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giovedì 3 agosto 2023

Nicia, il generale pacifista. Un politico nefasto per Atene. Di Giuseppe Moscatt

Nicia, il generale pacifista. Un politico nefasto per Atene (429 a.c.- 421 a.c.)
di Giuseppe Moscatt


Spesso la storia di due nazioni - e qui di due famose città/stato - dipende del conflitto politico e morale di due rappresentanti della stessa classe dirigente, protagonisti in competizione per acquisire il favore popolare e il potere lasciato vacante da un governante politicamente ineccepibile com'era Pericle. Questi, in mezzo a non poche critiche, nel 429 viene rieletto stratega capo, benché l'Areopago richiedesse del pari la pace con Sparta, ormai alle porte del Pireo fra grosse perdite di opliti, una crisi economica che affliggeva le campagne messe a ferro e a fuoco e una peste bubbonica che venuta dal mare investiva la città. Una fra le tante accuse del democratico di opposizione, Cleone, il conciatore di pelli, che Pericle lo si attaccava fin da aprile per certe mancanze di fondi per le spese militari mai erogate, ma poste fittiziamente in bilancio.
Pericle oppose il segreto di Stato e la sua parola bastò a sollevarlo dalla pena di morte per alto tradimento. Salvo 50 talenti di multa e una breve sospensione dell'attività politica che non intaccarono il suo ampio favore popolare nell'assemblea di guerra convocata per condannarlo.
 
Intanto - e siamo già nel 429 ormai avanzato - il corpo d'armata spartano, guidato dal vecchio Re Archidamo - e con al comando in seconda il giovane Brasida, reduce dall'impresa marinara che insieme all'ammiraglio Cnemo aveva conquistato il porto di Cillene, promontorio strategico del Peloponneso - decise di astenersi dall'entrare nell'Attica, preferendo attaccare Platea e poi battere a Spartolo l'armata ateniese. Bloccato a nord dopo quella battaglia malamente perduta; morti in battaglia i figli Santippo e Paralo, fermo da troppo tempo dentro le mura perforate da numerosi casi di epidemia, la forte tempra di Pericle venne meno, complice qualche sintomo della peste, morendo a 60 anni. Chi poteva succedere al leone di Atene, il maggiore esponente di un'età di esposizione economica e culturale secondo soltanto nella storia a Lorenzo dei Medici? Certamente, era chiara la difficoltà di un successore, vista anche la dolorosa morte per peste dei figli Santippo e Paralo. Uomini politici di pari valore non esistevano.
Spiccava per violenza e immoralità il ricco mercante di cuoio, l'immigrato di Anfipoli (Tracia) Cleone, capo della fazione democratica, oggi diremmo il campione della borghesia medio-piccola, di tendenza progressista, forse amato dal popolo minuto, ma non solo inviso agli intellettuali (per es. Aristofane, che lo mise alla berlina nelle a Commedia I cavalieri) ma anche ai conservatori della vecchia classe agraria e nobiliare da cui erano germinati Pisistrato e lo stesso Pericle Era un esponente assai esperto negli affari commerciali e nell'economia marittima e agraria. E per tale competenza sembrò adatto a succedere al Magnifico, tanto più che conosceva l'andamento della economia dell'antico avversario spartano. Ai conservatori non restò che accettare la guida di un volpone politico, Nicia, cui non era mancata una certa arroganza nel dibattito all'Areopago, non disgiunta alla spregiudicata campagna politica contro il capo del partito avversario, tale Tucidide di Malesia - da non confondere con lo storico che era stato ostracizzato da Pericle all'inizio della guerra per presunti illeciti accordi col nemico - anche se la mano tesa di Cleone nella vicenda di Pericle lascia sospettare qualche accordo occulto per eliminare quel politico.
 
In realtà, fin dal 435 - quando la vittoria di Corcira su Corinto al promontorio di Leucimma significò una evidente prevalenza di Atene su Sparta alleata dei corinzi - Cleone da buon politico spregiudicato si legò sorprendentemente con Pericle, cominciando la sua scalata al Potere, obbedendo alle antiche leggi della realtà fattuale, come dirà Machiavelli quasi 15 secoli dopo. Al contrario, la classe conservatrice, chiaramente orientata verso la pace con Sparta e soci, puntò appunto sul giovane ricco proprietario urbano e terriero, Nicia di Niceratro, fino ad allora lontano dalla politica, anche se il vecchio Tucidide di Melesia lo aveva segnalato al Partito. Che dal canto suo lo pose alla guida perché ligio alle antiche consuetudini sociali e dunque sensibile agli interessi locali marinari. Soprattutto piacque al popolo perché non fece mostra di ricchezza acquisita con attività illecite. Non fu però un generale di ferro: era piuttosto tendenzialmente pacifista, e non aveva come Cleone brame di conquista di mercati esteri. La guerra per altro continuava. C'era però una domanda di tregua, alimentata dai partiti democratici e conservatori dei due Paesi al loro interno, dove cioè a sprazzi prevaleva di stretta misura la schiera dei pacifisti sui guerrafondai. Era permanente la volontà di guerra, ma si intrecciava un senso di moderazione che Nicia mostrava nella sua azione militare. Nella rivolta di Mitilene (428-427); nella guerra civile a Corcira (427) e nella prima spedizione in Sicilia (427-424); si lasciava trasparire una volontà di guerra in graduale discesa e sicuramente un'adesione implicita alla scelta strategica dal collega stratega Cleone di portare la belligeranza ad Occidente del Peloponneso. Quando però nel 428 e nel 427 accadde il noto episodio di Mitilene, che si ribella alla lega attica e consegue la caduta dei rifornimenti militari e alimentari alle città federate, la situazione cambia: la scelta di imporre alle città collegate forti tributi per continuare la guerra accresce di colpo la domanda di pace con Sparta. Anzi, proprio Cleone ne approfitta per il suo interesse: Mitilene, la ribelle, va distrutta per punizione e per evitare pericolose defezioni, prima fra tutte la potente alleata occidentale che era Corcira.
 
Quella guerra civile che si temeva, è sintomatica del duello fra Nicia e Cleone, che salvò però la città dal dominio spartano quando al porto apparve una squadra navale ateniese che fece arretrare le forze filospartane. Purtroppo, Tucidide dà notizia del classico esito di quelle guerre antiche: vae Vicitis, disse il barbaro Brenno ai Romani vinti, come dice Tito Livio. E a Corcira il buon Nicia non riuscì ad evitare la strage dei conservatori locali che avevano parteggiato per gli Spartani. E questo episodio spingeva il capo dell'esercito Brasida a chiedere la pace, comprendendo che la catena delle vendette fra le due parti era contraria allo spirito umano di pace, proclamato nelle piazze di Atene e di Sparta da un filosofo particolare, Protagora di Abdera (490-411 d.c.), che nei suoi Ragionamenti demolitori, sulla Religione, sullo Stato, sulla Pace e sulla Guerra; aveva annullato la prevalenza della seconda sulla prima in relazione alla natura non conflittuale dell'Uomo. E la guerra continuava. Invero il nuovo re di Sparta Brasida, pur suggestionato dalle tendenze del collega Nicia di Atene rivolte a terminare la guerra; benché questi fosse consapevole che la maggioranza popolare ateniese non era ancora su quella linea a fronte dei discorsi manipolatori di Cleone, la cui coraggiosa azione militare a Corcira aveva risollevato il morale della nazione; fece una scelta epocale per la storia militare.
Brasida cioè aveva brillantamene intuito - e Nicia non lo aveva compreso - che attaccare Atene in Attica non era fattibile (come per gli Ucraini è difficilissimo oggi occupare la Federazione Russa...), ma era operazione plausibile nel suo vasto Impero. Né era possibile una guerra per mare, dove la sproporzione militare era evidente. Restava una terza soluzione: aggredire le terre colonizzate dagli ateniesi; vale a dire quella Tracia - e quella Anfipoli patria dell'avversario Cleone. Approfitta della temporanea alleanza dei Calcidesi - che ora si ribella ad Atene - e del re macedone Perdicca, finalmente anticipatore delle iniziative future unitarie di Filippo ed Alessandro Magno. Nicia intanto trionfava ad Atene, come stratega Capo, trascurando lo sbarco alle Termopili di un corpo di spedizione spartano in Tracia. La speranza di pace invece prevaleva nell'assemblea, malgrado Cleone avesse compreso il pericolo che poteva arrivare dal Nord. Tucidide ci dà un bellissimo dialogo fra quest'ultimo e lo stesso Nicia, segnalando che occorreva fermare l'avanzata spartana nell'isola strategica di Sfacteria per impedire il collasso dei rifornimenti alimentari.
 
Chi doveva avere ora il comando? Nicia era poco disposto a combattere in prima persona; eppure lo spavaldo Cleone, non era avvezzo alle battaglie navali. Nicia, sperava - a dire di Tucidide - che Cleone perdesse per potersene sbarazzare politicamente e con mossa cinica gli propose proprio quel comando. Cleone, borioso e preso di sé - come il generale Bonaparte che voleva acquisire nel 1796 potere nella Francia moderata del Direttorio guidato dalla furbizia di Barras, e che ne accettò la subdola proposta di invadere l'Italia del Nord per aggirare gli austriaci - non solo conquistò Sfacteria, ma diede agli Ateniesi una così sonora sconfitta, tanto da indurli a chiedere finalmente la pace. Naturalmente Cleone rifiutò e anzi un suo sodale, ministro delle finanze, impose un tributo agli alleati per le spese di guerra ben più salato dei precedenti. Era Cleonimo, che lo raddoppiò e che poi contribuì all'aumento delle paghe ai militari. Operazione favorita da un’offerta più che robusta derivata dalle casse di Nicia. Cosa che comportò anche una sua partecipazione al Governo, in armonia alla solidarietà nazionale che Atene e l'Attica ottennero da tutte le classi coinvolte nella guerra. Dal 424 Nicia sembrò abbandonare l'idea filo spartana, tanto da occupare con le sue truppe l'isola di Citera.
E' noto però che la politica di Brasida, nuovo generale in capo degli spartani spinse sull'acceleratore dell'invasione della Tracia e Anfipoli, con la complicità degli alleati macedoni, cadde definitivamente nelle mani dei Lacedemoni. Qui si nota l'episodio militare di Tucidide lo storico, all'epoca generale di Atene, che disobbedì all'ordine di Cleone riguardante la vigilanza marittima dall'Egeo e che perciò favorì a Taso l'avanzata spartana, onde Anfipoli non poté più resistere. Accerchiato nel Porto di Eione, Tucidide riuscì ad acquartierarsi e poté resistere, ma senza potere dare alcun aiuto agli abitanti di Anfipoli. La difesa di Tucidide, si legge nel libro IV della sua storia della Guerre del Peloponneso: al paragrafo 103, Tucidide opportunamente avverte il lettore che dentro alla città di Anfipoli vi era una colonia non piccola di Argili alleati degli Spartani. I coloni ateniesi li tenevano d'occhio, specialmente con Brasida alle porte. In una notte di tregenda costoro attaccarono di sorpresa il corpo di guardia ateniese. Il governatore Eracle mandò dei messi a chiedere rinforzi a Taso, dove il generale Tucidide stazionava con le navi e le truppe pronte ad aiutare gli assediati. E Tucidide trepidamente uscì dal porto di Taso con 7 navi e vari opliti in soccorso.
 
Ora, lo spionaggio spartano forse fu più veloce, perché Brasida seppe di tale manovra. E agì di conseguenza: offrì subito la pace e la salvezza di vita agli assediati, in piena contraddizione alla prassi della strage ai vinti che si disse, tanto più che la navigazione ateniese era lenta e gli Argili stavano per cedere alla violenza sui cittadini inermi. Costoro accertarono la resa e miracolosamente la città fu risparmiata. Solo che per Tucidide, malgrado l'invocato maltempo e benché la notizia dell'arrivo dei rinforzi fosse trapelata senza sua colpa; scattò inevitabile la pena dell'esilio e si rifugiò in Tracia, vivendo fuori dalla politica, senza più sperare in un aiuto di Nicia. Rimasto più di 20 anni in Tracia a scrivere La guerra del Peloponneso,visse di rendita perché proprietario di miniere metallifere e questo fa dire ai nuovi studi di Luciano Canfora che l'ostracizzazione di Tucidide per il suo ipotetico tradimento a Anfipoli nascondeva la tentazione di Nicia di confiscare gli immobili dello storico. Anzi, il Canfora paragona Tucidide a Dante in esilio, anche perché ritrova sue tracce di partecipazione al tentativo di colpo di stato oligarchico ad Atene ordito nel 411 d.c. dal nobile Antifonte. Solo allora, dopo anni di vita nascosta e dopo tale evento chiusosi in modo fallimentare, Tucidide avrebbe veramente abbandonato Atene ed essersi rifugiato dal re macedone Archelao insieme al tragediografo Euripide, altro famoso congiurato esiliato per il complotto di Antifonte (tesi che Canfora costruisce nel saggio Il mistero Tucidide, Milano, 1999).
Sia come sia, Nicia non solo subì una forte sconfitta a Delio da parte dell'esercito di Tebe alleato di Sparta (424); ma anche una nuova spedizione in Sicilia non sortì l'effetto sperato di indurre le colonie ateniesi dalla loro parte. Il capo degli aristocratici di Siracusa, Ermocrate, radunò un congresso di filoateniesi a Gela nel maggio-giugno del 424 e ottenne una pace separata con le potenze peloponnesi. Cresceva nel contempo, sempre di più fra le due parti la voglia di pace. Intanto un'altra città della penisola Calcidica, Scione, apparve sempre più favorevole agli Spartani, mentre Cleone soffiava sul fuoco e Nicia covava una serpe nel suo gregge, un tale Alcibiade che giovanissimo aveva partecipato a una spedizione militare della lega attica contro Potidea, fiorente colonia corinzia filo spartana, benché sulla carta fosse legata ad Atene.
Questi, amico e discepolo del filosofo Socrate, all'epoca seguace dei conservatori, aveva tentato da ambasciatore di mediare i contrasti. L'inutilità dell'ambasciata produsse l'occupazione di Potidea. Forte di questo precedente, Alcibiade, già ammalato di protagonismo, di fronte alla ormai chiara antipatia di Nicia per la guerra; appoggiò Cleone a riprendere la guerra del 422, appena scadette l'anno di tregua. E nell'autunno del 422, al principio dell'autunno, Cleone partì per Anfipoli. Era la resa dei conti con Brasida.
 
E anche stavolta Brasida lo attendeva quasi come Achille aspettava Ettore alle porte di Troia. Cleone morì nella battaglia, Brasida cadde poco dopo. Finì qui l'idea della guerra ad oltranza (e se finisse così per l'attuale guerra fra Putin e Zelens'kyj?) e la pace divenne più probabile. Nicia non mise alcun bastone fra le ruote e lo spartano Lachete fu contento di evitare ulteriori richieste agli alleati in uomini e rifornimenti, prima fra tutte Argo, dove il partito aristocratico a fatica teneva il passo coi popolani filospartani. Nel 421 ecco dunque una pace pretesa per 50 anni e magari l'avessimo avuta per lo stesso tempo in Europa nel 1°dopoguerra del '900. Si pattuì la restituzione di Anfipoli ad Atene e delle città della Tracia; il ritorno a Sparta dell'isola di Citera e la cessione di Platea a Tebe. Fu un compromesso senza dubbio. Ma Atene aveva vinto diplomaticamente perché l'idea di Pericle - come quella di Lorenzo il Magnifico - era quella di ottenere la stabilità geopolitica della Grecia, anche al fine di un processo unitario, come sperava il Cavour quando programmava le annessioni dell'Italia centro meridionale al Piemonte con l'alleato Napoleone a Plombières nel 1858. Invero, Atene manteneva la potenza commerciale marittima e terrestre, mentre l'unico porto di Sparta, Sfacteria, ritornava ad Atene.
Il prestigio di Atene e di Nicia a livello estero era intatto. Un po' meno, dopo 10 anni di guerra, quello interno. La popolazione era decimata, striminzito il tesoro interno, nondimeno gli alleati tradizionali come Tebe erano stati fiscalmente spremuti. Ora capo dell'opposizione, trasformisticamente accresciuti con elementi insoddisfatti della pace, stava lo stesso Alcibiade, ormai divenuto la spina nel fianco della fazione aristocratica, come lo fu Giolitti per il governo Crispi. Nicia, pur di fare pace con Sparta, non capì che una certa fronda democratica borghese stava montando contro gli spartani e che dunque quella pace era debole. In fondo la situazione sembra essere analoga a quella di Monaco del 1938, che lasciò insoddisfatti Inghilterra e Francia, mentre Hitler continuava ad insidiare la Cecoslovacchia e la Polonia, mentre Mussolini la sbandierava - come fece Nicia – come un successo personale che di fatto addirittura accelerò la guerra con la Germania nazista. Del resto, l'esecuzione della pace di Nicia, ebbe subito un punto debole. Sparta per ordine del governatore Clearida non ritirò le forze spartane da tutte le città della Tracia. Né questa per la maggior parte volle ritornare sotto Atene e si preparavano a resistere.
Di qui un processo reattivo a catena, perché Pilo, Cherea e Sfacteria non obbedivano neppure. Si ebbe un certo tempo l'illusione che Sparta e Atena addirittura collaborassero per attuare il trattato. Ciò avvenne negli anni '20 del '900, quando la Francia democratica di Aristide Briand e la Germania di Weimar a guida di Gustav Stresemann iniziarono a dialogare sul comune desiderio di pace europea dopo il disastro della Grande Guerra (ricordiamo per esempio il Premio Nobel per la pace conferito allo statista tedesco nel 1926). La minaccia di una potenza terza, come quella di Tebe accresciuta dalle città di Pilo e Platea, veniva per ora allontanata. Ma come detto, anche Atene aveva il D'Annunzio di turno, il dandy elegantone, figlio di famiglia ricco e beato, ammalato di stile e buongusto, ma anche desideroso di potere e di essere amato dal pubblico, il già citato Alcibiade. E accanto a lui, a complottare contro la classe oligarchica redditiera, c'era pure un figlio del popolo, una altro Mussolini, transfuga dei democratici perdenti, ma furbo e pronto a godere degli errori di Nicia, Iperbolo il Cavaliere, che con Alcibiade, Aristofane mise alla berlina a Teatro più per invidia che per effettiva debolezza politica. Quanto sia stato simile il rapporto dialettico fra Iperbole e Alcibiade e Mussolini e D'Annunzio, lo dimostra proprio la fonte di Plutarco, acerrimo nemico di coloro che come Iperbolo attentavano alla repubblica ateniese.
 
Lo storico di Cheronea infatti ci racconta che nel 417 a.c., mentre nell'areopago si discuteva i termini della spedizione in Sicilia come migliore arma per rintuzzare le pretese di Sparta, Nicia ed Alciibde giunsero ai ferri corti e ormai la fine del vecchio conservatore sembrava prossima. Iperbolo era pronto a colpire uno dei due con l'arte dell'ostracismo, cioè di esiliare il nemico politico. Ma si dimenticò che la politica era l'arte del probabile e dell'accordo impossibile, quella ben conosciuti nell'Italia repubblicana lungo gli 80 anni circa del secondo dopoguerra. Infatti - come dice ironicamente Aristofane che lo definì un venditore di lampade che viveva al buio - si prodigò nella votazione per l'ostracismo per ambedue i contendenti e che si concluse a sorpresa per l'esilio votato contro lui stesso. Evento non dissimile per d'Annunzio, che dopo la marcia su Roma, da lui stesso approvata negli anni precedenti come ultima impresa del fascismo di Mussolini, da cui il Duce volle distanziarlo, fino ad imporgli un esilio di fatto nel suo Vittoriale sul lago di Garda fino alla morte nel 1938. Iperbole del pari andò in esilio nell'isola di Samo, colonia ateniese, luogo in cui perì ucciso da quei complici oligarchici del colpo di stato del 411 a.C. che portò alla riforma della Repubblica d'Atene che ebbe come nuovo organo deliberativo il Consiglio dei 400, aperto ai rappresentanti del popolo minuto. Da quanto detto, emergeva la figura di Alcibiade, nipote di Pericle e suo pupillo fino alla morte dello statista nel 429. E qui per ore ci fermiamo, senza non cessare di insistere su come il governo conservatore di Nicia avesse di fatto sperperato il patrimonio di saggezza politica del Magnifico Pericle. Gli accordi sotterranei fra Nicia e Alcibiade continueranno per anni e non saranno più così positivi per Atene.

di Giuseppe Moscatt


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