La mattina del 31 dicembre andammo a osservare le tombe ipogèe di Tarquinia. Fuori pioveva sul grano in erba e sulla terra fangosa. Camminavamo sul fianco di un colle sotto tre grandi ombrelli neri finché non scendemmo tra i morti. Vedevamo paurose torture infernali e scene lascive sulle tombe dipinte da quel popolo antico, sensuale e pauroso dell’Orco. Pensavo all’estinzione di quella gente con la sua cultura, e alla decadenza della stirpe Martelli, quella etrusca del nonno Carlo di Borgo Sansepolcro.
I malinconici Martelli precedenti avevano perso al gioco dei poderi e il nonno mio aveva venduto il suo grande palazzo antico per pochi denari, ai Buitoni. Quando vado a vedere il palazzo Martelli che risponde a via Antonio da Anghiari e si affaccia pure in via Agio Torto mi pare di visitare un’altra necropoli.
Ma torniamo a quella di Tarquinia. “La civiltà degli Etruschi-pensavo quella mattina- si è estinta così come si annienta la vita di un uomo che cede al terrore invece di contrastarlo con l’amore e con la bellezza.
Me l’ha insegnato Nietzsche. Voglio ricordartelo, lettore. La sapienza silenica ribaltata grazie all’impulso apollineo verso la bellezza della vita:
“L'enorme diffidenza verso le forze titaniche della natura, la Moira spietatamente troneggiante su tutte le conoscenze, l'avvoltoio del grande amico degli uomini Prometeo, il destino orrendo del saggio Edipo, la maledizione della stirpe degli Atridi, che costringe Oreste al matricidio, insomma tutta la filosofia del dio silvestre con i suoi esempi mitici, per la quale perirono i malinconici Etruschi, fu dai Greci ogni volta superata, o comunque nascosta e sottratta alla vista, mediante quel mondo artistico intermedio degli dei olimpici. Fu per poter vivere che i Greci dovettero, per profondissima necessità, creare questi dèi: questo evento noi dobbiamo senz'altro immaginarlo così, che dall'originario ordinamento divino titanico del terrore fu sviluppato attraverso quell'impulso apollineo di bellezza, in lenti passaggi, l'ordinamento divino olimpico della gioia, allo stesso modo che le rose spuntano da spinosi cespugli (…) Così gli dèi giustificano la vita umana vivendola essi stessi-la sola teodicea soddisfacente! L'esistenza sotto il chiaro sole di dèi simili viene sentita come ciò che è in sé desiderabile, e il vero dolore degli uomini omerici si riferisce al dipartirsi da essa, soprattutto al dipartirsene presto: sicché di loro si potrebbe dire, invertendo la saggezza silenica, " la cosa peggiore di tutte è per essi morire presto, la cosa in secondo luogo peggiore è di morire comunque un giorno". Se una volta risuona il lamento, ciò avviene per Achille dalla breve vita, per l'avvicendarsi e il mutare della stirpe umana come le foglie[1], per il tramonto dell'età degli eroi. Non è indegno neanche del più grande eroe bramare di vivere ancora, fosse pure come un lavoratore a giornata[2]. Nello stadio apollineo la "volontà" desidera quest'esistenza così impetuosamente, l'uomo omerico si sente con essa così unificato, che perfino il lamento si trasforma in un inno in sua lode". F. Nietzsche, La nascita della tragedia, capitolo III.
Dopo tale reminiscenza mi volsi al bello con semplicità che amo nell’arte greca. Quindi pensai alle mie amanti di formato classico, Elena [3]sopra tutte, la donna Augusta, non paurosa dell’Orco, anzi fidente di guadagnare un posto negli Elisi per sé e per gli amanti beatificati da lei.
Chi l’ha amata è diventato gambro;" Diov"", genero di Zeus[4].
Quando fummo tornati sotto il cielo piovoso, riparandocene con ombrelli neri, notai due belle fanciulle vicine a un muro tombale. Erano coperte da impermeabili leggeri, coloriti come fiori di primavera. Si scambiavano strette di mano e sorrisi.
Emanavano gli aromi dell’adolescenza.
A un tratto la più bellina e luminosa delle due ragazze vivaci si accorse che la stavo guardando con simpatia: disse qualcosa all’amica e ricambiò la mia attenzione con un sorriso, non senza accennare a un saluto.
Niente mi ha reso mai tanto felice quanto la simpatia delle donne. Quando poi penso che una giovane dolce sorridente potrebbe essere la figlia mia nata per miracolo contro la volontà della madre sua[5], mi commuovo e cascate di lacrime erompone dagli occhi. Allora mi viene in mente che uno dei peggiori peccati davanti a Dio è quello di sciupare il dono meraviglioso della vita nelle angosce e nei terrori, è rinunciare all’amore o sporcarlo per debolezza, stupidità, per mancanza del coraggio di essere del tutto buoni e felici.
Bologna 19 apile 2025 ore 11, 58 giovanni ghiselli
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[1] Cfr. Iliade, VI, 146:"oi[h per fuvllwn genehv, toivh de; kai; ajndrw'n", proprio quale la stirpe delle foglie, tale è anche quella degli uomini. (n. d. r.)
[2] Cfr. Odissea , XI, vv. 488-491. (n. d. r.)
[3] Vedi Il mio Tre amori a Debrecen, in prestito nella biblioteca Gimzburg di Bologna.
[4] Odissea, IV, v. 569
[5] Anche questa storia è raccontata in circa 80 pagine nel mio libro Tre amori a Debrecen, in prestito nella biblioteca Gimzburg di Bologna.
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