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Dante Gabriel Rossetti 1863 - Fotografia di Lewis Carroll |
Giuseppe Moscatt
La fortuna di Raffaello fra '800 e '900
Il
15 giugno del 1520, con la bolla Ex urge Domine, papa Leone X condannava le
tesi di Martin
Lutero.
Si aprì così in modo definitivo la rottura fra il Papato ed il monaco
riformatore, al punto che
il
10 di dicembre Lutero brucerà nella piazza di Wittemberg non solo la stessa
bolla, ma anche i testi
della
tradizione canonica. Tramonta così la prima parte dell'età moderna più
spiccatamente umanista
e
ci si avvia verso un periodo molto particolare, dove il moderno significò
progressiva separazione
dell'uomo
spirituale dall'uomo materiale, fino al trionfo delle scienze e della tecnica
che avrà
nell'uomo
capitalista il libero pensatore e l'unico protagonista della storia, il
soggetto centrale delle arti
visive. Fu il Rinascimento fondato, sulla persona umana e sulla sintesi fra
arti e scienze, che Raffaello,
nonché Michelangelo e Leonardo, ritroveranno nella chiesa universale proprio
perché cristiana.
Il '400 era stato il secolo delle riscoperte di Platone e Aristotele,
dell'unitarismo intellettuale
che andava da Cusano a Pico della Mirandola, fautori della necessità di trovare
un intesa
fra le differenti fedi religiose, insistendo l'allora classe intellettuale ed
ecclesiale sulle affinità sostanziali
non solo religiose (unico Dio, unico testo sacro), ma anche uniche realtà
teoretiche e morali,
nonché politiche e sociali. I concili di Basilea, Ferrara e Firenze (1431-1439)
si erano espressi
al riguardo nelle relazioni con la Chiesa ortodossa già da secoli scismatica;
mentre la formazione
degli stati nazionali - Spagna, Francia e Inghilterra – andava stabilizzandosi
senza la successiva
rottura fra le classi sociali. La “Scuola di Atena” di Raffaello, non a caso
affrescava le pareti
delle stanze vaticane della biblioteca e dello studio del Papa Giulio II e
rappresentava il tentativo
delle scuole di pensiero neoplatoniche di fornire un pensiero ecumenico frutto
del dialogo non
solo fra teologi e filosofi, ma anche fra matematici e fisici. La concezione
dell'uomo Vitruviano di
Leonardo, fra il 1509 e il 1511, trionfava nelle mani sapienti del maggiore
pittore che stava in quell'epoca,
Raffaello Sanzio. Il dialogo e la “democrazia” del sapere non durò a lungo: le
scoperte geografiche
quasi parallele, la tendenza della nuova classe imprenditoriale alla
monopolizzazione; l'irriducibile
sovranità dei singoli stati nazionali e lo spiccato temporalismo della Chiesa
Romana di Papa
Borgia, di Giulio della Rovere e di Leone Decimo dei Medici, fecero il resto.
Quando la sera del
venerdì santo dell'aprile del 1520, il trentasettenne Raffaello moriva di una
sconosciuta malattia forse
sessuale, l'illusione di un uomo più felice, portatore di una vita e di un'arte
dorata perché naturale,
venne meno.
Il resto del '500, del '600, fino alla Rivoluzione Francese del
1789, la versatilità
artistica, sia che in pittura, o scultura, perse quello spirito umano che la
rendeva soprannaturale.
La specializzazione delle arti e la separazione delle scienze nasceva come è
noto con
il pensiero cartesiano. Manierismo, Rococò ed Arcadia si susseguiranno in
contemporanea a guerre
di religione e di successione dinastica che nascondevano lo sviluppo anarchico
del capitalismo.
Crebbero i muri fra cristiani e ideologie progressiste, con la pari
frammentazione delle società
italiane e tedesche, costrette a subire la prevalenza di potenze e classi
dirigenti straniere, tanto
che “Franza o Spagna purché se magna”, come diceva una massima popolare romana all'ombra
del Papa Re. Di qui, nella storia dell'Arte la nascita di un termine che
apparve idoneo nell'800
a dividere due epoche, il preraffaellismo e il postraffaellismo. Il primo
storico che volle ribaltare
lo stato di stallo che aveva bloccato l'anima spirituale delle Arti,
accerchiata dal materialismo
illuminista di Voltaire, fu un quasi sconosciuto monaco prussiano, Wachenroder
che nel
1796 scrisse un libello che riaprì il discorso su Raffaello: “gli sfoghi del
cuore di un monaco amante
dell'arte”. Anima purissima di sognatore, si espresse per un'arte a lui negata
non perché ne fosse
privo e incapace, ma in quanto dono divino di grazia. L'arte era un sentimento
misterioso perché
derivata da Dio. La parola, figlia dell'osannata ragione, non era alcun
prodotto di tale grazia, ma
la pittura e la musica lo erano pienamente. E chi era l'artista mandato da Dio?
Raffaello! Unico pittore
della storia che dimenticava di essere solo un uomo e che invece esteticamente
diventava uno
strumento di Dio, che viveva in uno stato di beatitudine, che nella sua cella
prega e dipinge, come
pregava e lavorava il benedettino medievale, ma che però imitava la natura,
riproducendo idee innate
che vincolavano la mera esperienza dei sensi e che riproducevano la bellezza
che Dio ha fissato
nell'anima. Un Winckelmann in veste cristiana. Il viaggio a Norimberga nella
casa di Dürer e le
visite al Duomo gotico di Bamberga e alla chiesa cattolica di S. Martino,
causarono il rilancio di Raffaello,
delle sue Madonne anteriori al periodo romano sotto le vesti di Galatea. Unità
di generi che
lo rendono uno dei primi romantici. Ma siamo ormai alle soglie del '800 e qui
ritroviamo una notevole
traccia di Raffaello in un altro artista, oggi in esposizione alla
Gemäldegalerie di Berlino, che
sul modello di Dürer - incisore eccezionale contemporaneo proprio di Raffaello
- riprodusse la breve
vita del pittore urbinate. Si trattava di Johannes Riepenhausen, che insieme al
fratello Franz, lavorò
a Dresda e a Kassel nella bottega di un discepolo di Wackenroder, W. Tischbein.
Poi nel 1807
scesero a Roma e si dedicarono a personaggi del medioevo e al Perugino, maestro
di Raffaello.
Anzi, Johannes, in linea con le regole del monaco di Jena, cominciarono ad
incidere una serie
di medaglioni sulla vita e le opere del Sanzio. Sopratutto, fecero da ufficiali
di collegamento con
la scuola dei Nazareni, un gruppo di artisti figurativi tedeschi romantici che
si opposero al classicismo
accademico, che dopo Winckelmann e Mengs, avevano respinto forme manieriste e scolastiche,
mirando piuttosto ad una pittura fondata sul binomio patria e religione. Erano
criteri che ritornavano
ad un'età arcaica e al colore molto forte e altamente stilizzato. I loro
modelli spaziavano sul
'400 italiano, dal Beato Angelico a Luca Signorelli - che il von Platen qualche
anno dopo narrò in
una ballata ancora non tradotta in italiano - e il Perugino, per finire a
Raffaello quando era ancora un
seguace del pensiero filosofico di Marsilio Ficino.
E di quel gruppo faceva
parte Friedrich Overbeck,
legato ai fratelli Riepenhausen, presso cui abitò a Roma e dove dipinse uno dei
più famosi
quadri dell'età moderna, “Italia e Germania”, (1828). Vissuto a Roma come
ultimo esponente,
Overbeck a sua volta diede impulso a una scuola analoga per la natura
antiaccademica e alla
rivalutazione della pittura del '400. Il loro maggiore autore, Antonio
Bianchini, ribadì la riscoperta
del primo Raffaello, prendendo spunto dalla ricerca di formule linguistiche
autentiche che
già a Firenze avevano avuto battesimo nel caffè letterario del Vieusseux. Nel
1842 - in coincidenza
con lo sviluppo della Giovane Italia del Mazzini - venne pubblicato un altro
libello, “il purismo
nelle arti”, che da una parte si prodigò nel rivedere in positivo il Perugino e
il suo alunno migliore
Raffaello, ma che dall'alto gli rimproverarono l'adesione al classicismo, non
concependo alcuna
mediazione con le convenzioni neoclassiche che invece avevano portato alla mera
imitazione e
alla conseguenziale falsità del reale. Era un manifesto che precludeva in
sostanza al realismo successivo
di Ingres e Hayez. Apogeo di questo singolare movimento nazionalista fu una loro prima
esposizione a Firenze nel 1861, dove il nascente stato italiano retto dalla
borghesia liberale
appena
giunta al governo, plaudeva a certe poetiche del Vero, che però favoriva il
precedente
glorioso
della nazione che era stata ad un passo dall'unificazione politica, ma
dall'altro lato non
avevano
avuto coraggio - o meglio avevano preferito una politica libero scambista - di
avviare una
nuova
società democratica. Come nella letteratura gli scapigliati avevano anticipato
e non avevano
oltrepassato
il limite della mera denunzia, così i puristi di Firenze si appiattirono nel
mero
accademismo
di regime. Ma un giovane artista italo - inglese Dante Gabriel Rossetti nel
settembre
del
1848, in piena età vittoriana, costituì una confraternita di artisti sul
modello della confraternita
tedesca
a Roma. Il movimento inglese, altrettanto antiaccademico, alquanto riservato e
legato
all'arte
gotica, si dichiarò preraffaellita come quello dei puristi italiani e si legò
ai valori borghesi
industriali
e progressisti, benché fuori dal rigido teismo anglicano e piuttosto radicale e
fautore del
decadentismo
culturale, della parità dei sessi e alquanto liberale nei costumi, visto che
fra i
fondatori
vi fu anche Oscar Wilde. Scelsero quella etichetta per magnificare l'arte tardo
medievale e
nel
rivedere il Raffaello perugino e fiorentino, che fino al 1509 aveva idealizzato
la natura e la
bellezza
a danno della giustizia. Il loro bene era dato dall'unico valore ambito, la
bellezza classica
ereditata
dai tedeschi romantici. Amavano Dante Alighieri e i commenti del pittore gotico
Füssli;
dipingevano
a colori forti, come “The Valkyrie's Vigil” (di E. R. Hughes, 1906); “La
Beatrice” di
Elizabeth
Siddal (1864); “L'Ophelia” di J. E. Millais e tutta una seria di paesaggi dove
primeggiavano
le ombre e i cimiteri. Aprirono la via alla pittura decadente di Klimt e al
simbolismo
di
Segantini. Inoltre Rossetti e W. Hunt e J. W.Waterhouse prediligevano i temi
biblici e dell'età
dell'oro,
quella mitica visione sensualista ben lontana dalla femminilità eterea della
cultura
vittoriana
e diedero impulso al mondo femminile scultorio, senza però dimenticare la
dignità della
donna,
di cui ne approfittò il nascente movimento delle suffragette. La precoce morte
del Rossetti e
della
sua E. Siddal; le feroci critiche del socialista Dickens e del conservatore W.
Turner, già nel
1853
produssero la fine dell'associazione, dissoltasi per il prevalere dell'elemento
umano
materialistico
che proprio in Inghilterra di mezzo secolo imponeva attenzione ai fattori
sociali che
avranno
immediato riscontro nel verismo italiano con Verga e Capuana e in quello
francese di Zola.
E
tuttavia il filo rosso preraffaellita non rimase sepolto dal fango del reale.
La reazione culturale
mitteleuropea
al positivismo realista ebbe un conato ragguardevole nel primo novecento da
parte di
Rudolf
Steiner e nell'ottima biografia di Hermann Grimm, che sfatarono con documenti
alla mano
la
presunta identificazione di Raffaello col classicissimo conservatore. Grimm per
primo distinse le
due
fasi della breve vita dell'Urbinate e ne individuò nella prima parte perugina e
fiorentina tutti
i
motivi di un Raffaello diviso da un tormento interiore che appare tutto nella stanza
di Eliodoro,
fino
a uscire nelle figure piene di dubbi amletici della scuola di Atene, senza
contare le contorsioni e
i
vuoti linguistici del Vasari che stranamente aveva taciuto sulle modalità della
morte, avvenuta a
suo
dire proprio lo stesso giorno del compleanno. Steiner scrisse nel suo
testamento spirituale nel
1924
che l'opera di Grimm era stata una misurazione della sua grandezza con riga e
compasso,
priva
di quella spiritualità interiore. Quello studio – mai peraltro completato -
apparve a Steiner
insufficiente
nel trovare la mediazione fra mondo classico e mondo moderno. Invece lo Steiner
rivedeva
un Raffaello sceso dal piedistallo del mito e divenuto piuttosto l'uomo moderno
che si
rivolge
al reale senza dimenticare l'ideale, il dito alzato di Platone e la mano tesa
di Aristotele al
centro
della scuola di Atene. Posizione eclettica che riscattava l'ironia dissacrante
di Picasso che
nel
1919, dopo un viaggio in Italia, aveva avuto modo di rivedere ironicamente la
Farnesina e gli
angioletti
usati e abusati dai manieristi barocchi del '600. La sicurezza delle fonti
sulla vita di
Raffaello,
peraltro sarà messa in luce nel quattrocentesimo anno dalla morte e non si
escluse che fra
lo
“sposalizio della Vergine”, primo grande affresco “preraffaelita e la “trasfigurazione”
ultima
opera
del 1519, Raffaello subì una sorta di crescita intellettuale e non certo un “lavaggio
del
cervello”,
una revisione conservatrice che ne farebbe un pallido difensore
dell'accademismo piccolo
borghese.
Del resto, la corrente più anarchica di metà '900, il Surrealismo, non mancherà
di
rendergli
omaggio nella carriera artistica di un Salvatore Dalì che nel 1920, dopo avere
dichiarato
con
la sua nota supponenza che “forse sarò disprezzato e incompreso anche dopo
morto, ma sarò un
genio
e che il surrealismo sono io!”; affermò pure che“il nuovo Raffaello sono io!”;
tanto da
realizzare
quindi il proprio autoritratto col collo di Raffaello stesso. Intemperanza che
testimonia
però
l'idea di irriducibilità dell'arte di Raffaello, della sua trasversalità e
presenza nei nuovi
movimenti
culturali succedutosi nel corso dei secoli. E nel '900 un autore che ne
comprese il valore
interculturale
fu un incisore tedesco erede di Dürer, Max Klinger che non per caso oggi è
presente
alla
Pinacoteca Moderna di Monaco. Max Klinger, maestro avvenirista che fin dal 1877
sviluppava
i
suoi disegni con penna ad inchiostro di china, rompeva con l'accademia di
Berlino e si rifugiava a
Oslo
dove aprì una scuola che anticipò nello stile di pittura la rappresentazione
del sogno. Nella
serie
di stampe “un guanto”, apriva una porta da dove transiteranno prima Munch, suo
alunno
preferito,
poi van Gogh fino ad arrivare all'espressionismo tedesco e al surrealismo dello
stesso
Dalì.
Figlie dello spiritualismo di inizio secolo, le dieci incisioni di Oslo ruotano
attorno a una tema
onirico
come un oggetto perduto e poi ritrovato, lungo un percorso che va dalla
passeggiata con
l'amata
e con i desideri repressi che emergono lungo la strada, passando dalla paura
alla nostalgia,
finché
un uccello rubò il guanto e provocò l'abbandono della donna amata. Desiderio
simbolicamente
alternato alla perdita dell'amore e causa del tormento del pittore che vede il
mondo
con
occhi diversi accecato dai suoi stati d'animo. Freud, qualche anno dopo ne farà
il suo manifesto
nell'esame
psicologico dell'opera di Klinger. Ma non mancò anche di rilevare come in quei
disegni
emergesse
un disegno razionale volto a dare una dimensione reale a un sogno sperato ma
non
realizzato.
Processo estetico che vide anche presente proprio nel Raffaello dei Palazzi
Vaticani e
negli
affreschi dell'attuale Sala della Segnatura. La sua scuola psicologica
dell'arte, partendo da un
saggio
non secondario - un ricordo d'infanzia di Leonardo da Vinci (1910) - ha
ricostruito lo stretto
legame
fra vita e ricordo di un'infanzia non certo felice e che non pochi artisti
sublimano in quadri
pieni
di malinconie e speranze di migliori esistenze. Di qui, la scelta di rileggere
opere molto note
alla
luce di una domanda di maggiore autenticità dell'esistere realisticamente
intrisa dalle proprie
aspirazioni,
idealizzando momenti di convivenza familiare come vorrebbe che si fossero
svolti, non
per
come veramente avvenuti. Il rapporto fra Vero e Bene, fra Bellezza e Giustizia
che Raffaello
aveva
mirabilmente descritto nelle stanze vaticane; viene trasferito dalla psiche del
pittore a livello
di
sogno, dove appunto la mediazione culturale dei saperi e dei valori religiosi
assume contorni reali
di
speranze. Oppure, gli illustri filosofi ivi raffigurati esprimerebbero il
bisogno dell'autore di
sostituire
il conflitto reale alla pace virtuale. Interpretazione che da ultimo ha visto
come originale
fautore
il filosofo Giovanni Reale che ha dato alla “Scuola di Atene” un significato di
famiglia
umana
- e di società universale - che discute e dialoga sotto lo stesso tetto pur di
opinioni diverse,
magari
contrapposte per ragioni di per sé valide, tutte rivolte però all'obiettivo
finale della pace,
cioè
quel vero, quel bene e quella bellezza, che Raffaello ci ha indicato per sempre
nei suoi
immortali dipinti.