Vediamo qualcos’altro sulla fine raccontata da Svetonio.
Nerone voleva presentarsi agli eserciti ribelli non facendo altro che piangere; poi, ravvedutisi questi, laetum inter laetos cantaturum epinicia (43) che già stava componendo. Preparava la spedizione scegliendo i veicoli per trasportare attrezzi teatrali, e fece tosare e armare da maschi le concubine che voleva portare con sé.
Il liberto Faonte gli offrì il suo villino tra la Salaria e la Nomentana a quattro miglia a nord del Palazzo. Si diresse là. Passò per harundinēti semĭtam, per il viottolo di un canneto (48), e arrivò al muro posteriore della villa. Faonte lo esortò a nascondersi in una cava di sabbia ma Nerone negavit se vivum sub terram iturum, poi prese in mano l’acqua di una pozzanghera e disse Haec est Neronis decocta (48), l’acqua distillata di Nerone. Era acqua bollita e poi raffreddata nella neve (Plinio, Nat. Hist., 31, 40) Quindi entrò e si ricoverò in una stanzuccia. Infine: “qualis artifex pereo!”-
E’ arrivato alla verità, alla non latenza, come Edipo. Tutta la sua vita è stata un coflitto tra latenza-contraffazione e non latenza-verità. Come quella di Edipo o di Ludwig di Baviera.
“Pensiamo all’Edipo re di Sofocle. Edipo, che all’inizio è il salvatore e il capo dello Stato, nel pieno splendore della sua gloria e della benevolenza accordatagli dagli dei, viene in seguito discacciato da questa apparenza-la quale non è una semplice veduta soggettiva che Edipo ha di se stesso, ma ciò in cui si verifica l’apparire del suo esserci-fino a che si verifica la non-latenza del suo essere come uccisore del padre e profanatore della madre. La via intercorrente da quell’inizio glorioso a questa fine orribile è tutta una lotta fra l’apparenza (latenza e contraffazione) e la non latenza (l’essere). La latenza dell’uccisore dell’ex re Laio si accampa, per così dire, tutt’intorno alla città. Con la passione di chi si trova nel pieno splendore della sua gloria, con la passione di un greco, Edipo s’inoltra verso la rivelazione di questo suo segreto. Egli deve così, passo passo, porsi da se medesimo nella non-latenza che non riesce, alla fine, più a sopportare che a patto di cavarsi gli occhi da se stesso, sottraendosi così a ogni luce e lasciando cadere intorno a sé la tenebra che tutto nasconde, e come uomo abbacinato gridando di spalancare tutte le porte per rivelarsi al popolo per quello che è. Non dobbiamo tuttavia scorgere in Edipo soltanto la caduta di un uomo, ma riconoscere in lui quel tipo di uomo greco in cui quella che è la sua passione fondamentale, la passione per la rivelazione dell’essere, ossia la passione della lotta per l’essere stesso, risulta spinta al massimo e nel modo più selvaggio. Hölderlin nella poesia In lieblicher Bläue blühet [1]…, ha questa espressione profetica: “Il re Edipo ha forse un occhio di troppo…” Quest’occhio di troppo costituisce la condizione fondamentale di ogni grande domandare e di ogni grande sapere, ed è altresì il loro unico fondamento metafisico. Il sapere e la scienza dei Greci sono questa passione”[2].
Nerone Seppe che il senato l’aveva dichiarato nemico pubblico e lo cercava ut puniatur more maiorum (49). Significava che il collo veniva inserito in una forca e il corpo veniva battuto a morte con le verghe. Allora, atterrito, afferrò due pugnali, ma poi li ripose, e disse che non era ancora giunta l’ora fatale. Quindi chiese a Sporo-la moglie, di aiutarlo e disse: “Vivo deformiter, turpiter , ouj prevpei Nevrwni, ouj prevpei-nhvfein dei' ejn toi'~ toiuvtoi~, a[ge e[geire seautovn, bisogna essere svegli in circostanze del genere, su svegliati!
Automitopoiesi.
Poi citò un verso dell’Iliade (X, 535)
{Ippwn m j wjkupovdwn ajmfi; ktuvpo~ ou[ata bavllei, di cavalli dai piedi veloci, mi percuote le orecchie il rumore (parla Nestore).
Infine si cacciò il ferro in gola iuvante Epaphrodito a libellis (49) addetto alle suppliche.
Cfr. ktuvphse me;n Zeuv~ rimbombò Zeus dell’Edipo a Colono di Sofocle (1606) e il tuono nell’ultimo capitolo del romanzo La montagna incantata di T. Mann.
Le battute sono di un patetismo enfaticamente recitato.
Epafrodito aveva preso il posto del sodomizzatore, fiocinatore Doriforo quando questi si era opposto al matrimonio con Poppea e venne ammazzato nel 62. Epafrodito conserverà la sua carica fino al 95, quando Domiziano lo farà giustiziare colui perché aveva ammazzato Nerone.
Cfr. Alessandro Magno e Besso.
Arrivò un centurione che gli pose un mantello sulla ferita fingendo di essere andato in aiuto. Nerone allora disse: “quam Sero! Et haec est fides!” quanto tardi! E questa è fedeltà”.
Così morì con gli occhi in fuori e fissi ad horrorem formidinemque visentium per il raccapriccio e lo sgomento di chi guardava.
Aveva chiesto di non essere decapitato ut totus cremaretur. Galba lo accontentò.
Bologna 8 dicemnbre 2024 ore 17, 29 giovanni ghiselli
Avvertenza: il blog contiene due note e il greco non traslitterato.
Nerone XXV
La morte di Nerone e gli eventi successivi. Il sistema clientelare di Roma prefigura la mafia italiana.
L’aspetto di Nerone
Era di statura quasi giusta, di corpo chiazzato e fetido, volto più bello che aggraziato vultu pulchro magis quam venusto (Svetonio 51), capelli tendenti al biondo, subflavo capillo, occhi chiari e piuttosto ottusi, cervice obesa, collo obeso, ventre proiecto, gracillimis cruribus, gambe gracilissime ma valetudine prospera, buona salute
Nel vestire era da vergognarsene, pudendus: usciva in pubblico sine cinctu et discalciatus, senza cintura e scalzo e con un fazzoletto al collo.
Aveva imparato da Petronio la neglegentia sui, la sprezzatura signorile che Tacito gli attribuisce (Annales XVI, 18)
Lo stile della spezzatura garba molto anche a me.
Viceversa il filosofo Nigrino protagonista eponimo del libro di Luciano (II secolo d. C.) biasima l’’ajpeirokaliva (l’ignoranza del bello, la mancanza di gusto) dei romani arricchiti i quali si rendono ridicoli sfoggiando ricchezze e rivelando il loro cattivo gusto:"pw'" ga;r ouj geloi'oi me;n oiJ ploutou'nte" aujtoi; ta;" porfurivda" profaivnonte" kai; tou;" daktuvlou" proteivnonte" kai; pollh;n kathgorou'nte" ajpeirokalivan;”(Nigrino , 21), come fanno a non essere ridicoli i ricchi con le loro stesse persone dal momento che mentre mettono in mostra le vesti di porpora e protendono le dita delle mani, denunciano il loro cattivo gusto?
“L’autore ignoto dell’Octavia-probabilmente Cornuto-, anch’egli ostile a Nerone, sostiene che questi aveva la faccia gonfia (Pseudo.-Seneca, Oct., 109)”[3].
Ottavia cui sono stati uccisi madre, padre e fratello dice: “poena nam gravior nece est/videre tumidos et truces miserae mihi/vultus tyranni, iungere atque hosti oscula…(vv. 108-110), per me infelice è una pena peggiore della morte vedere il volto gonfio e tracotante del tiranno, e unire la bocca a quella del nemico.
La madre lo distolse dalla filosofia dicendogli che era dannosa a chi doveva comandare, mente il precettore Seneca lo tenne lontano dallo sudio degli oratori antichi quo diutius in admiratione sui detinēret (Svetonio, Neronis Vita, 52) per trattenerlo più a lunga nell’amirazione del maestro.
Nerone scriveva versi con facilità e dipingeva. Ma soprattutto amava la popolarità. Si allenava nella lotta per sfidare gli atleti e voleva imitare Apollo nel canto, il sole nel guidare i cocchi, ed Ercole.
Faceva allevare un leone per battersi con lui nudo nell’arena (Svetonio 53). L’interesse per Ercole appare per la prima volta durante il viaggio in Grecia.
Ercole Augusto con la clava e la pelle di leone compare nella contemporanea monetazione della colonia di Patre (Patrasso)
Il taglio dell’Istmo di Corinto doveva essere un’impresa erculea.
Nella tragedia pseudosenecana Ercole sull’Eta l’eroe rinfaccia a Giove che non lo ha ancora reso dio dopo le sue imprese e dice che potrebbe anche unire la Sicilia all’Italia, oppure: “si iungi iubes, committat undas Isthmos, et iuncto salo/novā ferantur Atticae puppes viā” (82-84), se ordini che si uniscano (i mari), allora l’Istmo tagliato congiunga le onde, e unito il mare, le navi greche passino per una nuova strada.
Nerone fece spogliare e chiudere l’oracolo pitico di Apollo.
Ercole quando la Pizia gli rifiutò un responso, voleva saccheggiare il tempio (tovn te nao;n sula'n h[qele) portare via il tripode e fondare un proprio oracolo.
Quindi il figlio di Alcmena si batté con Apollo, ma poi intervenne Zeus che li separò ed Eracle ricevette risposta cfr. Apollodoro, 2, 6, 2).
Nerone si identificava con Apollo nel 59, con il Sole nel 64, con Ercole nel 66. Questo corrispondeva alle sue passioni per il canto, la corsa sui carri, la caccia alle belve.
Il modello storico era Periandro, la quintessenza del tiranno greco al di sopra della legge. L’imitatio Alexandri invece non fu fanatica come da parte di Caracalla. Piuttosto volle imitare Augusto. Nerone assunse il titolo di Imperator come Augusto, e come Augusto fece chiudere il tempio di Giano.
Uccise l’attore Paride come pericoloso competitore. Desiderava la fama eterna: fece chiamare Neronēus il mese di aprile e voleva chiamare Roma Neropoli (Svetonio, 55).
Plutarco racconta che dopo Nerone l’esercito romano fu colto dalle convulsioni dei Titani (Vita di Galba, I, 6).
Sabino, nuovo coprefetto del pretorio con Tigellino, promise del denaro ai pretoriani se avessero proclamato imperatore Galba. Questa promessa causò la morte di entrambi gli imperatori: i pretoriani abbandonarono Nerone per prendere denaro, poi uccisero Galba perché non gliene dava (Plutarco, Galba, 2, 3).
Tacito definisce Ninfidio Sabino et ipse pars Romanarum cladium (Annales, XV, 73), anche lui parte dei flagelli di Roma. Sosteneva l’ellenizzazione e l’assolutismo teocratico voluti da Nerone.
Il che non gli impedì di tradirlo.
Tigellino era assente al momento della crisi del 68.
Nerone aveva mandato Galba a governare l’Iberia poiché non aveva ancora imparato a temere i cittadini molto stimati.
Ninfidio poi prese come moglie Sporo, chiamandolo Poppea.
Successivamente Sporo convisse con Otone che aspirava alla mano di Statilia Messalina, la terza moglie di Nerone, sposata nel 66 (Plutarco, Galba, 9, 3; Dione 64, 8, 3).
“La triste carriera del ragazzo Sporo ebbe fine sotto Vitellio” (Champlin, p. 70). Si uccise nell’autunno del 69, mentre le truppe di Vespasiano stavano invadendo l’Italia, dopo avere impersonato Kore in uno spettacolo.
Nerone fu rovesciato da messaggi e dicerie più che con le armi (Tacito, Historiae I, 89, 2). Nero nuntiis magis et rumoribus quam armis depulsus.
Il suo stile di vita e di governo si scontrava con le forze dell’impero. La classe politica e gli strati aristocratici non erano più disposti a tollerare l’assolutismo antoniano di ispirazione greco-orientale, né il modello dell’anticittà, né le stravaganze di Nerone. La repressione della congiura pisoniana spaventò i senatori e li spinse a cospirare. Decisero di sopprimere Nerone per salvare la loro stessa vita. Vindice fu il primo ad alzare la bandiera della rivolta. Governava la Gallia lionese (Lugdunensis). Non aderirono alla rivolta le popolazioni della Gallia settentrionale (Treviri e Lingoni) né le legioni del Reno né la città di Lugdūnum. Vindice la assediò. Plinio il Vecchio sostiene che Vindice era adsertor libertatis (N. H., 20, 57, 1), un difensore della libertà. Ma sollecitò l’appoggio di Galba nel febbraio del 68 e non voleva un ritorno alla repubblica. Fra i partigiani di Vindice c’erano dei druidi fanatici che volevano la Gallia indipendente. Ma Vindice non voleva la federalizzazione dell’impero e l’autonomia della Gallia. Non si può parlare di separatismo. Nerone mandò contro Vindice le forze della Germania Superiore comandate da Lucio Verginio Rufo. Verginio schiacciò la rivolta.
Cassio Dione dice che i due generali si erano messi d’accordo contro Nerone (63, 24) e che la battaglia iniziò senza che loro lo sapessero.
Rufo fece spargere questa voce per nascondere il fatto che aveva sostenuto Nerone.
Le truppe di Rufo assediavano Vesonzio, capitale dei Sequani, attuale Besançon, e i soldati di Vindice li attaccarono ma vennero sconfitti. Vindice si uccise. Rufo poi rifiutò di unirsi a Galba e di accettare il titolo imperiale. Tornò in Renania, tenne un atteggiamento neutrale e si unì a Galba solo dopo la morte di Nerone. Galba, sollecitato da Vindice, si mostra esitante ma non lo denuncia (Plut. Galba, 4, 2-3). Galba ha 73 anni e da 7 governa la Spagna tarragonese. Il 3 aprile del 68 prese posizione contro Nerone. I notabili locali, ricordando la fine di Seneca, lo seguirono. Anche Otone che governava la Lusitania.
Lucio Clodio Macro istigò la sollevazione dell’Africa romana. Macro ostentava convinzioni repubblicane e sperava di piegare Roma con la carestia facendole mancare gli approvvigionamenti. Si impadronì della Sicilia. Galba, divenuto imperatore. lo fece uccidere. L’atteggiamento di Vespasiano era improntato a una neutralità che sfiorava il tradimento. Nerone venne tradito da Ninfidio Sabino e abbandonato da quasi tutti. I pretoriani ricevettero del denaro dal prefetto Sabino perché acclamassero Galba. Poi il senato dichiarò Nerone nemico pubblico. Faone ed Epafrodito informarono Sabino sul nascondiglio di Nerone.
Nerone si uccise l’11 giugno, anniversario del supplizio di Ottavia (Svetonio, 57, 1). Le sue nutrici Egloge e Alessandra e l’antica concubina Atte ne bruciarono il corpo e deposero le ceneri nella tomba dei Domizi (Plutarco, Galba, 9, 3).
Tacito inizia le sue Historiae dl 69 con una professione di imparzialità, :“incorruptam fidem professis neque amore quisquam et sine odio dicendus est” (I, 1), chi fa professione di veridicità inconcussa deve esprimersi si ciascuno mettendo da parte l’amore e senza odio.
Quindi preannuncia gli orrori che sta per raccontare: “opus adgredior optimum casibus, atrox proeliis, discors seditionibus, ipsa etiam pace saevom; quattuor principes ferro interempti, trina bella civilia, plura externa ac plerumque permixta… Pollutae caerimoniae, magna adulteria; plenum exiliis mare, infecti caedibus scopuli (I, 2).
Tra le altre sciagure: mota prope etiam Parthorum arma falsi Neronis ludibrio, quasi mosse anche le armi dei Parti dall’impostura di un falso Nerone[4]. Non mancarono esempi di virtù come quello di Fannia figlia di Trasea Peto che accompagnò il marito Elvidio Prisco in esilio: secutae maritos in exilia coniuges (I, 3).
Successivamente Elvidio Prisco, esiliato da Nerone, fu richiamato da Galba e condannato a morte per ordine di Vespasiano (Svetonio, Vita di V., 15).
Poi vari disastri: fu provato che agli dei non sta a cuore tanto la sicurezza nostra, ma la punizione: “adprobatum est non esse curae deis securitatem nostram, esse ultionem” Tacito, Historiae, 3)
Contenti e scontenti per la fine di Nerone
La fine di Nerone aveva suscitato sentimenti diversi: patres laeti (Historiae, I, 4), anche perché il nuovo princeps Galba era lontano, primores equitum proximi gaudio patrum, poi la pars populi integra et magnis domibus adnexa, la parte sana del popolo e legata alle grandi famiglie, e pure clientes libertique damnatorum et exulum, in spem erecti, sollevati alla speranza; invece la plebs sordida et circo et theatris sueta, simul deterrimi servorum, aut qui adēsis (da adĕdo) bonis per dedĕcus Neronis alebantur, quelli che mangiatisi i patrimoni, si nutrivano attraverso gli abomini di Nerone, erano maesti et rumorum avidi, abbattuti e avidi di chiacchiere.
Il sistema clientelare è un’organizzazione mafiosa.
“Vi è da notare come Tacito chiami “parte sana” del popolo quella che è vincolata alle grandi famiglie, inquadrata nelle clientele, mentre la “plebe sordida” è quella svincolata dalle clientele aristocratiche, legata all’imperatore; egli depreca che il principato abbia dato un colpo al vecchio sistema della subordinazione clientelare…il rapporto clientelare si configura come un’organizzazione mafiosa che garantisce l’omertà, e il successo dei disonesti”[5].
Perelli cita diversi testi, tra cui alcuni versi dei Menaechmi di Plauto ( IV, 571-597) dove il sistema viene denunciato come immorale, pieno di intrighi e di scambio di favori disonesti.
“Ut hoc utimur maxime more moro- morus significa pazzo. C’è una adnominatio-.
molestoque multum atque, uti quique sunt
optumi, maxume morem habent hunc!
Clientes sibi omnes volunt esse multos” Atto IV, 571-574 E’Menaechmus I che parla
“L’anziano Galba voleva creare un’immagine di prisca virtù romana, contrapposta al lusso eccessivo”[6] di Nerone, e mise a morte parecchi dei suoi seguaci.
Galba cominciò a essere odiato per la sua avarizia. Una sua frase vox pro republica honesta, ipsi anceps, onorevole per lo stato, ma per lui poco sicura: legi a se militem non emi, irritò ancora di più (Historiae, I, 5), lui i soldati li arruolava, non li comprava. Tanto più che il resto del comportamento non corrispondeva a questa affermazione.
Il 15 gennaio del 69 i pretoriani sobillati da Otone lo uccisero.
Bologna 9 dicembre 2024 ore 19, 03 giovanni ghiselli
p. s.
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