Anche Orazio e Ovidio danno consigli su tattiche e strategia del corteggiamento
Dicevamo che pure Orazio e Ovidio si sono espressi su questo argomento il quale effettivamente può trovare interesse in tutti gli uomini di tutti i tempi.
Il Venosino nella Satira I 3 afferma che le brutture e i difetti dell'amante ingannano l'innamorato cieco e addirittura proprio quelle imperfezioni gli piacciono (vv. 38-40). Si deve porre mente a questo per imparare un poco di indulgenza verso le manchevolezze del prossimo . Il locus è utilizzato come exemplum di tolleranza. La conclusione della satira è che se compatiremo, verremo compatiti. Si vede come un argomento può essere impiegato per dare insegnamenti opposti.
Lo stesso poeta può usare il medesimo tovpo" in libri diversi per sostenere una tesi e quella contraria.
Così fa Ovidio che nei Remedia amoris apre gli occhi sui difetti delle donne suggerendo perfino di accentuarli con il pensiero, mentre nell'Ars amatoria consiglia di guardarsi bene dal rinfacciare alle ragazze le loro imperfezioni (parcite praecipue vitia exprobrare puellis , II, 640): a molti fu utile avere fatto finta di non vedere. Questo vale per non disgustare le donne le quali anzi vanno adulate.
Del resto chiunque richieda qualche cosa deve essere un adulatore, si dice il cuoco Sicone nel Duvskolo" di Menandro , preparandosi a chiedere un lebete al vecchio scorbutico " dei' ga;r ei\nai kolakiko;n-to;n deovmenon tou" (vv. 492-493).
Con l'adulazione si può sedurre persino una vestale.
L'adulazione funziona sempre quando si vuole compiacere una donna. Sentiamo Svidrigàilov il " vecchio libertino incancrenito" di Delitto e castigo che ha "una specie di scintilla sempre accesa nel sangue" :"... finalmente feci ricorso al mezzo supremo e infallibile per soggiogare il cuore femminile, il mezzo che non fallisce mai e che agisce decisamente su tutte le donne, senza eccezione. Niente al mondo è più difficile della sincerità e più facile dell'adulazione...per quanto infantilmente grossolana possa essere l'adulazione, almeno per metà essa sembra senz'altro vera. E questo vale per gente di ogni livello e di ogni ceto sociale. Con l'adulazione si può sedurre perfino una vestale"[1].
Non è difficile essere creduti quando si adula, suggerisce Ovidio nel primo libro dell'Ars amatoria :"Nec credi labor est: sibi quaeque videtur amanda/pessima sit, nulli non sua forma placet " (vv. 611-612) e non è difficile essere creduto: a ognuna sembra di essere degna di amore, sia pure pessima, a nessuna dispiace il suo aspetto.
Sentiamo ancora il seduttore di Madame Bovary:"Finalmente lo hai davanti, il tesoro tanto cercato: risplende, scintilla. Eppure dubiti ancora, non osi crederci: ne resti abbagliato come all'uscita dalle tenebre alla luce" (p. 118).
Restiamo ancora un poco sull'argomento trattato da Ovidio prima di tornare a Lucrezio.
Il poeta nel II libro dell'Ars amatoria afferma che chiudere un occhio sui difetti dell'amante è utile non solo alla conquista ma anche al mantenimento del rapporto il quale riceve lunga vita dalla transigenza fondata a sua volta sull'abitudine:"Quod male fers, adsuesce: feres bene: multa vetustas/leniet; incipiens omnia sentit amor " (vv.647-648), a quello che sopporti male, abituati: sopporterai bene: la lunga durata allevierà molte cose difficili; l'amore all'inizio fa caso a tutto.
Lo stesso passare del tempo toglie tutte le pecche del corpo, e quello che era un difetto smette di esserlo con la dilazione. Sapere aspettare serve, ma anche l'uso intelligente delle parole è funzionale a questo scopo.
Ovidio dunque nell' Ars amatoria presenta come astuzia da usare quello che Lucrezio considera un errore da evitare :"Nominibus mollire licet mala:"Fusca" vocetur,/nigrior Illyrica cui pice sanguis erit;/si paeta est, "Veneri similis"; si rava, "Minervae";/sit "gracilis", macie quae male viva sua est;/dic "habilem", quaecumque brevis, quae turgida, "plenam";/et lateat vitium proximitate boni " (, II, vv. 657-662), i difetti si possono attenuare con le parole: "scura" si chiami quella che avrà vene più nere della pece illirica; se è un pò strabica, "simile a Venere"; se è glauca, "a Minerva"; sia "gracile" quella che, del tutto esaurita, è viva per poco, chiama "maneggevole" chiunque sia corta; quella gonfia, "piena", e rimanga latente il difetto sotto il pregio più vicino.
Le parole insomma servono ad avvicinare e conservare la donna.
Viceversa nei Remedia Amoris il poeta Peligno consiglia di accentuare mentalmente i difetti dell'amante per tenerla lontana. Non è difficile compiere l'una o l'altra operazione siccome è sottile il confine tra vizio e virtù.
"Profuit adsidue vitiis insistere amicae/idque mihi factum saepe salubre fuit./"Quam mala" dicebam "nostrae sunt crura puellae" (nec tamen, ut vere confiteamur, erant); "bracchia quam non sunt nostrae formosa puellae" (et tamen, ut vere confiteamur erant)/"quam brevis est" (nec erat), "quam multum poscit amantem";/haec odio venit maxima causa meo./ Et mala sunt vicina bonis: errore sub illo/pro vitio virtus crimina saepe tulit./ Qua potes, in peius dotes deflecte puellae/iudiciumque brevi limite falle tuum./"Turgida", si plena est, si fusca est, "nigra" vocetur;/in gracili "macie" crimen habere potest./Et poterit dici "petulans" quae rustica non est;/et poterit dici "rustica", si qua proba est " (vv. 315-330), mi ha fatto bene pensare senza tregua ai difetti dell'amante e questa pratica ripetuta mi è stata salutare. "Quanto sono fatte male-dicevo-le gambe della mia donna" (né tuttavia, a dire il vero, lo erano); "quanto non sono belle le braccia della mia donna" (e tuttavia, a dire il vero, lo erano) " quanto è corta" (e non lo era), quanto esige dall'amante", questo divenne il motivo più grande per la mia avversione. Poi i mali stanno vicino ai beni: sottomessa a quell'errore spesso la virtù si è presa le colpe del vizio. Per quanto puoi, volgi in peggio le doti della tua donna e, dato il breve confine, inganna il tuo giudizio. "Gonfia" devi chiamarla se è piena, se è scura "negra"; in quella magra la secchezza può essere incriminata. E potrà chiamarsi "sfrontata" quella che non è campagnola e si potrà chiamare "campagnola" se una è virtuosa.-quam multum poscit (v. 321): ecco il difetto più odioso per l'amante poiché l'utile è valutato più del bello e del buono. Una riflessione che si trova anche in Machiavelli il quale consiglia al suo principe di evitare quello che anche secondo lui è il difetto più odioso:"ma, sopra a tutto, astenersi dalla roba d'altri; perché li uomini sdimenticano più presto la morte del padre che la perdita del patrimonio"[2]. Citeremo ancora l'autore de Il Principe poiché Ovidio è il maestro, se vogliamo il cattivo maestro, dello sganciamento di un'attività dalla morale. - et mala sunt vicina bonis (v. 323): basta spostare un poco il punto di vista, come quando si è in movimento, anche soltanto con la bicicletta, e si osserva un paesaggio montuoso, perché le forme cambino e si trasfigurino. Questo avviene non solo nel campo della percezione fisica o estetica ma anche in quello della interpretazione morale:" Unnatural vices/are fathered by our heroism. Virtues/ are forced upon us by our impudents crimes "[3], afferma il classicista T. S. Eliot, vizi innaturali hanno come padre il nostro eroismo. Virtù ci sono imposte dai nostri impudenti delitti. Già Machiavelli aveva indicato questa confusione di virtù magari deleterie e vizi che possono creare il bene:"se si considerrà bene tutto, si troverà qualche cosa che parrà virtù, e, seguendola sarebbe la ruina sua, e qualcuna altra che parrà vizio, e seguendola, ne riesce la securtà e il bene essere suo" [4]. -
in peius (v. 325) : il pessimismo è quasi sempre legato a frustrazioni vitali, soprattutto amorose e di salute.
Un'eco di questa svalutazione e svilimento del corpo femminile, necessario a chi voglia liberarsi dall'irrazionale soggezione alla libidine erotica, si trova nel Secretum del Petrarca quando Agostino che vuole liberare l'animo di Francesco dai due errori più pericolosi, l'amore per la gloria e l'amore per Laura, mette in guardia il poeta dai pericoli connessi alla bellezza delle donne, effimera e ingannevole se non addirittura inesistente:"Pauci enim sunt qui, ex quo semel virus illud illecebrose voluptatis imbiberint, feminei corporis feditatem de qua loquor, sat viriliter, ne dicam satis constanter, examinent " (III, 68), sono pochi quelli che, da quando una volta sola abbiano assorbito quel noto veleno del piacere seducente, possono considerare abbastanza energicamente, per non dire con sufficiente costanza, la laidezza del corpo femminile.-rustica (vv. 329 e 330) : si ricordino le riflessioni che abbiamo fatto sulla rusticitas che può essere cosa buona o cattiva secondo come la si prende.
A volte, controbatto, la seduzione della bellezza femminile o maschile, insomma l'inganno di Cipride, porta aiuto a chi subisce o lo infligge: così è nel poema di Apollonio Rodio dove Fineo consiglia agli Argonauti: cercate l'aiuto della dea Cipride che inganna: in lei infatti sta il compimento glorioso delle vostre fatiche (Argonautiche, II, 423-424). Ma già Saffo chiede aiuto ad Afrodite invocandola come dolovploke, tessitrice di inganni (I D, v. 2).
Continuiamo ancora un poco con Ovidio il quale consiglia pure di mettere in imbarazzo l'amata spingendola in situazioni dove non si trovi a suo agio:"Quin etiam, quacumque caret tua femina dote,/hanc moveat, blandis usque precare sonis:/ exige uti cantet, si qua est sine voce puella; /fac saltet, nescit si qua movere manum;/barbara sermone est, fac tecum multa loquatur;/non didicit chordas tangere, posce lyram;/durius incedit, fac inambulet; omne papillae/pectus habent, vitium fascia nulla tegat;/si male dentata est, narra, quod rideat, illi;/mollibus est oculis, quod fleat illa refer " (Remedia Amoris , 331-340), anzi, di qualsiasi qualità sia priva la tua donna, pregala continuamente con toni di lusinga che eserciti questa: pretendi che canti, se è una ragazza senza voce; falla danzare, se è una che non sa muovere una mano; se è rozza nel modo di esprimersi, falla parlare molto con te; non ha imparato a toccare le corde, chiedile di suonare la lira; cammina goffamente, falla passeggiare; i capezzoli occupano tutto il petto, nessun reggiseno copra il difetto; se ha una dentatura brutta, raccontale qualcosa di cui rida; se è di occhi piagnucolosi, dille qualcosa di cui pianga.-precare (v. 332): imperativo di precor. Viene consigliata una diabolica, sistematica distruzione della creatura oggetto di amore-odio, conseguenza dell'amare senza bene velle e della cattiva competizione tra i sessi. Secondo Pavese questa strategia è concepita e messa in atto sistematicamente dal "popolo nemico" delle donne per annientare gli uomini:"Una donna che non sia una stupida, presto o tardi, incontra un rottame umano e si prova a salvarlo. Qualche volta ci riesce. Ma una donna che non sia una stupida, presto o tardi trova un uomo sano e lo riduce a rottame. Ci riesce sempre"[5]. Non sempre controbatto: con me ci hanno provato in molte senza riuscici. Hanno invece avuto successo quelle che si sono adoperate per aiutarmi. Parenti, amiche e amanti.
Torniamo a Lucrezio che, consapevole di non poter esaurire l'argomento, ne prende un altro, sempre però con lo scopo di fornire all'innamorato acciecato i mezzi per recuperare la vista mentale e liberarsi dalla schiavitù.
"Cetera de genere hoc longum est si dicere coner./Sed tamen esto iam quantovis oris honore,/cui Veneris membris vis omnibus exoriatur:/nempe aliae quoque sunt; nempe hac sine viximus ante;/nempe eadem facit, et scimus facere, omnia turpi,/ et miseram taetris se suffit odoribus ipsa/quam famulae longe fugitant furtimque cachinnant " (IV, 1170-1176), sarebbe troppo lungo se cercassi di dire gli altri travisamenti del genere. Ma tuttavia sia pure di bellezza quanto vuoi sublime nel volto, una alla quale da tutte le membra venga fuori la potenza di Venere: certo ce ne sono anche altre; certo abbiamo vissuto senza questa in precedenza; certo fa tutte le medesime cose, e sappiamo che le fa, di una brutta, e si affumica la disgraziata, con ributtanti suffumigi, proprio lei, da cui le serve scappano lontano e sghignazzano di nascosto.-oris : la bellezza (honor ) del volto è quella che si nota per prima, soprattutto da quando si è adulti.-aliae quoque sunt : non è un buon argomento per l'uomo che ha concentrato tutti i suoi desideri e le sue speranze in quella forma e tutte le altre non hanno significato per lui.
Catullo nel carme 86 già menzionato nega che Quinzia sia "formosa " nonostante abbia un fisico a posto. L'unica bella per lui è Lesbia:"Lesbia formosa est, quae cum pulcerrima tota est,/tum omnibus una omnis subripuit veneres " (vv. 5-6), Lesbia sì che è bella, lei che è splendidissima integralmente, e da sola ha sottratto a tutte tutte le grazie.-
B. Shaw denuncia l’illusione dell’uomo giovane che esagera la differenza tra una giovane donna e le altre: “Like all young men, you greatly exaggerate the difference between one young woman and another”[6]. Magari esageriamo le differenze che comunque ci sono: la migliore tra le amanti della nostra vita è la più bella, fine, educata, sincera, generosa di tutte.
hac sine : anastrofe.-turpi : dativo di comunanza retto da eadem. E' una costruzione frequente nella lingua greca dove il dativo sociativo è retto da oJJ aujtov", idem appunto.- famulae...fugitant furtimque : triplice allitterazione. Nessuna donna, per quanto sia bella, è di uno splendore integrale per le sue cameriere che ne conoscono gli arcana venustatis , i segreti della bellezza si potrebbe dire utilizzando l'espressione tacitiana imperii arcanum (Historiae I, 4), il segreto del potere.-cachinnant : la bellezza, che toglie il fiato e il sonno all'innamorato, fa sghignazzare le serve che conoscono gli arcana dominae.
"At lacrimans exclusus amator limina saepe/floribus et sertis operit postisque superbos/unguit amaracino et foribus miser oscula figit " ( De rerum natura, IV, vv. 1177-1179), ma l'innamorato, versando lacrime per essere stato messo alla porta, spesso copre di fiori e di ghirlande la soglia e unge gli stipiti superbi di maggiorana e, disgraziato, imprime baci sui battenti.-lacrimans exclusus : questo è un paraklausivquron.
il lamento davanti alla porta chiusa.
I più antichi, che io sappia, si trovano nell'Antologia Palatina . Tra i più noti quello di Callimaco a Conòpio (Zanzaretta) alla quale il poeta, costretto a passare la notte sotto un freddo portico, augura la medesima sofferenza e ricorda che i colori della giovinezza durano poco:"hJ polih; de;-aujtivk j ajnamnhvsei tau'tav se pavnta kovmh " (A. P. V, 23, vv. 5-6), la chioma canuta fra poco ti farà ricordare tutto questo. Tale tovpo" ha una larga presenza nella letteratura latina: dalla commedia all'elegia.
Si ricorderà come Properzio nell'ultima elegia del terzo libro ricordi a Cinzia i prossimi capelli bianchi con le rughe, quindi le auguri di soffrire le medesime pene che gli sta infliggendo con il lasciarlo fuori dalla porta (exclusa inque vicem fastus patiare superbos, tenuta fuori a tua volta, possa soffrire la superba alterigia, III, 25, 15) poiché la bellezza è, si potrebbe dire, un'arma che dopo una certa età si rivolge contro chi la impugna. E' l'eterna consolazione del maschio: l'età si abbatte sulla donna come una mannaia. E sull'uomo no?
Rimaniamo ancora sul paraklausivquron. Nel Processo di Kafka ce n'è uno molto particolare, quasi rovesciato: è infatti un'attesa ansiosa e querula davanti a una porta aperta proprio per colui che attende senza avere il coraggio di entrare. E' la parabola che il cappellano delle carceri racconta a K. nel Duomo :
"Davanti alla legge c'è un guardiano. A lui viene un uomo di campagna e chiede di entrare nella legge. Ma il guardiano dice che ora non gli può concedere di entrare. L'uomo riflette e chiede se almeno potrà entrare più tardi. "Può darsi" risponde il guardiano, "ma per ora no". Siccome la porta che conduce alla legge è aperta come sempre e il custode si fa da parte, l'uomo si china per dare un'occhiata, dalla porta, nell'interno. Quando se ne accorge, il guardiano si mette a ridere:"Se ne hai tanta voglia, prova pure a entrare nonostante la mia proibizione. Bada, però: io sono potente, e sono soltanto l'infimo dei guardiani. Davanti a ogni sala sta un guardiano, uno più potente dell'altro. Già la vista del terzo non riesco a sopportarla nemmeno io". L'uomo di campagna non aspettava tali difficoltà; la legge, pensa, dovrebbe pur essere accessibile a tutti e sempre, ma a guardar bene il guardiano avvolto nel cappotto di pelliccia, il suo lungo naso a punta, la lunga barba tartara, nera e rada, decide di attendere piuttosto finché non abbia ottenuto il permesso di entrare. Il guardiano gli dà uno sgabello e lo fa sedere di fianco alla porta. Là rimane seduto per giorni e anni. Fa numerosi tentativi per passare e stanca il guardiano con le sue richieste. Il guardiano istituisce più volte brevi interrogatori, gli chiede notizie della sua patria e di molte altre cose, ma sono domande prive di interesse come le fanno i gran signori, e alla fine gli ripete sempre che non lo può far entrare. L'uomo, che per il viaggio si è provveduto di molte cose, dà fondo a tutto per quanto prezioso sia, tentando di corrompere il guardiano. Questi accetta ogni cosa, ma osserva:"Lo accetto soltanto perché tu non creda di aver trascurato qualcosa". Durante tutti quegli anni l'uomo osserva il guardiano quasi senza interruzione. Dimentica gli altri guardiani e solo il primo gli sembra l'unico ostacolo all'ingresso nella legge. Egli maledice il caso disgraziato, nei primi anni ad alta voce, poi quando invecchia si limita a brontolare tra sé. Rimbambisce e, siccome studiando per anni il guardiano, conosce ormai anche le pulci nel suo bavero di pelliccia, implora anche queste di aiutarlo e di far cambiare opinione al guardiano. Infine il lume degli occhi gli si indebolisce ed egli non sa se veramente fa più buio intorno a lui o se soltanto gli occhi lo ingannano. Ma ancora distingue nell'oscurità uno splendore che erompe inestinguibile dalla porta della legge. Ormai non vive più a lungo. Prima di morire, tutte le esperienze di quel tempo si condensano nella sua testa in una domanda che finora non ha rivolto al guardiano. Gli fa un cenno poiché non può più ergere il corpo che si sta irrigidendo. Il guardiano è costretto a piegarsi profondamente verso di lui, poiché la differenza di statura è mutata molto a sfavore dell'uomo di campagna. "Che cosa vuoi sapere ancora?" chiede il guardiano, "sei insaziabile". L'uomo risponde:"Tutti tendono verso la legge, come mai in tutti questi anni nessun altro ha chiesto di entrare?". Il guardiano si rende conto che l'uomo è giunto alla fine e per farsi intendere ancora da quelle orecchie che stanno per diventare insensibili, grida:"Nessun altro poteva entrare qui perché questo ingresso era destinato soltanto a te. Ora vado a chiuderlo"[7]. E’ una storia di grande forza educativa: quando ci viene offerta un’occasione buona dobbiamo impiegare tutte le forze fisiche e mentali che abbiamo per afferrarla, anzi acciuffarla dato che è calva di dietro. Se non avessi acciuffato le amanti migliori, le più impegnative e difficili, se non avessi impiegato tutte le mie capacità per raggiungere loro e gli altri traguardi miliari, capitali di questa mia vita mortale, essa sarebbe stata talmente misera che l’avrei buttata via ante diem.
"Nell'apologo, la Legge nascosta dietro la porta, la Legge che l'uomo di campagna ricerca e che K. ignora di ricercare, rivela di attendere tutti gli uomini e soprattutto Josef K. Così, nel processo dove finora avevamo visto solo persecuzione e arbitrio, dobbiamo scorgere una specie di invito, che Qualcuno gli aveva rivolto. Il peccato senza nome, il senso di colpa di cui Josef K. e gli altri imputati sono colpevoli, è in realtà un'elezione divina: questo peccato li rende "belli"; mentre tutti gli altri uomini, che non vivono sotto quest'ombra, non esistono agli occhi di Dio...Il sacerdote propone a K. di entrare nell'edificio della Legge, come fa l'uomo di campagna inebetito e quasi cieco...La categoria dell'attesa è il cuore del mondo di Kafka: attesa di Dio, attesa degli uomini"[8].
L'attesa è comunque la categoria di chi ama una persona per un verso o per un altro non disponibile. L'attendere del resto non è necessariamente doloroso.
Alla fine di Delitto e castigo Raskòlnikov sente di amare Sònia riamato, che questa è la sua felicità e che nessun ostacolo di spazio né di tempo potrà dividerli:"Erano decisi ad attendere, a pazientare. Restavano loro ancora sette anni di quella vita...la sera di quello stesso giorno, quando le baracche erano già state chiuse, Raskòlnikov, sdraiato sul tavolaccio, pensava a Sònia...pensava a lei...ogni cosa, perfino il suo delitto, perfino la condanna e la deportazione, gli parvero allora, in quel primo impulso, come fatti esteriori, estranei, cose che non erano accadute a lui. Quella sera, tuttavia, non gli era possibile pensare a lungo ad una sola cosa, né concentrarsi in un solo pensiero; non riusciva a ragionare su nessun problema; poteva soltanto sentire...Alla dialettica era subentrata la vita"[9]. Questa è sempre una grande svolta del nostro percorso sulla terra.
C’è un'attesa sicura, o quasi, della ricompensa. Un'attesa concordata e senza angoscia. Però c'è pure l'attesa con angoscia, l'attesa con il bisogno, urgente e non condiviso, di vedere l'altro.
Sentiamo Proust che collega l'attesa di chi ama al silenzio di chi non ama:"Qualcuno ha detto che il silenzio è una forza: in tutt'altro senso, è una forza terribile a disposizione di quelli che sono amati, perché accresce l'ansietà di chi aspetta.[10]"
Infine R. Barthes:"Sono innamorato?-Sì, poiché sto aspettando". L'altro, invece, non aspetta mai. Talvolta, ho voglia di giocare a quello che non aspetta; cerco allora di tenermi occupato, di arrivare in ritardo; ma a questo gioco io perdo sempre: qualunque cosa io faccia, mi ritrovo sempre sfaccendato, esatto, o per meglio dire in anticipo. La fatale identità dell'innamorato non è altro che: io sono quello che aspetta ...Fare aspettare : prerogativa costante di qualsiasi potere" [11]. Con il disincanto portato dagli anni e dalle esperienze si impara a non aspettare più perché si capisce che chi fa aspettare non ama, non vuole bene, non rispetta. Allora faccia aspettare i suoi simili, non me.
Pesaro 30 agosto 2023 ore 10, 49 giovanni ghiselli.
p. s.
L’estate è proprio finita. L’autunno è già qui, l’inverno è vicino, la primavera non è lontana. Il rapido volgersi delle stagioni ci porta via gli anni uno dopo l’altro in fretta e furia, eppure nel breve tempo concesso, se sappiamo impiegarlo bene, possiamo costruire monumenti duraturi ben più della nostra vita di effimeri.
p. s.
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[1]F. Dostoevskij, Delitto e castigo , pp. 531 e sgg.
[2]Il Principe , 17.
[3]Gerontion , vv. 47-49).
[4]Il Principe , 15.
[5]Il mestiere di vivere , 3 agosto 1937.
[6] Major Barbara, Act III.
[7]F. Kafka, Il processo , IX capitolo, pp. 220-221.
[8]P. Citati, Kafka , pp. 157-158.
[9]F. Dostoevskij, Delitto e castigo , p. 620.
[10] I Guermantes , p. 128.
[11]Frammenti di un discorso amoroso , p. 42
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