“Non vi è profonda felicità senza morale profonda”[1]
Quando suonò la campanella dell’intervallo andai a cercare Ifigenia. La ragazza allora alleviava i pesi più gravi che avevo sull’anima facendo riemergere la mia forza mentale e vitale dall’abisso di delusioni e dolori dove era caduta. La giovane donna mi aiutava a ritrovare la voglia di vivere dei mesi benvissuti nella bella stagione precedente quando avevo gioito lavorando, facendo l’amore, pedalando, correndo, nuotando.
La ragazza e collega mi dava anche il coraggio di oppormi ai subdoli e talora pure violenti nemici della mia identità conquistata con tanto impegno, di non tradirla, né sporcarla, di non cedere alle pressioni intese a schiacciarmi, ad annullare il bene e il bello conquistati con tanta fatica.
La vidi nel corridoio che mena al portone dell’uscita: aveva la fronte appoggiata a una vetrata che inghiottiva la tenebra esterna. Le solide brume di fine novembre avevano vinto la facile gara sui cavalli del sole, bolsi in quei giorni, e incapaci di alzarsi nell’ atmosfera tanto da forarne l’oscurità e recare conforto ai mortali. Dopo la momentanea epifania della prima mattina, la carissima stella era sparita, ingozzata dalle fauci di una sordida massa buia, pesante, bagnata che faceva sparire la luce, come un obeso sudato e sudicio inghiotte qualsiasi pezzo di roba che gli gonfi la pancia.
Quando Ifigenia si voltò, vidi che piangeva.
Mi avvicinai. Versava lacrime grandi dagli occhi di piccola cerbiatta che non trova la mamma.
“Perché piangi tesoro?” Le domandai commosso e spaventato da quel dolore che le colava cristallino dagli occhi .
“Ieri sera mio marito è andato a prendermi alla scuola di Yoga e gli hanno detto che non ci ero andata. Mi ha inquisito a lungo. Voleva sapere perché. Temo che abbia capito come stanno le cose”
La ragazza si asciugò il viso con le mani chiuse a pugno, come fanno le bambine. Poi mi guardò con aria supplice e interrogativa. Ne ebbi paura e non la dissimulai, anzi manifestai lo spavento dicendole con voce alterata e tono aggressivo: “ Tu non avrai mica detto la verità?”
Turbata era soprattutto la mente mia.
Il terrore di perdere la mia indipendenza aveva stravolto e annientato l’atteggiamento protettivo e sicuro che prendevo di solito con la giovane collega che chiedeva il mio amore e il mio aiuto.
Temevo diversi attacchi alla mia integrità fisica e mentale, al mio equilibrio, alla mia identità fatta in massima parte di solitudine, studio, giri in bicicletta, esposizione al sole per migliorare il mio aspetto e il mio umore.
Se perdevo queste attività di base, smarrivo un’altra volta me stesso con il rischio di perdermi questa volta per sempre. A 33 anni 11 mesi e 15 giorni stavo già diventando un misantropo come Cnemone del Dyskolos di Menandro o come Timone ateniese di Plutarco e di Shakespeare.
Guardavo intorno a noi due per vedere se mi confortava l’apparizione di un’altra giovane donna dagli stivaletti screziati magari, e in procinto di lanciarmi un sorriso o una palla variopinta perché gliela restituissi con uno scambio di forte simpatia.
Invece vidi passare un collega dai capelli ritinti “nero-rossi, qual pelo di faina, radi ahimé, davvero pochini”[2].
Ci guardò male e proseguì, miserando e implacabile com’era.
L’angoscia mi attanagliava perché ero insicuro dal punto di vista morale siccome avevo fin da subito istigato la ragazza malmaritata a mentire a quell’uomo, comunque suo sposo, a nascondere la verità dei fatti che pure mi avevano dato gioia, non solo piacere. Nella mia ansia causata dai sensi di colpa arrivavo a pensare che in fondo il preside e i colleghi nemici non avevano tutti i torti nel reputarmi un farabutto invischiato in una tresca illecita oltretutto esibita perfino a scuola con impudicizia triviale.
Ifigenia, constatata la mia viltà e la cattiva coscienza, si irrigidì e mi guardò con disprezzo: avevo smentito l’immagine che all’inizio le avevo ispirato: quella del giovanni se proprio onesto come il precursore di Cristo, per lo meno intelligente, colto e coraggioso.
Dalla sua espressione era venuto meno quel confidente immaginare pieno di mito e poesia tra noi due. Sentivo che la gioia, l’allegria e l’orgoglio della coppia illegittima stavano cadendo nel buio che oscurava ogni ambiente poco prima della metà del giorno.
Mi venne in mente una bella sentenza di Seneca che avevo imparato da poco per insegnare il latino e la morale agli allievi: “ego enim nego quemquam posse iucunde vivere nisi simul et honeste vivit”[3], io infatti credo che nessuno può vivere piacevolmente se nel contempo non vive onestamente. Predicavo l’etica ma ero immorale. Nemmeno razionale né pragmatico ero, poiché le menzogne che suggerivo e imponevo alla mia compagna danneggiavano e addoloravano entrambi.
Avvertenza: il blog contiene tre note
Bologna 11 aprile 2025 ore 11, 47 giovanni ghiselli
p. s.
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