Diciamo ora due parole sulla metafora che secondo la definizione di Aristotele è il trasferimento di un nome estraneo (metafora; dev ejstin ojnovmato" ajllotrivou ejpiforav, Poetica, 1457b) ossia consiste nell'attribuire alle parole significati diversi da quelli che hanno di solito. Il filosofo di Stagira ne coglie il valore conoscitivo quando afferma che è un pregio grandissimo di un testo, poiché rivela l'originalità dell'ingegno dell'autore :"to; ga;r eu\ metafevrein to; o{moion qewrei'n ejstin" (1459a), infatti saper trovare buone metafore significa vedere la somiglianza .
Questa forma di intelligenza poi è l'ingenium di G. Vico: "Nel De ratione, Vico definisce l'ingegno o ingenium come 'la facoltà mentale che permette di legare in modo rapido, appropriato e felice cose separate'. Facoltà innanzitutto sintetica, e opposta all'analisi sterile, permette l'invenzione e la creazione"[1].
Nella Retorica Aristotele ribadisce l'importanza della metafora per la sua piacevolezza e per essere fuori dal comune (1405a).
La metafora dunque attesta l'originalità dell'autore e indica le parentele tra le cose :" La realtà è un luogo comune dal quale sfuggiamo con la metafora. La metafora letteraria stabilisce una comunicazione analogica tra realtà assai lontane e differenti, dando intensità affettiva all'intelligibilità che produce. Generando onde analogiche, la metafora supera la discontinità e l'isolamento delle cose"[2].
Faccio l'esempio di una metafora che amo per la mia antica frequentazione della spiaggia di Pesaro: nel Prometeo incatenato il Titano invoca il cielo splendente, i venti dalle rapide ali, le sorgenti dei fiumi, la terra madre di ogni cosa, l'occhio onniveggente del sole "pontivwn te kumavtwn-ajnhvriqmon gevlasma" (vv. 89-90), l'innumerevole sorriso delle onde marine. Un sorriso che riverbera la luce del sole o quella della luna, un sorriso che, secondo Lucrezio, può essere un segno di gratitudine per la presenza di Venere:"tibi rident aequora ponti" (De rerum natura, I, 8), a te ridono le distese del mare.
Ma torniamo al discorso amoroso.
Orazio nella prima Ode del quarto libro[3], arrivato intorno alla cinquantina (circa lustra decem , v. 6) chiede a Venere di risparmiargli la guerra:"Intermissa, Venus, diu/rursus bella moves? Parce, precor, precor " (vv. 1-2), dopo lunga tregua, Venere, mi fai di nuovo guerra? Risparmiami, ti prego, ti prego. Il secondo verso "si configura come una ajpopomphv, cioè come una preghiera destinata ad allontanare da chi prega il pericolo proveniente da una divinità"[4]. Il pericolo è costituito dai dardi dell'amore.
Orazio è contemporaneo dei poeti elegiaci, ossia scrive nei decenni nei quali va definendosi il nostro modo di considerare il rapporto dell'uomo con la donna. Nel poeta di Venosa, a differenza che in Catullo (il quale precorre gli elegiaci), Properzio e Tibullo, non c'è una donna che accentra l'attenzione: egli, come scrisse Pasquali, vola di fiamma in fiamma senza bruciarsi le ali.
Anche in Orazio tuttavia c'è il mal d'amore: vediamo l' Ode I, 19 per Glicera. La prima strofe (asclepiadea IV) mette il rilievo fin dal primo verso la dura crudeltà di Venere:" Mater saeva Cupidinum/Thebanaeque iubet me Semelae puer/et lasciva Licentia/finitis animum reddere amoribus"( vv. 1-4), la madre crudele degli Amori e il figlio della Tebana Semele e la Licenza sfrenata mi impongono di ridare il mio animo ad amori finiti. Il puer è Bacco poiché il vino è viatico per l'amore come vedremo in Apuleio ( L'asino d'oro , II, 11). Nella contrasto tra iubet me e lasciva Licentia vediamo una delle contraddizioni dell'amore: quando siamo innamorati vogliamo libertà e servitù assoluta nello stesso tempo.
Nella seconda strofe c'è una fiamma che divora:"urit me Glycerae nitor/splendentis Pario marmore purius,/urit grata protervitas/et voltus nimium lubricus adspici " (vv. 5-8), mi infiamma il fulgore di Glìcera il quale brilla più splendidamente del marmo Pario, mi infiamma la sfrontatezza gradita e il volto troppo pericoloso a guardarsi.
L'anafora di urit mette in rilievo la forza del fuoco e anche se il nome della donna contiene la dolcezza[5], il suo volto lubrico è un rischio per il poeta che può scivolarci sopra[6]. Nella terza strofe successiva l'innamoramento è visto come un assalto subìto:"in me tota ruens Venus/Cyprum deseruit nec patitur Scythas/et versis animosum equis/Parthum dicere nec quae nihil attinent " (vv. 9-12), Venere lanciandosi tutta contro di me ha lasciato Cipro, e non permette che io canti gli Sciti e il Parto audace sui cavalli girati né ciò che non la riguarda. Venere tota ruens è come Cipride nell'Ippolito di Euripide (Kuvpri~ ga;r ouj forhtov~, h]n pollh; rJuhv, /v. 443) e come Eros dell'Antigone che si abbatte su quello che trova (pivptei~- v. 783).
Sicché Orazio innamorato è del tutto pervaso da questa divinità crudele, è già in guerra, e non può dedicarsi a cantare altre guerre, quelle esterne. Nell'ultima strofe il poeta si dispone a riti propiziatori per mitigare la divinità crudele che esige sacrifici:"hic vivum mihi caespitem, hic/verbenas, pueri, ponite turaque/bini cum patera meri:/mactata veniet lenior hostia" (vv. 13-16), ponetemi qui una zolla viva, ragazzi, qui ramoscelli ponete e incenso con una tazza di vino dell'altro anno: verrà più mite una volta ammazzata la vittima.
Il tovpo" del rapporto rischioso con un Eros crudele e ostile si trova pure, con accentuazione del dolore, in Properzio il quale dipinge Amore come un nemico armato dal quale nessuno può allontanarsi senza ricevere ferite:" Et merito hamatis manus est armata sagittis,/ et pharetra ex umero Gnosia utroque iacet,/Ante ferit quoniam, tuti quam cernimus hostem, /nec quisquam ex illo vulnere sanus abit " (II, 12, 11- 12), giustamente la mano è armata di frecce uncinate, e dai due omeri pende una faretra cretese, poiché ferisce prima che noi al riparo vediamo il nemico né alcuno scampa immune da quella ferita.
Il poeta ne è già stato colpito al punto che il dio fa una guerra continua dentro il suo sangue:" Assiduusque meo sanguine bella gerit" (v. 16). Amore dovrebbe vergognarsi di tanto accanimento e scagliare i suoi dardi contro qualcun altro:" Si pudor est, alio traice tela tua " (v. 18). Oramai è l'ombra sottile di Properzio, non più la persona che busca bastonate:"non ego, sed tenuis vapulat umbra mea" (20). Se il canto deve continuare dunque bisogna che almeno l'umbra non vada perduta e Amore smetta di menare colpi.
La differenza tra Orazio e gli elegiaci è che questi, se pure cercano di attenuare la violenza di Eros, accettano tutti gli aspetti dolorosi della passione.
Nell'Ode I 33 di consolazione a Tibullo, Orazio allega all'amore una parola chiave della poesia amorosa che è dolere , patire il dolor, la sofferenza amorosa consigliando all'amico di evitarla. Vediamo la prima stofe ( asclepiadea terza):" Albi, ne doleas plus nimio memor/immitis Glycerae, neu miserabilis/decantes elegos, cur tibi iunior/laesa praeniteat fide " (vv. 1-4), Albio non dolerti più troppo memore della crudele Glìcera e non andare cantando lamentosi distici perché, violata la fedeltà, uno più giovane prevale su te con il suo splendore.
Immitis Glycerae presenta un rapporto ossimorico tra l'aggettivo e la dolcezza contenuta nel nome della donna. Questo ossimoro anticipa il successivo saevo cum ioco (v. 12). Il motivo della donna immitis è ricorrente nella poesia elegiaca: nel corpus Tibullianum uno dei componimenti di Ligdamo indica un rapporto di necessità tra la padrona crudele e l'amore:"Nescis quid sit amor, iuvenis, si ferre recusas/immitem dominam coniugiumque ferum " (III, 4, 73-74), non sai cosa sia l'amore , giovane, se rifiuti di soffrire una padrona crudele e un accoppiamento feroce.
Tornando all'Ode oraziana (I, 33) il verbo decantare del v. 3 allude al ripetuto, continuo piagnisteo della poesia elegiaca e così pure miserabilis= miserabiles (v. 2). Nella seconda strofe c'è un poliptoto che significa la singolare catena d'amore nella quale chi ama non è riamato:"Insignem tenui fronte Lycorida/Cyri torret amor, Cyrus in asperam/declinat Pholoen: sed prius Apulis/iungentur caprae lupis,//quam turpi Pholoe peccet adultero. Sic visum Veneri, cui placet imparis/Formas atque animos sub iuga aenea/Saevo mittere cum ioco " (vv. 5-12), l'amore per Ciro brucia Licorida notevole per la fronte piccola, Ciro è incline all'aspra Foloe: ma le capre si accoppieranno con i lupi apuli prima che Foloe pecchi con un amante brutto. Così è parso giusto a Venere cui sembra opportuno sottoporre a gioghi di bronzo aspetti e anime differenti con scherzo crudele.
E' il tovpo" dell'amore che insegue chi fugge e viceversa.
In torret (v. 6) ritroviamo la comunissima metafora del fuoco. L'accoppiamento di capre e lupi è un esempio di adynaton (cosa impossibile). Orazio in ogni caso non soffre troppo poiché ha capito e si è rassegnato alla tragica legge del crudele gioco erotico per la quale amiamo chi non ci ama e non amiamo chi ci ama. Sembra che capire questo, e magari riderci sopra, sia l'antidoto al dolore:"Ipsum me melior cum peteret Venus,/Grata detinuit compede Myrtale/Libertina, fretis acrior Hadriae/Curvantis Calabros sinus " (vv. 13-16), me pure, quando mi cercava un amore più degno, tenne avvinto con ceppi graditi Mìrtale liberta, più violenta dei flutti dell'Adriatico che incurva i golfi salentini. Il giogo amoroso è accettato volentieri dal poeta.
Del resto i caratteri forse non erano troppo impares poiché Orazio nell'Ode III 9 viene definito dall'amante Lidia "improbo/iracundior Hadria " (vv. 21-22), più collerico dell'Adriatico in tempesta.
In ogni modo il rapporto amoroso è difficile quanto la traversata dell'Adriatico in tempesta. Ma vale la pena affrontare l’mpresa poiché ci aiuta a scoprire l'identità: come scrivere un libro, azzardo che "non cessa mai di essere una cosa folle, eccitante, la traversata di un oceano su un minuscolo canotto, un volo solitario attraverso il Tutto[7]".
Il tradimento della fede da parte della donna ricordato nell'Ode I 33 è topico nelle situazioni amorose dei poeti elegiaci i quali ricevono ferite da questa attitudine dell'amante.
Invano le korivnqiai gunai'ke" del Coro della Medea avevano protestato contro questo tipo di giudizio malevolo comune dei poeti maschi: i canti dei poeti antichi smetteranno di ripetere la storia della mia malafede ("ta;n ejma;n uJmneu'sai ajpistosuvnan ", v. 422). In effetti già Omero nell'XI dell'Odissea aveva fatto dire ad Agamennone finito nell'Ade dopo essere stato trucidato dalla moglie:"oujkevti pista; gunaixivn" (v. 456), poiché non c'è più credibilità per le donne. Poi Esiodo nelle Opere aveva scritto: chi si fida di una donna, si fida dei ladri (v. 375). Perciò il fratello dell'autore, Perse, doveva stare attento a non lasciarsi ingannare da una donna pugostovlo", dal deretano vezzoso, che mentre fa moine seducenti mira al granaio (vv. 373-374).
Pesaro 18 agosto 2023 ore 9, 39.
Una storia d’amore a lieto fine è il melodramma Eduardo e Cristina che ho visto ieri sera. L’amore trionfa, ma non senza avere prima inflitto grandi sofferenze agli amanti Eduardo e Cristina appunto e al loro figlio Gustavo.
Il Coro nel secondo atto canta: “Di quante rie vicende-Tu sei cagione amor!”.
Nelle Argonautiche di Apollomio Rodio l’amore di Medea e Giasone non dona gioia ai due amanti, al punto che l'autore rivolge un'apostrofe ad Eros quale latore di infiniti dolori: Eros atroce, grande sciagura, grande abominio per gli uomini ("scevtli j [Erw", mevga ph'ma, mega stuvgo" ajnqrwvpoisin" (IV, 445) da te provengono maledette contese e gemiti e travagli, e dolori infiniti si agitano per giunta. Prendi le armi contro i figli dei miei nemici, demone, quale gettasti l'accecamento odioso nell'animo di Medea ( oi'Jo" Mhdeivh/ stugerh;n fresi;n e{mbale" a[thn", v. 449).
Rossini e Andrea Leone Tottola sono più ottimisti e alla fine del melodramma il re di Svezia Carlo abbraccia il nipote Gustavo che in precedenza voleva uccidere con i due genitori, amanti furtivi. Il prode Eduardo infatti gli ha salvato il trono e il regno dal “russo audace che di questo suol turba la pace”. I Russi dunque vengono respinti dal prode duce Eduardo e Carlo perdona il seduttore della figlia e pure la sedotta figliola Cristina la quale canta: “Felici miei sospiri!” E il padre: “Omai tranquillità per tutto spiri!” Quindi il re abbraccia il nipote che aveva condannato a morte con i due amanti
Le ultime parole sanciscono il trionfo dell’amore.
Cristina Eduardo e Carlo cantano: “or più a voi dolci intorno al core-stringe amor le sue catene”
E infine Tutti: “Più soave delle pene- Ei fa sorgere il piacer”
Questo spettacolo è di gran lunga inferiore agli altri due visti e ricordati nei giorni scorsi. Brutta è la scenografia, meno potente la voce delle donne e la stessa musica, piuttosto noioso il testo molto ripetitivo.
p. s.
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[1] E. Morin, L'identità umana, p.19 n. 6.
[2] E. Morin, op. cit., p. 94.
[3]Edito nel 13 a. C.
[4]A. La Penna, Orazio, Le Opere, Antologia , p. 438.
[5] glukei'a=dolce.
[6]Ho colto diversi suggerimenti su questa Ode da una conferenza tenuta da Paolo Fedeli durante il XV Certamen Horatianum di Venosa (maggio 2001).
[7]H. Hesse, La Cura , p. 73.
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