Percorso amoroso VIII, 13. Nuovi tormenti e nuovi tormentati.
Aggiungo un nuovo capitolo e nuovi testi al percorso amoroso.
San Bendetto (Norcia, 2 marzo 480 – Montecassino, 21 marzo 547) è stato un monaco cristiano, fondatore dell'Ordine di San Benedetto.
L'interpretazione pur troppo diffusa dell'amore inteso come rovina massima, piaga e fuoco interni deleteri più di ogni altra ferita e fiamma esterna, viene utilizzata dagli scrittori cristiani e si trova concentrata in un episodio della vita di San Benedetto, una delle Vite dei Santi Padri del domenicano di Pisa Domenico Cavalca (circa 1270-1342). Il pio autore sostiene che all'incendio erotico e al trauma mentale dell'amore sono da preferire le ustioni e le "punture del corpo" e che anzi è consigliabile infliggersi da solo queste per spengere quelle. L' episodio che riferisco qui di seguito potrebbe inserirsi anche nei Rimedi contro l'amore che tratteremo più avanti ma lo pongo dopo Didone per mostrare quale danno perpetuo e quante altre vittime abbia fatto la grande calunnia nei confronti della gioia più profonda e sublime che gli dèi abbiano concesso al genere umano:
"una volta avea Benedetto nel secolo[1]veduto una bella femina; la quale lo nimico li ridusse alla memoria, e formòlli in tal modo nella memoria e immaginazione la bellezza di questa femina, e di tanto fuoco gli accese l'animo, che la fiamma dello amore appena gli capea nel suo petto[2]; e quasi poco meno che vinto di disordinato amore, deliberava di lassare lo eremo. E subitamente soccorso dalla grazia d'Iddio, tornando a se medesimo e vergognandosi, vedendo quivi appresso uno grande spineto e orticheto, spogliandosi ignudo, gittòssi fra quelle spine e ortiche e, quivi poi che fu voltato un buono pezzo, tutto sanguinato e ferito n'uscì. E così per ferite del corpo guarì della ferita della mente, perciò che la voluttà trasse in dolore[3]; e ardendo penosamente per le punture del corpo di fuori, spense il fuoco che illicitamente ardea dentro. Vinse dunque lo peccato perché mutò incendio. E da quel tempo innanzi fu in lui ogni tentazione di carne domata; ché, secondo che elli dicea poi alli suoi discepoli, niun tale disordinamento poi sentì"[4].
L'amore nelle Bucoliche e nelle Georgiche . Teocrito e il sentimento della natura.
Nell opere precedenti all'Eneide Virgilio fa bruciare, soffrire e lottare per amore non solo gli uomini e le donne, ma anche gli animali che sono omologati agli umani nel patimento amoroso.
Fanno eccezione le api che hanno il costume "meraviglioso" di non concedersi all'accoppiamento né di sciogliere neghittose i corpi in Venere né di produrre la prole con le doglie:"neque concubitu indulgent nec corpora segnis/in Venerem solvunt aut fetus nixibus edunt " (Georgica IV , vv. 198-199). concubitu: è una forma di dativo che si trova anche nella prosa classica.-segnis=segnes con funzione predicativa.
Nella II Bucolica il pastore Coridone arde d'amore per il bell'Alessi. (Formosum pastor Corydon ardebat Alexin , 1) che non ha pietà di lui. Già nelle Ecloghe Virgilio è il poeta dell'amore infelice e luttuoso, il cantore della passione sulla quale si proietta un'ombra di morte:" O crudelis Alexi, nihil mea carmina curas?/nil nostri miserere? Mori me denique coges" (vv. 6-7), o crudele Alessi, non ti curi dei miei canti? non hai compassione di me? Infine mi costringerai a morire , sospira l'innamorato ardente .
Coridone non ha tregua dall'ardore amoroso nemmeno quando il bestiame e, con motivo teocriteo[5] perfino i ramarri, riposano al fresco:"Nunc etiam pecudes umbras et frigora captant / Nunc viridis etiam occultant spineta lacertos " (vv. 8-9), ora anche il bestiame cercano di prendere le ombre e il fresco, ora i rovi spinosi nascondono perfino i verdi ramarri.-viridis=virides. Il modello siracusano viene da Virgilio caricato di pathos.
In Teocrito, sostiene Snell, "traspare sempre la dissonanza fra l'elemento bucolico primitivo e quello letterario raffinato, ed è proprio in questo contrasto che si cela il fascino della sua poesia. Nel lamento per Dafni troviamo:"Lo piangevano gli alberi che crescono presso il fiume Imera, mentre si scioglieva come neve dell'Emo o dell'Ato o del Rodope o dell'estremo Caucaso" (VII, 74-77). Questa è letteratura poiché parlare di Emo, di Ato, del Rodope o del Caucaso non è linguaggio di pastori-è tono patetico di tragedia...Quando Teocrito fa enumerare queste montagne ai suoi pastori, è press'a poco come quando Menandro mette in bocca, non a persone colte, ma agli schiavi, citazioni della tragedia. Con cosciente ironia egli si prende gioco dei pastori siciliani. Ma quando Virgilio leggeva queste e simili espressioni in Teocrito, egli le prendeva nel senso che avevano originariamente, cioè come espressioni di contenuto patetico, cariche di sentimento...Se l'Arcadia di Virgilio è traboccante di sentimento, i suoi pastori sono lontani tanto dalla vera vita rustica quanto da quella raffinata delle città. Nel loro idillio campestre la pace delle sere festive prevale sul duro lavoro quotidiano, si dà più rilievo all'ombra fresca che alle intemperie, e alla morbida sponda del fiume che all'aspra montagna. I pastori indugiano a suonare il flauto e a cantare, più che non si occupino di colare il siero o rimestare il formaggio. Tutto ciò si delinea già in Teocrito, ma Teocrito ha ancora molto gusto per il particolare preciso e realistico; Virgilio tende più al sentimentale, cerca ciò che ha un valore interiore. In Arcadia non si fanno calcoli, non si ragiona in termini precisi e definiti. Tutto vive nella luce del sentimento...Virgilio legge in Teocrito che durante le ore meridiane le lucertole dormono nelle siepi spinose. In Teocrito ciò è detto in tono di meraviglia perché qualcuno è per istrada a quell'ora, "quando anche le lucertole fanno la siesta" (VII, 22); ma in Virgilio un pastore infelice in amore canta:"Mentre gli animali cercano ombra e frescura, e le lucertole si nascondono nelle siepi di spino, io devo sempre cantare del mio amore" (II, 8)"[6].
Anche nella poesia bucolica, come nella tragedia e nella commedia "i Greci confermano il talento di creare forme esemplari"[7].
Secondo Max Pohlenz gli idilli bucolici di Teocrito, come altra poesia ellenistica, sono ispirati da un autentico amore della natura:"Non l'umore del momento o una moda han fatto di lui un poeta bucolico, ma un impulso interiore, l'amore sincero per la natura. Quando nel Tirsi [8] narra la morte del primo poeta pastore[9], l'estremo saluto di questo è rivolto alla natura tutta, ai lupi e agli orsi non meno che alle sue greggi, e per la morte di Dafni si lagnano gli usignoli, piangono le fonti, s'attristano i fiori e gli animali"[10]. La natura per Teocrito "rappresenta ancora la sfera vitale cui egli, come una parte del tutto, è indissolubilmente avvinto; essa entra a costituire il contenuto della sua esistenza nella stessa misura della poesia dotta, della sua arte.
Nostalgico era l'atteggiamento verso la natura di quanti effettivamente vivevano nelle grandi città. Ad Alessandria il re Tolemeo, che soffriva di podagra, invidiava i proletari seminudi e privi di bisogni; l'uomo di cultura vedeva circonfusa d'una luce radiosa la semplice vita dei pescatori e dei lavoratori manuali. Ci si entusiasmava per i lontani popoli viventi allo stato di natura, per tutto ciò che era primitivo. Callimaco esaltò la tranquilla felicità che regnava nella misera capanna di Ecale, e un suo personaggio, Aconzio, cerca la solitudine della foresta per confidare agli alberi le sue pene d'amore e incidere sulla corteccia il nome dell'amata…La fantasia si dipingeva una vita semplice, priva di bisogni, naturalmente innocente: ma come un paradiso che i moderni popoli civilizzati avevano irrimediabilmente perduto"[11].
Alla fine della II bucolica virgiliana il tramonto raddoppia le ombre ma non pone fine all'ardore di Coridone e alla passione che trascina ciascuno sconvolgendo ogni misura :"trahit sua quemque voluptas...et sol crescentes decedens duplicat umbras ./me tamen urit amor : quis enim modus adsit amori? " (v.65 e 67-68), Chi è afferrato da Eros ignora la giusta misura siccome l'amore è follia:"A Corydon, Corydon, quae te dementia cepit! ", v. 69.
Il modus invece, la misura è topicamente la quintessenza del rectum , il giusto in Orazio:"est modus in rebus, sunt certi denique fines,/quos ultra citraque nequit consistere rectum " (Satire , I, 1, vv. 106-107), c'è una misura nelle cose, ci sono limiti definiti dopotutto al di là e al di qua dei quali non può sussistere il giusto.
Per Seneca il modus si identifica sempre con la virtus : "cum sit ubique virtus modus " (De Beneficiis , II, 16, 2). Dietro questa concezione "vi sono secoli di filosofia ellenistica: la mesovth" era stata peripatetica, la metriovth" era stata definita e propugnata dall'accademico Crantore, poi dal neostoico Panezio, il quale aveva avuto sulla morale della classe colta romana una grande influenza"[12].
L'eccesso è la quintessenza di ogni male nella cultura greca classica.
La formulazione più chiara e sintetica è quella del Solone di Plutarco. Quando Creso, il pacchiano re barbaro gli fece vedere i suoi cospicui tesori e gli chiese se conoscesse qualcuno più felice di lui, nominò personaggi non famosi e non ricchi, ma "belli e buoni". Allora Creso lo giudicò strambo (ajllovkoto") e zotico (a[groiko"), tuttavia volle domandargli se lo mettesse in qualche modo nel novero degli uomini felici. Il legislatore ateniese quindi rispose: "Ai Greci, o re dei Lidi, il dio ha dato di essere misurati (metrivw" e[cein e[dwken oJ qeov"), e per questa misuratezza ci tocca una saggezza non arrogante ma popolare, non regale né splendida "[13]. Erodoto e Sofocle, in quanto seguaci della religione delfica condannano spesso la dismisura.
Diamo la formula del Secondo Stasimo dell'Antigone:" Sia nel tempo prossimo sia nel futuro/come nel passato avrà vigore/ questa legge: nulla di smisurato/ si insinua nella vita dei mortali senza rovina" (oujde;n e{rpei -qnatw`n brovtw/ pamploluv g j ejkto;~ a[ta~-vv. 611-614).- e[pei cfr. latino serpo
Anche il "sacrilego" Euripide considera questo valore:"ajcalivnwn stomavtwn-ajnovmou t j ajfrosuvna"-to; tevlo" dustuciva, cantano le Baccanti nel Primo Stasimo (vv. 387-389), di bocche senza freno, di sfrenata stoltezza, il termine è sventura.
Più avanti il coro canta che Dioniso odia chi non si prende cura di tenere il cuore e la mente lontani dagli uomini straordinari[14]:'"ajpevcein prapivda frevna te;;;;;;-perissw'n para; fwtw'n"(vv.427-428).
La virtù che consiste nell'evitare la dismisura si presenta in vari saggi della letteratura antica: ricordo il Catone Uticense della Pharsalia celebrato da Lucano come uomo ricco di virtù in testa alle quali c'è quella serbare la giusta misura ("servare modum ", II, 381).
Secondo questa concezione, l'amore, in quanto dismisura, è vizio che può addirittura arrivare all'abominio di una Pasife, cui Sileno nella VI bucolica rivolge un' apostrofe, carica di pathos simile a quella diretta a Coridone:"A, virgo infelix, quae te dementia cepit? " (v. 47).
"Teocrito rappresenta con vivacità il suo mondo pastorale ed è affezionato ai suoi umili personaggi, ma per lo più si sente che guarda ad essi con distacco e anche con ironia, mettendoli lievemente e benevolmente in caricatura. Dell'ironia, della comicità teocritea quasi niente resta in Virgilio. Un esempio molto chiaramente indicativo è nella seconda ecloga. Nel monologo di Coridone che, nella solitudine dei boschi, lamenta il suo amore infelice per Alessi, Virgilio trae spunto dall'idillio 11 di Teocrito, dove il Ciclope Polifemo chiede invano l'amore della ninfa Galatea. Il Ciclope, brutto, rozzo, goffo, è un innamorato ridicolo; Coridone, benché sia un uomo di campagna, non ha nulla di caricaturale: è solo un amante infelice, di animo candido"[15].
Tutt’altra visione ha Nietzsche dei pastori.
I pastori sono altra cosa rispetto agli educatori che non vogliono il seguito di un gregge.
Zarathustra il quale invece vuole rimanere diverso di pastori “ Compagni vivi mi occorrono, i quali mi seguano perché vogliono seguire se stessi (…) Zarathustra non deve diventare pastore e il cane di un gregge. A portar via molti dal gregge-per questo io sono venuto (…) predone vuol essere chiamato dai pastori, Zarathustra. Io dico pastori, ma loro si chiamano i buoni e i giusti. Pastori io dico: ma seguaci dell’ortodossia si chiamano loro. Guardali questi buoni e giusti! Chi odiano essi massimamente? Colui che spezza le loro tavole dei valori, il distruttore, il delinquente-questi però è il creatore”[16].
“Colui che crea, essi odiano massimamente: colui che spezza le tavole e gli antichi valori, colui che infrange e che essi chiamano delinquente”[17].
Anche Platone distingue il pastore dall’educatore
L’arte politica regia - basilikh; kai; politikhv tevcnh si prende cura della comunità umana non è la stessa cosa che la qreptikh; tevcnh, la tecnica dell’allevamento.
Nel Politico di Platone il personaggio straniero di Elea dice che l’arte politica regia è soltanto quella di avere cura dell’intera comunità umana (ejpimevleia dev ge ajnqrwpivnh~ sumpavsh~ koinwniva~, 276b). Guidare gli uomini come fanno i pastori con gli animali dobbiamo invece chiamarla qreptikh;n tevcnhn, tecnica dell’allevamento, non basilikh;n kai; politikhvn tevcnhn (276c), non arte regia e arte politica. Infatti il re e l’uomo politico è quello che si prende cura (ejpimevleian) di uomini bipedi che liberamente l’accettano (eJkousivwn dipovdwn, 276d ).
Pesaro 25 agosto 2023 ore 11, 05 giovanni ghiselli
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[1] Cioè prima di farsi monaco per sempre.
[2] A stento si conteneva nel suo petto.
[3] Convertì il piacere in dolore.
[4] Traggo questo brano de Le vite dei Santi Padri di Domenico Cavalca da Lunario dei giorni d'amore a cura di G. Davico Bonino, p. 135.
[5]Cfr. VII, Le Talisie , 22.
[6]B. Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo , p. 392 e ss.
[7] B. Snell, Poesia e società, p. 152.
[8] E' il nome del bovaro che nell'Idillio I canta la morte di Dafni.
[9] Dafni appunto
[10] Max Pohlenz, L'uomo greco, p. 555.
[11]Max Pohlenz, L'uomo greco, p. 556.
[12] A. La Penna, Orazio, Le Opere. Antologia , p. 16.
[13] Plutarco , Vita di Solone , 27.
[14] In Delitto e castigo di Dostoevskij, "gli uomini si dividono in -ordinari- e -straordinari-.Quelli ordinari devono vivere nell'obbedienza e non hanno diritto di violare la legge, perché essi, vedete un pò, sono appunto ordinari. Quelli straordinari, invece, hanno il diritto di compiere delitti d'ogni specie e di violare in tutti i modi la legge, per il semplice fatto d'essere straordinari"(p.290).
[15]A. La Penna-C. Grassi, op. cit., p. XIX.
[16] Così parlò Zarathustra, Prefazione.
[17] Così parlò Zarathustra III parte, Di antiche tavole e nuove, 26.
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