Il 10 del mese di marzo, un dì senza nubi né angosce, all’ora del tramonto, le 17 e 55 nel mio studio cui del resto una collina, sebbene lontana, invidia l’ultimo tratto della discesa del dio, alle sei meno cinque minuti dunque, scrivevo che gradivo la mia compagna con mente serena, cioè con l’animo sgombro dal sospetto meschino, dalla sadica, volgare e stupida volontà di sottometterla e controllarla.
L’ordine mentale rispecchiava l’aspetto pulito del cielo.
Ora so che quel gradimento della bella ragazza era soprattutto la riconoscenza della voluttà ricevuta generosamente da lei. Il benessere durò un mese abbondante.
Intorno alla metà di aprile però una nuvola nera attraversò il nostro cielo, per fortuna senza indugiare troppo. Il 14, mercoledì, appena finita la scuola, avvisai Ifigenia che nel pomeriggio dovevo andare a Pesaro per fare un favore a una delle mie zie: la valetudinaria Giorgia che lamentava, da quando la conobbi bambino, di essere vicina a morire. Di fatto è arrivata a 99 anni. Se ci arrivassi pure io, ne avrei altri 19 da vivere ancora.
Le sono grato perché mi ha lasciato una casa il cui affitto concede qualche eccezione al mio regime di vita assai trito e parco.
Se posso permettermi alcuni viaggi, degli spettacoli e dei libri, lo devo a questa zia.
Diceva che ero il suo nipote prediletto, siccome mi prendevo qualche cura di lei. Aveva telefonato la sera prima chiedendomi aiuto: voleva farsi curare a Bologna perché non si fidava dei medici dell’ospedale di Pesaro. Sapeva della mia amicizia con Esculapia e voleva essere ricoverata nella clinica dove lavorava. L’amica dottoressa fu buona e promise il suo aiuto. Sicché avvisai la zia che sarei andata a prenderla nel pomeriggio.
Ifigenia se ne dispiacque: “così oggi non facciamo l’amore. Mi mancherai tanto”
“Anche tu, ma consoliamoci: è solo per oggi. Domani ci vediamo a scuola poi andremo a casa mia dove faremo scintille”.
Poco prima che partissi però la zia Giorgia fece una telefonata dicendo che quel pomeriggio non si sentiva di viaggiare: la notte aveva dormito male. “Capisco”- le dissi- rimandiamo”. Faceva parte della sua strategia darsi per malata e capricciosa per giunta: credo che fin da bambina avesse adottato questo espediente per attirare le premure della madre: era, secondo lei, il tornaconto della malattia. Non bisogna mai rovinare il carattere dei giovani con l’assecondarli quando si lagnano credendo di trarre vantaggio dalle loro debolezze che ostentate, magari simulate con il tempo diventano vere malattie, ulcere mentali e pure fisiche. Durante i due anni sciagurati della mia depressione ero caduto anche io in questo orribile vizio. Quando mi compativano, io sprofondavo sempre di più finché Fulvio mi disse: “caro mio, non ti manca niente. Se non la smetti di lamentarti ti prendo a bastonate. Se minacci ancora di ucciderti, ti ammazzo io con queste mie mani”. Eravamo nel luglio del 1966.
Mi salvò e gli ho voluto bene per sempre. Mi ha guarito e pure educato.
Dovetti scusarmi con Esculapia che fu buona un’altra volta e disse che la zia poteva contare su di lei.
Non potei avvisare Ifigenia che non riuscivo a trovare. Sicché mi credeva a Pesaro. Feci un’ora di sport poi mi diedi allo studio della letteratura moderna che comparata all’antica appulcrava le mie lezioni.
Verso le nove di sera mi cercò un’ex alunna: si era iscritta a lettere antiche e voleva dei consigli. La invitai al bar Diana dei Greci. Si facevano discorsi relativi allo studio e alla scuola. Si parlava senza malizia e con amicizia, come mi succede di rado. Voglio dire che non la corteggiavo punto, neppure per scherzo. Era secca e non era mora. Quindi magnificavo il mio amore per Ifigenia. A un tratto la porta del bar si spalancò spinta con forza, con fretta e quasi con furia dalla mia donna. Era vestita di azzurro e appariva agitata. Cercava me con occhi infuocati che scrutavano l’ambiente. Doveva avere visto la mia automobile: la nera Volkswagen e mi cercava per aggredirmi. Sebbene avessi notato la sua furia nervosa, fui felice di questa apparizione insperata, quasi miracolosa. Mi alzai, le andai incontro e l’invitai a bere una birra dicendo che dovevo spiegarle come mai ero lì invece che a Pesaro. Ma la mia bella e florida mora era gonfia di rabbia e non mi ascoltava: era sicura di essere stata tradita e disse che non aveva tempo da perdere con un fellone. Doveva andare a cantare in parrocchia nel coro del domine. L’amica rimase seduta e sbigottita. Accompagnai Ifigenia fino alla soglia. Giunti sull’uscio le dissi piano piano: “ego non corpolariter curavi illam, non propter formam sed quia frugi est” Erano parole prese dal Satyricon e citate non senza ironia. La bella donna mi ricambiò con Da Ponte: “Va là, che sei un buffone!”. Aveva ragione? Dillo tu, lettore. Cercai di risponderle a tono: “Mozart è nell’udibile quello che il sole è nel visibile, ed è Dio è nell’intellegibile”.
Io però non sono nessuno: nemmeno un buffone né, tanto meno, fellone”.
Ma colei si allontanò da me piena di sdegno e sbattendo la porta
Bologna 22 aprile 2025 ore 18, 12 giovanni ghiselli
p. s.
Vedo e rivedo questo romanzo nato da appunti con i quali mi sono affrettato a salvare i fatti. Quindi ho aggiunto le riflessioni e i possibili nessi tra i fatti miei e quelli di chi mi legge in modo da renderli interessanti non solo per me. Poi ho aggiunto dei collegamenti con la letteratura, la scuola, il cinema, lo sport e altri interessi capitali nella mia vita e in quella di tante altre persone. Infine, nell’ultima revisione che credo sia questa, ho cercato la bellezza di ogni parola e l’armonia musicale del loro accordo. Ho dovuto lavorare molto per prepararmi. Tante letture, pensieri, sentimenti, confronti. Non sta andando male. I lettori sono tanti in diverse parti del mondo.
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