Salvo l'affetto per la donna che sta abbandonando (ci mancherebbe!), nel “pio” Enea prevalgono doveri più forti verso gli dèi, il padre e il figlio. Sono gli argomenti classici degli amanti (uomini e ora anche tante donne) che nemmeno ci pensano a lasciare la famiglia.
Apollo attraverso vari oracoli gli ha ordinato di raggiungere l'Italia:"hic amor, haec patria est " (Eneide, IV, v. 347), questo è l'amore, questa è la patria. Inoltre l'eroe riceve rimproveri dall'immagine turbata del padre morto, ovviamente in somnis (353) , nei sogni, in tutti: quotiens umentibus umbris-nox operit terras, vv. 351-352, ogni volta che la notte con umide ombre copre le terre. Anche il figlio puer Ascanius lo ammonisce perché viene defraudato del regno di Esperia, e , infine l'interprete degli dèi mandato da Giove per quel suo iniquo procrastinare il compimento del destino.
Sicché Enea conclude la perorazione della propria fuga con queste parole:"Desine meque tuis incendere teque querellis:/ Italiam non sponte sequor " (vv. 360-61), smetti di infiammare me e te stessa con i lamenti: non cerco l'Italia di mia volontà.
Mi vengono in mente le mie amiche adultere quando mi abbandonavano per tornare dal marito, smarrito, non perduto, dunque ritrovabile. Ho sempre risparmiato loro ogni querella. Il più delle volte trovare è bello ma perdere è ancora più bello. Questo Didone non lo ha capito.
"Querellis voce che ci porta di nuovo nel mondo dell'elegia erotica (vedi, per esempio, Catullo, c. 64, v. 130 e v. 195, dove querellae sono i "lamenti" di Arianna abbandonata), è un termine che si presta molto bene a un 'riassunto' del contrasto in atto: da un lato le "lamentele" di una donna innamorata, dall'altro la coercizione del fato, che impone il sacrificio dei propri sentimenti privati. Le ultime parole di Enea, racchiuse in un emistichio ( uno dei numerosi versi incompiuti del poema) esprimono appunto il senso dell'invincibile pressione esercitata su di lui: è contro il suo cuore…che Enea porta avanti la sua missione"[1]. Sono giustificazioni ipocrite e inutili.
Chi ha amata anche una sola volta in vita sua sa bene che quella dell'amore, quando c'è, è la forza massima, ineluttabile; lo sa anche Virgilio (omnia vincit Amor, et nos cedamus amori " Ecloga X, v. 69, tutto vince Amore e noi all'Amore cediamo), e lo sa pure Didone che si dispera siccome capisce che Enea non la ama. L’ha usata, non amata.
Auerbach trova addirittura grottesco il fatto che Dante nel Convivio interpreti "la separazione di Enea da Didone come allegoria della temperantia"[2]. Sentiamo Dante:"chiamasi quello freno Temperanza…E così infrenato mostra Virgilio, lo maggior nostro poeta, che fosse Enea, ne la parte de lo Eneida ove questa etade si figura; la quale parte comprende lo quarto, lo quinto e lo sesto libro de lo Eneida. E quanto raffrenare fu quello, quando, avendo ricevuto da Dido tanto di piacere…e usando con essa tanto di dilettazione, elli si partio, per seguire onesta e laudabile via e fruttuosa, come nel quarto de l'Eneida scritto è!" (Convivio, IV, 26).
Dante insegna la superstizione condannata da Lucrezio diversi secoli prima e vuole farci credere che maltrattare una donna sia “onesta e laudabile via”. Dal “nostro maggior poeta” possiamo e dobbiamo imparare la potenza della lingua senza però lasciarci impressionare dalla sua religio la quale tantum potuit suadere malorum. Gli eruditi dantisti omettono sempre questa doverosa avvertenza.
Quel "non sponte ", ripreso dall'"invitus regina tuo de litore cessi " del VI canto (v. 460), contro la mia volontà, regina, mi allontanai dalla tua spiaggia, rende bene l'idea, anche se non voluta da Virgilio, della vigliaccheria dell'uomo.
Leopardi nello Zibaldone manifesta antipatia per Enea, sia pure a causa di una sua presunta perfezione:"Omero ha fatto Achille infinitamente men bello di quello che poteva farlo...e noi proviamo che ci piace più Achille che Enea ec. onde è falso anche che quello di Virgilio sia maggior poema ec." (2)…Troppa virtù morale, poca forza di passione, troppa ragionevolezza, troppa rettitudine, troppo equilibrio e tranquillità d'animo, troppa placidezza, troppa benignità, troppa bontà. Virgilio descrive divinamente l'amor di Didone per lui: da questo, e quasi da questo solo, ci accorgiamo ch'egli è ancor giovane e bello; e sebben questo in lui non ripugna alla (3609) natura e al verisimile naturale, come in Ulisse, pur tanta è la serietà dell'idea che Virgilio ci fa concepir del suo eroe, che la gioventù e la bellezza ci paiono in lui fuor di luogo…E così mentre Virgilio si ferma e si compiace in descrivere la passion di Didone e i suoi vari accidenti, progressi, andamenti, ed effetti…a riguardo d'Enea e della sua passione (3610) parla così coperto, anzi dissimulato…anzi serba quasi un così alto silenzio, che e' non mostra essa passione se non indirettamente e p. accidente, e in quanto ella si congettura e si lascia supporre p. necessità da quel ch'ei narra di Didone, e sempre volgendosi alla sola Didone. E par che volentieri, se si fosse potuto, egli avrebbe fatto che il lettore non istimasse Enea per niun modo tocco dalla passion dell'amore (di donna pur sì alta e sì degna e sì magnanima e sì bella e sì amante e tenera), e giudicasse che Didone avesse ottenuto il piacer suo, senza che quegli avesse conceduto. E chi potesse così stimare seconderebbe il desiderio di Virgilio. Tanto egli ebbe a schivo di far comparire nel suo eroe un errore, una debolezza, laddove non v'è cosa più amabile che la debolezza nella forza, né cosa meno amabile che un carattere e una persona senza debolezza veruna. E tanto egli giudicò che dovesse nuocere (3611) appo i lettori alla stima non solo, ma all'interesse pel suo Eroe (che mal ei confuse colla stima), il concepirlo e il vederlo capace di passione, capace di amore, tenero, sensibile, di cuore". Personalmente trovo esecrabile il pio Enea.
A noi di tale "eroe" dà fastidio piuttosto la doppiezza e ci piace metterlo a confronto con il Prometeo incatenato di Eschilo che attribuisce dignità al suo peccato:" io sapevo tutto questo:/di mia volontà , di mia volontà ( eJkw;n eJkwvn) ho commesso la trasgressione, non lo negherò"(vv. 265-266).
Si può pensare anche all' Edipo di Sofocle che si punisce da solo colpendosi gli occhi per non vedere gli orrori che pure ha commesso inconsapevolmente:" Apollo, era Apollo o amici/colui che portò a compimento queste cattive cattive mie queste mie sofferenze/Però di sua mano nessuno li colpì/tranne me infelice"( Edipo re , vv.1329-1332)
L' affermazione di Prometeo tra l'altro fornisce una legittimazione all'ira di Zeus e argomenti a Nietzsche per distinguere "la natura ariana" da quella "semitica" fin dal mito di Prometeo il quale :"per la dignità che conferisce al misfatto, è in uno strano contrasto col mito semitico del peccato originale, in cui la curiosità, la lusinga menzognera, la facilità a lasciarsi sedurre, la cupidigia, insomma tutta una serie di passioni prevalentemente femminili vengono considerate come l'origine del male. Ciò che invece contraddistingue il concetto ariano è la sublime idea del peccato attivo come specifica virtù prometeica"[3]. Una virtù che a Enea manca.
Didone non accetta le scuse e, infiammata ("accensa " v. 364), rimprovera all'amante in partenza una malafede e un'ingratitudine, tanto grandi da avere spento in lei ogni possibilità di credere nella buona fede che oramai in nessun luogo è sicura"Nusquam tuta fides " (v. 373). Torniamo sulla già pluritratta fides e sentiamo ancora La Penna-Grassi:" fides è propriamente quella garanzia che si dà col foedus , specialmente collo stringere la destra (cfr. v. 307) e la cui violazione è punita dagli dèi. Didone si riferisce soprattutto alla fides data da Enea. Probabile che Virgilio avesse in mente Euripide, Med. 412 s. "Gli uomini vogliono solo frodi, la fede giurata per gli dèi non si regge più"; ancora più probabile l'eco di Catullo 64, 143 s. Nunc iam nulla viro iuranti femina credat,/nulla viri speret sermones esse fideles (ancora una volta si può misurare la differenza di tono: Catullo è più elegiaco, più effusivo, Virgilio più tragico nella sua concisione)"[4].
Quindi la regina, infiammata (accensa , 364) investe Enea accusandolo di crudeltà disumana. Esprime sfiducia perfino in Giove e Giunone che non tutelano la fides :"Nusquam tuta fides " (v. 373), la quale in nessun luogo è sicura. La donna sente che il fuoco d'amore è diventato un incendio di odio:" Heu furiis incensa feror (v. 376), ahi sono trascinata in fiamme dalle furie! Poi congeda l'amante che la sta abbandonando maledicendolo:" i, sequere Italiam ventis, pete regna per undas;/spero equidem mediis, si quid pia numina possunt,/supplicia hausurum scopulis et nomine Dido/saepe vocaturum. Sequar atris ignibus absens/et, cum frigida mors anima seduxerit artus, omnibus umbra locis adero. Dabis, improbe, poenas; audiam et haec manis veniet mihi fama sub imos " (vv. 381- 386), va', insegui l'Italia coi venti, cerca un regno attraverso le onde. Spero però che in mezzo agli scogli, se i pii numi hanno qualche potere, berrai la pena e invocherai spesso Didone per nome. Ti inseguirò con fiaccole funebri anche da lontano e quando la gelida morte avrà separato le mie membra dall'anima, sarò presente in tutti i luoghi come ombra. pagherai il fio malvagio! starò in ascolto e questa fama mi raggiungerà sotto gli abissi.
Si noti che ventis e undas significano l'instabilità pericolosa della ricerca che corrisponde all'inaffidabilità dell'anima di Enea: fissi sono invece gli scogli che colpiranno il traditore facendogli bere quell'acqua dove erano stati scritti i suoi giuramenti spergiuri. Didone favorirà quella morte e la fama che l'ha infamata da viva la compenserà portandogliene la sospirata notizia.
Anima è il soffio vitale: deriva dall'indoeuropeo *anem- che ha dato come esito in greco ajnem- da cui a[nemo", vento e in latino anim- da cui, oltre anima, animus, animo, coraggio, animal, animosus.
"Nella nuova battuta di Didone (365-387) l'ira proprompe con violenza, variata non più dalla preghiera, ma solo dal sarcasmo: è qui che Didone può ricordare meglio il volto selvaggio della Medea di Euripide, che pure sa unire allo sfogo di una passione furente le sottigliezze di una logica ironica e sarcastica: come Medea, Didone si sente vittima dell'ingiustizia e senza protezione divina contro l'ingiustizia. Dalla battuta, emerge chiaramente che il furor d'amore è divenuto furor di odio senza confini e che il mondo dei valori di Enea resta del tutto estraneo all'animo di Didone"[5].
Ma l’ eroe davvero “pio” deve eseguire comunque gli ordini degli dèi e non può permettersi l'amore:"At pius Aeneas, quamquam lenire dolentem/solando cupit et dictis avertere curas,/multa gemens magnoque animo labefacto amore,/iussa tamen divom exsequitur classemque revisit " (vv. 393-396), ma il pio Enea, sebbene desideri mitigare la dolente consolandola e rimuovere gli affanni con le parole, gemendo molto e scosso nell'animo da grande amore, esegue nondimeno gli ordini degli dèi e torna a vedere la flotta.
Pius Aeneas è una formula che torna una ventina di volte nel poema. Qui l'epiteto pius "riappare dopo un lungo intervallo (l'ultima volta in I 378). Poiché gli epiteti virgiliani sono spesso coerenti con la situazione, anche qui il legame va cercato. Pius esprime il rispetto e l'amore dei valori morali e religiosi, soprattutto devozione alla famiglia, alla stirpe, alla patria, agli dèi…Qui l'aggettivo può essere sentito in legame col dolore che egli prova per Didone; ma più probabilmente prevale (forse senza escludere l'altro) il legame col rispetto degli ordini divini"[6].
Secondo Conte, Enea deve giungere alla "spoliazione di sè" per realizzare il suo scopo:"La pietas di Enea potrebbe essere vista, se mi si concede, in termini di ossimoro, come insensibile sensibilità, ossia una partecipazione al dolore di personaggi perduti o vinti durante il cammino, ma al tempo stesso un vietarsi ad essa in nome del valore della meta da raggiungere"[7]. Personalmente, almeno in questo caso, assimilo la pietas di Enea all'ipocrisia del furfante bigotto. La assimilo pure al culto della peiqarciva (disciplina) di Creonte che, per reprimere la disobbedienza della nipote, la manda a morte, e Antigone morendo rivendica la pietà come virtù propria:":"O rocca della terra di Tebe e dei miei padri/e dèi progenitori/io vengo portata via e non indugio più./Guardate, maggiorenti di Tebe,/l'unica superstite della stirpe regale,/quali sofferenze inumane da quali uomini subisco/poiché onorai la pietà" ( Antigone, vv.937-943).
Capisco e apprezzo di più la motivazione dell'abbandono di Calipso da parte di Odisseo:" ejpei; oujkevti h{ndanh nuvmfh " (Odissea , V, 153), poiché la ninfa non gli piaceva più. Questo è il vero motivo per cui un amante o un’amante lascia l’altro: costui o costei non gli o non le piace più. Il resto è menzogna. Peggiore del silenzio.
Pesaro 23 agosto 2023 ore 11, 15 giovanni ghiselli
p. s.
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