Didone torna a denunciare la perfidia e la spietatezza del pio profugo da lei accolto e salvato:"En dextra fidesque! " (v. 597), ecco la fedeltà dell'impegno! C'è il rimpianto di non avere usato il suo fuoco per provocare una conflagrazione generale:"faces in castra tulissem/implessemque foros flammis [1] natumque patremque/cum genere extinxem[2], memet super ipsa dedissem " (vv. 604-606), avrei potuto portare le fiaccole nell'accampamento, e riempire di fiamme le corsie delle navi e il figlio e il padre annientare con tutta la razza, e me stessa avrei potuto gettare sopra di loro.
Se non nella vita potevano essere uniti almeno nella morte.
Segue una maledizione per la cui attuazione sono chiamate a raccolta potenze celesti e infere. Anzitutto il sole:"Sol, qui terrarum flammis opera omnia lustras " (v. 607), Sole che con le tue fiamme rischiari tutte le opere della terra. Il sole che vede tutto come divinità suprema è un tovpo" della letteratura greca che prosegue in quella europea[3].
Gli altri numi invocati sono Giunone, la dea pronuba che è stata "interpres curarum et conscia " (v. 608), intermediaria e al corrente delle pene di Didone; Ecate, la divinità infernale "nocturnisque Hecate triviis ululata per urbes " (609) invocata a ululati nei trivi notturni per le città.
Hecate triformis torna nella preghiera nera della Medea di Seneca (v. 7). Un po’ tutta Didone è una filigrana di Medea".
Vengono poi chiamate le Furie vendicatrici e gli dèi di Elissa morente "Dirae ultrices et di morientis Elissae" (v. 610). La regina li prega di rivolgere prima o poi la loro potenza contro quell'infandum caput (v. 613) quella testa esecranda, abominevole.
La testa è l’acropoli della persona
Questo è una altro tovpo" interessante: l'uomo è la sua testa. Ricorro ancora all'Antigone il cui primo verso fa:" w\ koino;n aujtavdelfon jIsmevnh" kavra", o capo davvero fraterno di Ismene, sangue mio.
L'espressione non è una perifrasi qualsiasi, né una semplice sineddoche come annotano i commenti rammentando anche, di solito, " il sacro capo/ del tuo Parini" di Foscolo[4].
La testa significa l'acropoli della persona: un'immagine coniata da Platone[5], e ripresa da Cicerone nelle Tusculanae disputationes :"Plato...rationem in capite sicut in arce posuit " (I, 10), Platone collocò la ragione nel capo come in una rocca.
Di tale termine nel senso pregnante qui indicato, Sofocle fa largo uso (p. e. Edipo re , vv. 40, 950, 1207,1235), sempre in momenti critici, per segnalare che si vuole chiamare in causa la parte più importante e significativa dell'uomo.
Al capo, e al viso ci si rivolge per ottenere la comprensione o l'intelligenza senza la quale tutto diviene doloroso. E' l'espressione del volto, e in questo particolarmente degli occhi, che suscita sentimenti forti e duraturi. Abbiamo visto che Thomas Mann nel romanzo La montagna incantata spiega l'amore del protagonista per una compagna di sanatorio come attrazione quasi esclusiva per il volto quale portatore della spiritualità della persona.
La testa di Enea dunque ha suscitato prima l'amore e l'adorazione, quindi l'esecrazione e l'abominio dell'amante abbandonata. Sfrondando l'intellettualismo che secondo Saul Bellow[6] soffoca La montagna incantata , l'idea è la stessa in Virgilio e in T. Mann.
La testa anche odiosa, oppure indebolita e portatrice di significati poveri, significa pur sempre la quintessenza dell'uomo.
Per esempio, nell'Odissea , Ulisse per evocare i morti supplica molto le loro teste esangui ( polla; de; gounouvmhn nekuvwn ajmenhna; kavrhna, XI, 29). Queste sono svigorite e dotate di coscienza solo crepuscolare, eppure continuano a rappresentare persona.
Didone dunque si uccide maledicendo Enea al quale augura quanto di peggio può capitare a un uomo: la guerra, la morte prematura e la mancanza del sepolcro in mezzo alla sabbia:"sed cadat ante diem mediaque inhumatus harena " (v. 620)
Vengono prefigurate le guerre puniche: la discendenza di lei e quella di lui dovranno sempre odiarsi:"nullus amor populis nec foedera sunto " (624), nessun amore né alleanza ci sia mai tra i due popoli, secondo la disposizione testamentaria della regina.
Quindi viene evocata la figura di Annibale:"exoriare [7] aliquis nostris ex ossibus ultor,/ qui face Dardanios ferroque sequare colonos,/nunc, olim, quocumque dabunt se tempora vires " (vv. 625-627), sorgi tu dalle mie ossa, un vendicatore che segua col fuoco e col ferro i coloni Dardani, ora, in avvenire, in qualunque momento si offriranno le forze.
Questa grande fallita in amore, nel momento di morire, auspica la grande guerra contro i Romani condotta da quello che sarà il più nobile fallito del mondo antico, secondo una definizione di G. De Sanctis.
Quindi, sempre nell'auspicio di Didone, "la lotta mortale si amplia in un quadro grandioso, che coinvolge gli uomini, la storia, la natura. Il quadro è solennemente semplificato dalla concisione espressiva, di gusto, si direbbe, tacitiano, che con l'accostamento di ciascun acc. al suo dat. fa risaltare terribilmente la lotta e il suo carattere implacabile[8]": "Litora litoribus contraria, fluctibus undas/imprecor, arma armis: pugnent ipsique nepotesque " (vv. 628-629), auguro che i lidi contro i lidi, le onde contro i flutti, le armi contro le armi combattano loro stessi e i discendenti. L'ultimo verso (629) è ipermetro"l'ultima sillaba, -que , è in più e si elide con la prima del verso seguente, haec . Giustamente gli interpreti hanno cercato una funzione espressiva nella eccezionalità metrica. Con più finezza di tutti il Pascoli sente che il verso "esprime il traboccare e qualche cosa che non ha fine"...La guerra continua in un futuro infinito, infinito come l'odio prorompente, traboccante della regina"[9].
Interessante è anche il v. 631 dove Virgilio dice che Didone cercava di spezzare al più presto la luce odiosa (" invisam quaerens quam primum abrumpere lucem " ).
E' possibile ravvisare l'antitesi della morte cercata dall'uomo dotato di grandezza eroica ("ta; hJrwika; megevqh") che l'Anonimo Sul Sublime (IX, 10) individua nell'Iliade riportando una preghiera di Aiace il quale chiede a Zeus di morire nella luce per vedere ed essere visto mentre compie qualche nobile impresa:
"Zeu' pavter (fhsivn), ajlla; su; Jru'sai uJpj hjevro" ui|a" jAcaiw'n,-poivhson d j ai[qrhn, do;" d jojfqalmoi'sin ijdevsqai:-ejn de; favei kai; o[lesson"(Iliade , XVII, 645-647), Zeus padre (dice), libera dalla caligine i figli degli Achei, fai il sereno, concedi agli occhi di vedere: poi nella luce annientaci pure. Aiace, commenta l'Anonimo, nella luce cerca una possibilità di impiegare il suo valore per trovare in ogni modo un sudario degno della sua virtù ("wJ" pavntw" th'" ajreth'" euJrhvswn ejntavfion a[xion", IX, 10) e morire kalw'" nobilmente.
Anche negli Annales di Ennio c'è un combattente che muore cercando la luce con gli occhi:"Oscitat in campis caput a cervice revulsum,/semianimesque micant oculi lucemque requirunt " (vv. 483-484 Skutsch) apre la bocca nei campi la testa staccata dal collo, e semivivi brillano gli occhi e cercano la luce.
Del resto non solo gli occhi dell'eroe o del milite gregario, ma quelli dell'uomo comunque "cercan morendo-il Sole[10]"; così il moribondo di Foscolo; così Osvald che alla fine degli Spettri di Ibsen invoca il sole.
Didone invece vuole spezzare la luce: sale furibonda i gradini del suo alto rogo e snuda la spada di Enea, dono richiesto non per questo uso: " altos /conscendit furibunda rogos ensemque recludit/Dardanium, non hos quaesitum munus in usus " (vv. 646-647). Non è difficile individuare nella spada un simbolo fallico, sulle tracce di Freud:" Tutti gli oggetti allungati: bastoni, tronchi, ombrelli (per il modo di aprirli, che può essere paragonato all'erezione!) intendono rappresentare il membro maschile, così come tutte le armi lunghe e acuminate coltelli, pugnali, picche"[11]. A maggior ragione questa spada nata come segno d'amore.
Meno malizioso del mio il commento di Conte:"A conclusione di una serie di azioni dal ritmo serrato, viene ora il gesto di sguainare la spada appartenuta all'eroe troiano: il narratore puntualizza che si tratta di un dono dei momenti felici dell'amore (e che la notazione rivesta una qualche importanza ce lo dice già la cura formale del passo, dove un iperbato si accavalla a un'anastrofe in uno spazio davvero ristretto). Bene: noi sappiamo che in ogni racconto c'è una sorta di legge, quella della motivazione compositiva, per cui nessun oggetto deve rimanere inutilizzato e nessun episodio deve restare senza conseguenze: succede così che questo oggetto, regalato un tempo come segno d'amore, diventa ora-inevitabilmente-strumento di morte per chi lo ha ricevuto. E' il motivo dei doni fatali a chi li riceve, sviluppato dalla tragedia greca e però già noto in Omero: Aiace si uccide con la spada regalatagli da Ettore"[12].
Didone si uccide conservando comunque il senso della propria grandezza poiché se non è possibile la felicità nella vita, per i magnanimi è sempre possibile, in una forma o in un'altra, la grandezza dell'eroismo:"Vixi et quem dederat cursum Fortuna peregi,/et nunc magna mei sub terras ibit imago " (vv. 653-654)
La Fortuna
Commento la parola Fortuna di Eneide IV 653
La vox media fortuna corrisponde alla tuvch la cui presenza è molto forte in gran parte della letteratura ellenistica, cominciando anzi da Euripide con il quale si trasformano o tramontano gli dèi tradizionali, mentre al loro posto si alza nel cielo la sorte ambigua, cangiante e capricciosa: l'infausta tuvch è subentrata ai fausti dèi. La regina protagonista dell' Ecuba la considera una dei tiranni di un'umanità rimasta senza fedi né valori, una specie di creature materialiste, sanguinarie, idolatre:"non c'è tra i mortali chi sia libero:/infatti siamo schiavi delle ricchezze oppure della sorte"(vv. 864-865). L'uomo cerca di vivere secondo ragione, ma i suoi tentativi vengono frustrati dalla fortuna. La sua salvezza e la sua libertà stanno nel considerarla con calma ironica.
Nello Ione , che prelude più di ogni dramma di Euripide alla commedia di Menandro, il riconoscimento del figlio da parte della madre avviene per casi fortuiti, per mezzo di questa tyche oramai spogliata da connotazioni teologiche. La sorte dunque non è costantemente maligna: Ione che è stato sul punto di uccidere la madre le rivolge un'apostrofe:"O tu che cambi mille volte le sorti dei mortali:/ li getti nella sventura, poi doni loro il successo/ Tuvch..."(vv.1512-1514).
La Fortuna è pure la divinità di Menandro: nel Misantropo , Sostrato il giovane ricco che vuole sposare una ragazza povera e dare in moglie a un povero sua sorella, risponde all' obiezione che gli fa il padre:"Non voglio prendermi insieme un genero e una nuora pezzenti"(v. 795), con l'affermazione che tutto quanto appartiene a un uomo non è veramente suo ma della Sorte che, come ha dato, può togliere.
Polibio nelle sue Storie torna spesso a parlare della Fortuna indicandola quale grande potenza che manovra le vicende umane a proprio arbitrio: Emilio Paolo, dopo Pidna mostrava Perseo, il re macedone sconfitto e umiliato, ed esortava i presenti a non esaltarsi troppo per i successi a non decidere con arroganza o in modo inesorabile verso alcuno, e, in generale, a non fidarsi mai del tutto della prosperità presente ("mhvte kaqovlou pisteuvein mhdevpote tai'" parouvsai" eujtucivai"", XXIX 20 1). L'ammonizione finale di Emilio Paolo è interessante e può tornare utile a chi non vaneggia: La differenza tra gli imbecilli e i saggi consiste nel fatto che i primi imparano a spese degli insuccessi propri, gli altri a spese del prossimo ("tou'to ga;r diafevrein e[fh tou;" ajnohvtou" tw'n nou'n ejcovntwn, diovti sumbaivnei tou;" me;n ejn tai'" ijdivai" ajtucivai" paideuvesqai, tou;" d j ejn tai'" tw'n pevla"", XXIX 20 4). Si può aggiungere che i veri imbecilli non imparano mai.
Polibio ricorda anche le parole di Demetrio Falereo, scrittore, filosofo peripatetico e uomo politico che governò Atene per Cassandro dal 317 al 307. Ebbene egli scrisse un trattato Sulla Tyche , e dalla distruzione dell'impero persiano da parte di Alessandro inferisce la crudeltà e la volubilità della Fortuna che tutto continua a mutare e rinnovare contro ogni nostro calcolo ("panta para; to;n logismo;n to;n hJmevteron kainopoiou'sa", XXIX 21, 5).
Nel libro XXIII lo storiografo di Megalopoli, riflettendo sulla morte di Filopemene, scrive che egli cadde battuto, più che dai Messeni, dalla Fortuna la quale può sostenere un essere umano a lungo, però mai per tutta la vita. I fortunati allora sono coloro che, raramente abbandonati dalla Fortuna, e anche se quella una volta cambia parere, subiscono disavventure di modesta entità ("ka[n pote metanoh'/, metrivai" peripesovnta" sumforai'"", 12, 6).
Un altro esempio di mutevolezza della Fortuna Polibio lo ricava dal fatto che al tempo della Terza guerra Punica nel Peloponneso furono rimesse alla luce ("eij" to; fw'"") le statue dello stratego Licorta[13] e riposte al buio ("kata; to; skovto"", XXXVI, 13, 1) quelle del delatore Callicrate: quindi si capì che la funzione della Tyche è quella di rovesciare le situazioni e sottomettere i legislatori alle leggi che essi stessi hanno concepito. Qui invero la Fortuna non sembra indifferente alla Giustizia. Un'ultima riflessione polibiana sulla Fortuna si trova nella conclusione delle Storie dove l'autore si augura di non cambiare condizioni né disposizione d'animo, dato che vede la Tuvch pronta a invidiare gli uomini e spiegare tutta la sua forza soprattutto nei casi in cui uno crede di avere conseguito il massimo della felicità e del successo nella vita. In quest'ultima riflessione la Fortuna sembra simile alla divinità erodotea la quale, invidiosa e perturbatrice (I, 32), non permette a Policrate di Samo, o a Creso di Lidia, o a Serse di Persia, di rimanere a lungo sui vertici della ricchezza e del potere.
Un riconoscimento dell'onnipotenza della Fortuna si trova nella Vita di Demetrio (35) di Plutarco il quale, a proposito delle alterne vicende del grande avventuriero, fa questo commento :"Sembra che non ci sia stato altro re cui la Fortuna abbia imposto rivolgimenti così grandi e improvvisi come a Demetrio; e che ella stessa, la Sorte, non sia stata, nelle vicende degli altri sovrani, tante volte piccola e poi grande, né divenne tanto umile da splendida che era, e poi ancora, da misera potente. Dicono che Demetrio nei più gravi sconvolgimenti apostrofava la Fortuna con le parole di Eschilo[14]: "Tu che mi hai fatto, ora sembri schiacciarmi".
La riflessione sulla mutevolezza della sorte non è soltanto ellenistica o post-euripidèa: si pensi al discorso di Solone a Creso in Erodoto quando il saggio ateniese dice al pacchiano re barbaro che l'uomo è del tutto in balia del caso (pa'n ejsti a[nqrwpo" sumforhv, I 32); oppure, risalendo ancora molto più indietro, si ricordi Archiloco il quale rivolge un'ammonizione "fatalistica" a se stesso in questi termini: animo (qumevv), animo sconvolto da affanni senza rimedio/sorgi e difenditi dai malevoli, contrapponendo/il petto di fronte, piantandoti vicino agli agguati dei nemici/con sicurezza: e quando vinci non gloriartene davanti a tutti,/e, vinto, non gemere buttandoti a terra in casa./Ma nelle gioie gioisci e nei dolori affliggiti/non troppo: riconosci quale ritmo governa gli uomini ("mh; livhn / givgnwske d j oi|o" rJusmo;" ajnqrwvpou" e[cei", fr. 67aD. )
Passiamo alla letteratura latina: Seneca ripropone questa gnome radicalizzandola nella consolazione indirizzata alla madre Elvia dall'esilio in Corsica[15]:"nec secunda sapientem evĕhunt, nec adversa demittunt" (Ad Helv. , 5, 1), i successi non esaltano il saggio e le avversità non lo abbattono. Infatti tutto ciò che viene dall'esterno e non dipende da noi è di poca importanza:"leve momentum in adventiciis rebus est ". Bisogna stare sempre all'erta contro gli attacchi della fortuna:"Illis gravis est, quibus repentina est: facile eam sustĭnet qui semper expectavit " (5, 3), è terribile per quelli sui quali giunge imprevista: le resiste facilmente chi ne aspetta sempre l'attacco.
Tacito invece nelle Historiae ( I, 18), lo abbiamo visto, afferma che quanto spetta al destino non si evita nemmeno se veniamo preavvisati, mentre negli Annales Lo stesso storiografo del resto dichiara di non sapere se le vicende umane si svolgano regolate dal fato e da una necessità immutabile oppure vadano a caso:" mihi...in incerto iudicium est fatone res mortalium et necessitate immutabili an forte volvantur " (VI, 22) .
Quindi Dante:
“Se tu riguardi Luni ed Urbisaglia
come son ite, e come se ne vanno
diretro ad esse Chiusi e Sinigaglia:
udir come le schiatte si disfanno ,
non ti parrà cosa nuova, né forte,
poscia che le cittadi termine hanno.
Le vostre cose tutte hanno lor morte
sì come voi ma celasi in alcuna
che dura molto, e le vite son corte.
E come il volger del ciel della luna
copre e discopre i lidi senza posa
così fa di Fiorenza la fortuna” (Paradiso, XVI, 82-84).
Concludo con Il Principe : Nel penultimo capitolo Machiavelli volendo stabilire "Quanto possa la Fortuna nelle cose umane e in che modo se li abbia a resistere" attribuisce tanta importanza alla fortuna quanta alla capacità dell'uomo: " iudico potere esser vero che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che etiam lei ne lasci governare l'altra metà, o presso, a noi"[16]. Pertanto non bisogna "iudicare" che non si debba "insudare molto nelle cose ma lasciarsi governare dalla sorte". Infatti la fortuna"dimostra la sua potenzia dove non è ordinata virtù a resisterle, e quivi volta li sua impeti, dove la sa che non sono fatti li argini e li ripari a tenerla".
La virtus di Machiavelli si regge su questo fondamento teoretico, altrimenti si dovrebbe sostenere che la Fortuna soltanto tiene l’uomo “sotto el giogo suo” (Lettera al Soderini)
Pesaro 24 agosto 2023 ore 17, 47 giovanni ghiselli
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[1]Si noti il nesso allitterante
[2]Forma sincopata di extinxissem .
[3] Nel mio commento all'Antigone (Loffredo, Napoli 2001) di Sofocle ho fatto una scheda che raccoglie le testimonianze degli echi letterari di questo culto solare .
[4]I sepolcri , v. 71-72
[5] Cfr. Timeo 70 b, Repubblica 560b
[6]Intervista a Saul Bellow nel quotidiano "la Repubblica "del 17 agosto dal titolo Odio il sussiego europeo (p. 42) .
[7]=exoriaris , seconda persona del congiuntivo, come sequare =sequaris .
[8]A. La Penna-C. Grassi, op. cit., p. 499.
[9]A. La Penna-C. Grassi, op. cit., p. 499.
[10]Foscolo, Dei Sepolcri , vv. 121-122.
[11]S. Freud, L'interpretazione dei sogni , p. 327.
[12] G. B. Conte, Scriptorium Classicum, 3, p. 275.
[13]Che era il padre dell’autore
[14]fr. 359 Nauck.
[15] Dove era dovuto andare nel 41 d. C. La Consolatio è del 42 o 43 d. C.
[16]Il Principe , XXV.
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