Ifigenia aveva capito e soffriva l’ignobile proposito mio di non prendermi alcuna responsabilità mentre pretendevo che lei se la cavasse da sola con il marito, grande grosso e magari infuriato. A un tratto però la ragazza sfoderò la sua bella fierezza di femmina abituata a essere desiderata dagli uomini, e, non senza disprezzo, disse: “Non avere paura per te: ieri mi sono chiusa in camera senza parlare, oggi a casa mia non torno, e tanto meno verrò nella tua”.
Rimasi spiazzato e le domandai: “Dove pensi di andare? Se non sono indiscreto”
“Non ti riguarda”-rispose, volgendosi di nuovo verso la caligine esterna che le abbuiava completamente il viso già cupo per la disillusione provata davanti a tanta meschinità.
In seguito alla dura risposta fui preso dalla paura di perdere il piacere di tale femmina umana, bellissima e fiera, un piacere che tenevo in maggior conto dei sentimenti, soprattutto dei suoi.
Sicché cambiai tono e dal mio repertorio tirai fuori alcune battute piene di compassione e di promesse.
Ma Ifigenia non si lasciò commuovere né incoraggiare: continuava a fissare la tenebra esterna come se fosse più interessante delle parole che le andavo dicendo. Del resto nemmeno queste erano chiare.
Allora la paura di perdere il godimento della sua bella forma corporea, il desiderio di fare l’amore con lei tante altre volte, e forse anche la remota coscienza che perderla troppo presto era andare contro il destino in quanto con lei dovevo creare qualche cosa di grande e meraviglioso, prevalsero sulla paura di prenderla ancora per mano e aiutarla.
Ricordai la sera dell’agosto del 1971 quando riuscìi a trattenere Helena che mi stava lasciando, e realizzaia la più nobile e bella delle mie donnesche imprese. Sicché mi feci tornare in mente tanto le parole quanto i gesti da melodramma di allora e rimisi insieme le espressioni di sollecitudine che mi erano valse a riconquistare l’attenzione della grande donna di quell’estate lontana[1].
Cito qui alcune delle parole capaci di aprire i serrami di quella porta che Helena Augusta mi aveva già chiuso in faccia.
L’autocitazione. Una storia morale.
Allora Helena disse: “Non essere falso almeno. Ho visto quanto ti attirava la ragazza francese e quanto avresti voluto essere libero per lasciarti andare con lei. Ebbene, puoi farlo, o puoi continuare a farlo. Non preoccuparti per me: considerati sciolto da ogni legame tra noi, fai come se non mi avessi mai conosciuta; io adesso torno in camera mia e domani sparisco dalla tua vita”.
Si alzò dal letto e si diresse verso la porta. Allora capii. Capii di essere stato stupido, volgare e crudele; capii che quella creatura in attesa di un’altra creatura, non doveva subire ingiustizia, umiliazioni e dolori. Non da me. Avevo capito e sentivo che non vi è felicità grande senza morale profonda[2].L’azione cattiva è pessima per chi l’ ha progettata e la compie[3].Chi prepara il male a un altro, lo apparecchia a se stesso[4].Ne avrei avuto rimorso per tutta la vita, forse anche oltre. E non solo per questo: io l’amavo, lei mi aveva reso migliore, e siccome in sua presenza mi vergognavo di essere ingiusto, mi avrebbe reso ancora migliore. La terra è in mezzo alle stelle, e sulla terra ci sei tu amore mio. Mi alzai, le afferrai la mano sinistra e dissi: “Scusa, Elena, aspetta. Ora devo parlare io a te. Ne ho bisogno. Ti prego”. Si fermò, mi guardò, poi sedette di nuovo. Questa volta sul mio, sul nostro letto dove Eros ci aveva uniti in tanti, mai troppi tripudi gioiosi. Sospirai profondamente, le accarezzai i capelli nerissimi, folti, lucenti e la guardai con simpatia autentica. Elena era come me quando venivo vessato dai prepotenti: chiedeva giustizia a uno che aveva provato l’ iniquo impulso del tradimento e dell’oppressione.
“Scusami, amore, hai ragione”, dissi. “Prima stupidamente ho bevuto due o tre palinke e ho perso la lucidità mentale. Poi ho ballato e ho sorriso sfacciatamente con quella ragazza francese. E’ vero, le ho fatto la corte, ma niente di più. Ho detto poche parole vuote”. Mi fermai un momento.
Poi le citai quanto dice Hans Castorp a madame Chauchat, la donna dagli occhi da Chirghisa: “Parler français, c’est parler sans parler, en quelque manière… sans responsabilité, ou comme nous parlon en rêve ”
Helena mi guardò perplessa.
“Ora ti metti anche a parlare francese?” , mi domandò.
“No, je ne parle guère le français: ho solo imparato a memoria alcune parole di Thomas Mann”[5], risposi.
Poi continuai: “L’ho abbracciata, come si fa quando si balla, le ho fatto qualche complimento, ma non l’ho baciata. Comunque mi dispiace, ora me ne vergogno. Io voglio te, ne sono sicuro, voglio stare con te, soltanto con te, finché tu mi vorrai. Voglio rispettarti come rispetto me stesso, perché tu sei la mia compagna e ancora di più perché ti amo. Tu devi essere sempre felice, almeno per quanto dipende da me. Ne sento la responsabilità”.
Mi osservava, prima con sguardo dubbioso, poi capì e sentì che parlavo sul serio, con la testa e con il cuore, con tutto me stesso insomma. Infine mi sorrise convinta e mi accarezzò. Allora io, spingendole in basso una spalla, la stesi sul letto, quindi cominciai ad accarezzarle una coscia, sotto la gonna, con l’intento evidente di fare l’amore subito. Ma lei scostò la mano inopportuna e tutta la mia persona petulante, si rimise seduta, e disse: “Aspetta”.
“Perché aspetta ?” le domandai, fingendo di non capire o senza capire davvero. Non mi ricordo.
“Perché voglio parlare ancora. Io non sono…”. Disse in inglese una parola che non compresi. Le chiesi di ripeterla. “In latin is materia” spiegò. Io non sono materia.
Magnifica” pensai. La stimai e l’amai ancora di più per questa affermazione della sua dignità di donna e di persona; quindi vidi con chiarezza maggiore quanto fossi stato volgare, crudele e immorale civettando con la ragazzetta francese.
Ad temporum ordinem redeo[6]
La commedia ripetuta con i necessari aggiustamenti funzionò anche questa volta. Ifigenia mi guardò rabbonita, sicché potei rivolgerle un sorriso non stirato dall’angoscia né capovolto dall’ironia, e la ragazza contraccambiò la mia espressione rasserenata, quasi a significarmi che poteva capire e compatire la mia vigliaccheria.
Quindi cominciai ad azzardare il gesto di una carezza mentre le dicevo che avrei voluto baciarla e asciugare le sue lacrime con i baci lacrimasque per oscula siccare. Mi sovvenne quanto il latino piaceva a Kaisa nell’estate del 1972[7]. Un’altra giovane donna corteggiata come si deve.
Dai dolori sofferti si impara ma dai successi goduti ancora di più.
Avevo ripetuto un’altra mossa giusta nella partita a scacchi che stavo giocando: piacque pure a Ifigenia che mi domandò: “ E questo autore latino chi è?”
E’ Ovidio nei Fasti (III, 509). L’ho scritto per te lettore.
A lei invece non potei dirlo perché alle nostre spalle era piombato il preside nostro, certamente non per dirci “bravi!”.
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Bologna 12 aprile 2024 ore 10, 10 giovanni ghiselli
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[1] Cfr. Il mio Tre amori a Debrecen. Si trova in prestito nella biblioteca Ginzburg di Bologna. Non compratelo dunque!
[2] Cfr. R. Musil, L’uomo senza qualità. Verso il regno millenario. “E sostengo che non vi è profonda felicità senza morale profonda”.
[3] Cfr. Esiodo, Opere e giorni, v.266.
[4] Cfr. Esiodo, Opere e giorni, v. 265. Seneca ribadisce questa legge nell’ Hercules furens:" quod quisque fecit, patitur: auctorem scelus repetit " (vv. 735-736), ciò che ciascuno ha fatto lo patisce: il delitto ricade sull'autore.
[5] La montagna incantata. V Notte di Valpurga. Parlare francese è parlare senza parlare…senza responsabilità, oppure come parlare in sogno…quasi non parlo il francese. Vi consiglio di leggere anche questo libro.
[6] Non senza questa citazione (Tacito, Annales, XII, 40)
[7] Questo è il secondo dei Tre amori a Debrecen.
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