soltanto un nome: tiv d’ ejsti; to; plevon ; o[nomj e[cei movnon ( 553) , poiché ai saggi basta il necessario (ejpei; tav g j ajrkounqj iJkana; toi'ς ge swvfrwsin 554), le ricchezze non sono proprietà privata dei mortali (ou[toi ta; crhvmat j i[dia kevkthntai brotoiv 555), noi siamo curatori di cose che gli dèi possiedono (ta; tw'n qew'n d j e[conteς ejpimelouvmeqa, 556) e quando essi vogliono ce li ritolgono o{tan de; crhv/zw's j , au[t j ajfairou'ntai pavlin (557).
Euripide attraverso Giocasta si rivolge ai politici ateniesi di quegli anni intorno al 411 e al colpo di Stato oligarchico : mevqeton to; livan, mevqeton ( 584), abbandonate l’eccesso, abbandonatelo. E’ un monito alla parte oligarchica e a quella democratica.
Una posizione echeggiata da Menandro nel Duvskolo~ (del 316 a. C.), quando Callippide dice a Sostrato che non vuole prendersi un genero e una nuora pezzenti, e il figlio, il quale vuole sposare una ragazza povera e dare la sorella in sposa al fratello di lei, risponde al padre che lui non è veramente padrone delle cose che ha, ma esse appartengono tutte alla fortuna: “th'~ tuvch~ de; pavnt j e[cei~” (v. 801).
Luogo simile in Orazio:“Linquenda tellus et domus et placens-uxor neque harum, quas colis arborum-te praeter invisas cupressos-ulla brevem dominum sequetur” (Orazio, Odi, II, 14, vv. 21-24), devi lasciare la terra e la casa e la moglie amata, e di questi alberi che coltivi, nessuno ti seguirà, padrone istantaneo, tranne gli odiosi cipressi.
Altrettanto in Seneca che nella Consolatio ad Marciam (10, 2) scrive:"mutua accepimus. Usus fructusque noster est ", abbiamo ricevuto delle cose in prestito. L'usufrutto è nostro.
Bologna 14 aprile 2025 ore 19, 09 giovanni ghiselli
p. s.
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