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martedì 22 agosto 2023

Percorso amoroso VIII stazione. Nona parte. Enea e Didone: l’amore della donna contraccambiato dall’ingratitudine dell’uomo


 Enea e Didone: l’amore della donna contraccambiato dall’ingratitudine dell’uomo

 

 

Il desiderio amoroso dei due viene realizzato durante la tempesta e a questo punto il  male della regina diviene irreversibile e letale:"Ille dies primus leti primusque malorum/ causa fuit  "(v. 169-170), quel giorno fu il primo della morte e il primo dei mali, e ne fu la causa; anche perché Didone non si preoccupa della fama , ossia dell'infamia che gliene deriverà, in quanto pensa a un amore coniugale, senza contare che quel sant'uomo di Enea non aveva tempo per stare a lungo con lei.

 

Didone e Medea  di Apollonio Rodio

Il desiderio non trova un limite nella vergogna che viene momentaneamente repressa ma non superata da Didone: il conflitto tra queste due forze contrastanti è  drammaticamente sentito dalla Medea vergine di Apollonio Rodio che il pudore (aijdwv") tratteneva , mentre un desiderio possente (qrasu;" i{mero" ) la spingeva (Argonautiche , III, 653). "Apollonio non è interessato agli sviluppi pragmatici della storia, e privilegia invece la dinamica psichica"[1].

La Medea di Apollonio ondeggia a lungo in preda alle contraddizioni: prima impreca contro Giasone (III, 466), poi contro il pudore e la fama (" ejrrevtw aijdwv" , ejrrevtw ajglai?h ", III, 785-786). Poi però pensa di nuovo a cosa dirà la gente, a quale sarà la sua onta (ai\sco", v. 797), quale la sua disgrazia (a[th, v. 798). Sballottata tra il desiderio e il terrore, la fanciulla arriva ad augurarsi di morire. "I tre monologhi raffigurano, con una rete di rispondenze interne, i momenti cruciali di questo iter psichico, e si basano su un'intensa dialettica tra forze della repressione e forze del represso; non si tratta però, semplicisticamente, di una dialettica fra mondo esterno e mondo interno, ma di uno scontro tutto interiore. E' questa forse la maggiore novità della psicologia apolloniana, rappresentare cioè la repressione come componente imprescindibile del campo psichico, una componente interiorizzata che dà all'eros una potenza ancora maggiore. Se il primo monologo contiene all'inizio un "vada alla malora" (ejrrevtw: v. 466) riferito a Giasone, il terzo usa la stessa espressione rivolta invece al pudore e alla fama (III 785-786): si tratta in entrambi i casi di negazioni freudiane, che affermano con violenza espressiva la violenza delle due forze che angosciano Medea, il desiderio e il pudore, cioè l'amore per Giasone e la fedeltà al padre"[2].   

Questo  turbamento è naturale in una ragazza senza esperienza.

 Assai meno naturali sono turbe del genere in una donna matura e vedova.

 Se poi la Fama è un monstrum horrendum  pieno zeppo di occhi, piume, lingue, bocche, orecchie (Eneide, IV, vv. 181-183), se è una dea foeda (v. 195), una divinità oscena, non è retta, nobile e meritevole di un premio Didone che non se ne cura facendo l’amore con Enea?

Invece la regina di Cartagine verrà malfamata e si punirà da sola.

 

"Se gli dèi olimpici non sono certo accusati e condannati si manifesta nel libro IV...un'altra presenza divina, che è, invece, tanto ripugnante quanto terribile, la presenza di un mondo demoniaco inferiore che, anche se talora asservito a quello celeste, ne è diverso per natura: da questo mondo proviene la Fama, divinità maligna e sinistra (173-195), il cui fascino demoniaco si avverte, anche se l'abilità letteraria di Virgilio l'abbia un pò sciupato"[3].

 

La lussuria della regina scatena l'ira di Iarba, pretendente respinto, e la complicità di Enea provoca la collera di Giove che considera legittimo e santo l'ardore sacro della gloria ("si nulla accendit tantarum gloria rerum ", v. 232); mentre impuro e deleterio (ancora una volta!) è quello dell'amore. Il figlio di Venere  dunque "naviget " (v. 237), navighi, non ami!, sentenzia Giove.

 Quindi il re degli dèi manda Mercurio per rinfocolare i sensi di colpa. Appena vede Enea il messaggero infatti lo assale ("Continuo invadit ", v. 265) rimproverandolo per il suo crimine.

L'eroe troiano davanti a tanto rimprovero nemmeno cerca di difendere l'amore:"obmutuit amens/arrectaeque horrore comae et vox faucibus haesit  "(vv. 280-281), restò muto, fuori di sé, gli si drizzarono i capelli per il terrore e la voce si arrestò nella gola.

Il v. 280 è formulare nell'epica virgiliana: riecheggia Eneide II 744:"Obstpui steteruntque comae et vox faucibus haesit ", mi paralizzai, si rizzarono i capelli e la voce rimase attaccata alla gola. E' la reazione di Enea davanti all'umbra , più grande del naturale, di Creusa perdutasi durante la notte della presa di Troia.

Questo verso torna identico a III 48 quando Enea si terrorizza sentendo il lamento di Polidoro venire da una bacchetta[4] .

La formula del IV canto torna di nuovo in XII v. 868 e questa volta riguarda Turno paralizzato dal presagio della propria morte.

 

 Enea deve compiere altre imprese grandi e meravigliose, sicché non rimane agghiacciato a lungo : infatti lo scalda un ardore legittimo e davvero degno di un eroe:"Ardet abire fuga " (Eneide, IV, v. 281), arde di andarsene in fuga, e dà ordini per prepararla furtivamente, riservandosi di parlarne a Didone nei momenti più dolci.

La regina però lo capisce da sola ("quis fallere possit amantem?  ", v. 296, chi potrebbe ingannare un'amante? ), lei che temeva tutto anche se era tranquillo:"omnia tuta timens" (v. 298). L'ossimoro che accosta parole di significato contrastante evidenzia quanto di contraddittorio c'è nell'anima di questa donna innamorata e ansiosa. L'allitterazione evoca un battere di colpi e contraccolpi. E danno su danno si posa.

 

 Per giunta la Fama,  impia , porta la brutta notizia alla donna già sconvolta (furenti , v. 298). Allora scoppia di nuovo l'incendio della pazzia e dell'amore:"Saevit inops animi totamque incensa per urbem/ bacchatur ", vv. 300-301, ella infuria, priva di senno, e infiammata baccheggia per tutta la città.

Quindi la disgraziata affronta Enea al grido di "perfide " (305), che echeggia il lamento dell'Arianna abbandonata di Catullo[5].

Prima Didone aggredisce l’amante rinfacciandogli la malafede, poi lo supplica, evocando la propria morte, invocandone il senso dell'onore, la gratitudine dovuta, e cercando di  impietosirlo:" Dissimulare etiam sperasti, perfide, tantum/posse nefas tacitusque mea decedere terra?/nec te noster amor nec te data dextera quondam/nec moritura tenet crudeli funere Dido? " (vv. 305-308), hai sperato, perfido persino di dissimulare un così grande misfatto, e di poter andartene dalla mia terra senza dir niente? non ti trattiene il nostro amore né la destra data una volta né Didone pronta a morire di morte crudele?

A proposito della  data dextera si ricorderanno della Medea di Euripide  versi 21-22:"ajnakalei' de; dexia'"-pivstin megivsthn, reclama il sommo impegno della mano destra.

 

Vediamo altri tre versi con le suppliche della regina nel IV canto dell’Eneide:" per conubia nostra, per inceptos hymenaeos,/si bene quid de te merui, fuit aut tibi quicquam/dulce meum, miserere domus labentis et istam,/oro, si quis adhuc precibus locus, exue mentem " (vv. 316-319), per la nostra unione, per le nozze iniziate, se ho ben meritato di te, o se per te c'è stato qualcosa di dolce in me, abbi pietà di una casa che vacilla e deponi questo proposito, ti prego, se ancora c'è qualche posto per le preghiere. Anche questi contengono e suscitano echi . Il primo "è un'"allusione" a Catullo 64, 141 sed conubia nostra, sed optatos hymenaeos : ciò spiega le "preziosità" metriche di gusto neoterico: coincidenza della fine del secondo piede con fine di parola, cesura trocaica, lunga parola greca alla fine del verso; ma, pur con tutte le preziosità metriche, il pathos di Virgilio è più grave, più "tragico"[6].

Il primo emistichio del v. IV 317 -si bene quid de te merui--al lettore di Dante ricorda la captatio benevolentiae di Virgilio a Ulisse e Diomede:"s'io meritai di voi mentre ch'io vissi,/s'io meritai di voi assai o poco"[7]. Infine  il dulce (IV, 318) rammentato da Didone a Enea  ricorda quello che Tecmessa cerca di richiamare alla mente di Aiace quando, nella tragedia di Sofocle, tenta di dissuaderlo dal suicidio:"  ajndriv toi crew;n--mnhvnhn prosei'nai, terpno;n ei[ tiv pou pavqh/: cavri" cavrin gavr ejstin hJ tivktous j ajei—o{tou d& ajporrei' mnh'sti" eu\ peponqovto",-oujk a]n

levgoit j e[q j ou|to" eujgenh;" ajnhvr" (Aiace , vv. 520-524), per l'uomo certo è doveroso che rimanga un ricordo congiunto a qualche gioia se in qualche modo l'ha provata: infatti grazia genera grazia, sempre. Chiunque perda il ricordo di avere ricevuto del bene, non può più essere chiamato nobile.

 

 

Virgilio non utilizza la sentenza finale per non togliere nobiltà al suo eroe, ma chi crede nel valore della gratitudine sente che nel comportamento di Enea nei confronti di Didone c'è qualcosa di vile e volgare.

 

Condanne dell’ingratitudine

Infatti l'ingratitudine è un vizio capitale secondo diversi autori e la gratitudine, viceversa, un grande valore.

Esiodo mette la gratitudine (cavri" , Opere , v. 190) con il pudore (aijdwv", v. 192) tra i valori negati dall'estrema decadenza dell' età del ferro : allora gli uomini nasceranno con le tempie bianche (poliokrovtafoi, v. 181) oltraggeranno i genitori che invecchiano, useranno il diritto del più forte, la giustizia starà nelle mani (divkh d& ejn cersiv , v. 192), se ne andranno Aijdwv" appunto e Nevmesi" , la giusta distribuzione; quindi "kakou' d& oujk e[ssetai ajlkhv" (Opere , 201)  non vi sarà più scampo dal male.   

 

 Nella Ciropedia  di Senofonte leggiamo che un motivo serio di punizione e disonore tra i Persiani  è l'ajcaristiva :"kai; oJ;n aj;n gnw'si dunavmenon me;n cavrin ajpodidovnai, mh; ajpodidovnta dev, kolavzousi kai; tou'ton ijscurw'". Oi[ontai ga;r tou;" ajcarivstou" kai; peri; qeou;" aj;n mavlista ajmelw'" e[cein kai; peri; goneva" kai; patrivda kai; fivlou""(I, 2, 7), e quello di cui sanno che potendo contraccambiare un favore, non lo contraccambia, lo puniscono severamente. Credono infatti che gli ingrati trascurino completamente gli dei, i genitori, la patria e gli amici.

 "Come cosa caratteristica dei Persiani-osserva Jaeger-  Senofonte rileva che l'ingratitudine è severamente punita in questo tribunale, in quanto essa appare come origine dell'impudenza e pertanto di ogni malvagità"[8].  L'ingratitudine invero è biasimata come vizio capitale già da Penelope saggia ( "perivfrwn") quando  rimprovera gli Itacesi dicendo all'araldo:"ajll j oJ me;n uJmevtero" qumo;" kai; ajeikeva e[rga--faivnetai, oudev tiv" ejsti cavri" metovpisq j eujergevwn"( Odissea , IV, 694-695), il vostro animo appare evidente e indegne le vostre azioni, e non c'è più gratitudine alcuna dei benefici.

 

Nei Memorabili , Socrate fa notare al figlio Lamprocle che particolarmente grave è considerata ad Atene l'ingratitudine verso i genitori, e per questa mancanza di riconoscenza sono previste delle pene, mentre negli altri casi, la città si limita a disprezzare coloro i quali ricevendo del bene non mostrano gratitudine:"periora'/ tou;" eu\ peponqovta" cavrin oujk ajpodovnta""(II, 2, 13).

Anche Cicerone pone la gratitudine in prima fila tra i doveri:"nullum enim officium referenda gratia magis necessarium est " (De Officiis , I, 47), nessun dovere in effetti è più necessario della gratitudine.

L'ingratitudine è il marchio della persona volgare: Nietzsche nel 1864 (a vent'anni) scrisse una Dissertazione  su Teognide di Megara  simpatizzando con le teorie del lirico antico. Lo colpì fortemente il biasimo espresso  per l'ingratitudine dell'animo plebeo:"Teognide ritiene che non c'è niente di più vano e di più inutile che fare bene ad un plebeo, dal momento che di solito non ringrazia mai[9]. Quindi cita alcuni versi della Silloge  (105-112) che riporto in traduzione mia :

"E' un favore del tutto vano fare del bene ai vili:/è come seminare la superficie del mare canuto./Infatti seminando il mare, non mieti folta messe,/né facendo del bene ai malvagi puoi riceverne bene in cambio:/ché i malvagi hanno mente insaziabile: se tu sbagli,/l'affetto per tutti i favori di prima si versa per terra./I buoni invece gustano al massimo quanto ricevono ("oiJ d jajgaqoi; to; mevgiston ejpaurivskousi paqovnte"", v. 111),/e serbano memoria dei beni e gratitudine in seguito".

Contro l'ingratitudine tuona Re Lear, the lunatic King: o ingratitudine, demonio dal cuore di marmo, più orrenda del mostro marino quando ti manifesti in una figliola! (I, 4).

 

Ancora qualche parola sulla cavri"  che significa non solo gratitudine ma anche altre cose nobili e belle : nell'Olimpica I  di Pindaro è "il fascino che foggia tutte le dolcezze per i mortali e, portando onore, procura pure che spesso l'incredibile divenga credibile (vv. 30-32).

 Plutarco nel dialogo Amatorius ,  dà questa definizione di cavri", autorizzata da alcuni più antichi scrittori:"cavri" ga;r ou\n w\ Prwtovgene", hJ tou' qhvleo" uJvpeixi" tw'/ a[rreni kevklhtai pro;" tw'n palaiw'n "[10], la compiacenza infatti o Protogene è chiamata dagli antichi la  condiscendenza della femmina al maschio.  

 

Torniamo alla storia di Enea e Didone.

Tra i nostri amanti non può esserci più nulla di buono poiché compiacenza e condiscendenza devono essere reciproche mentre Enea non vuole saperne di Didone, nemmeno quando questa arriva a dire " Saltem si qua mihi de te suscepta fuisset/ante fugam suboles, si quis mihi parvulus aula/luderet Aeneas, qui te tamen ore referret,/non equidem omnino capta et deserta viderer "(vv. 328-330),  se almeno fosse stato da me concepito un figlio tuo prima della tua fuga e nella mia reggia giocasse un piccolo Enea che per lo meno ti riproducesse nel viso, certo non mi sentirei del tutto ingannata e abbandonata.

Sull'aggettivo parvulus sentiamo un'altra riflessione di La Penna-Grassi:"Lo stile epico rifiuta i diminutivi, propri del sermo familiaris , comuni nelle nugae  catulliane, ma già meno frequenti nell'elegia. Nell'Eneide  sono stati contati sette diminutivi, ma probabilmente questo è l'unico vero diminutivo affettivo: con molta finezzaVirgilio ha sentito che l'umanità dolente della sua eroina non poteva essere sempre "controllata" con la misura della sublimità epica. La concessione ha, tuttavia, i suoi limiti: Virgilio ha probabilmente nella memoria un passo di un epitalamio di Catullo (61, 216 ss.), dove il poeta augura che presto un Torquatus...parvulus  dal grembo della madre tenda le mani al padre e gli sorrida; ma proprio il confronto con Catullo mostra che la tenerezza materna di Didone manca di ogni leziosità"[11].-deserta:"è ancora voce che appartiene al linguaggio erotico-elegiaco: così Catullo c. 64, v. 57, descriveva Arianna abbandonata da Teseo (desertam in sola miseram…harena, "abbandonata, misera, su una spiaggia deserta"[12].

Ma l'eroe è chiamato altrove dal destino e non vuole sentire altra fiamma che quella del fatum . Enea "rappresenta, come ognuno dei personaggi dell'Eneide , un punto di vista soggettivo che lo individua; ma rappresenta insieme la volontà del Fato di cui è portatore...Nella sua funzione di oggettività egli è dalla parte del Fato-e del poeta che del Fato narra la realizzazione"[13].  

Prima della volontà del fato io ci trovo quella di Augusto assecondata dal poeta di corte.

 

Pesaro 22 agosto 2023 ore 15, 47 giovanni ghiselli

p. s

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[1] M. Fusillo, Lo spazio letterario della Grecia antica , I, 2, p. 124.

[2] M. Fusillo, Lo spazio letterario della Grecia antica , I, 2, p. 122.

[3]A. La Penna-C. Grassi, op. cit., p. 361.

[4] E' l'episodio imitato da Dante nella selva dei suicidi (Inferno, XIII; qui il terrore è limitato a "ond'io lascia la cima cadere/e stetti come l'uom che teme", vv. 44-45.

[5]64, 133.

[6]A. La Penna-C. Grassi, op. cit., p. 425.

[7]Inferno , XXVI, 80-81.

[8]Jaeger, op. cit., p. 285.

[9]p. 167.

[10]Plutarco, Sull'amore  (47, 751D)

[11] Op. cit., p. 428.

[12] G. B. Conte, Scriptorium Classicum, 3, p. 271.

[13]G. B. Conte, Virgilio, Il genere e i suoi confini , p. 89.

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