Una femmina oraziana che incarna il tradimento è l'etera Barine.
Nell'Ode II 8 Orazio afferma che gli dèi non puniscono gli spergiuri in amore, come se il campo erotico fosse estraneo alla religione e alla morale. Sembra la trasposizione scherzosa di quello che Tucidide fa dire agli Ateniesi nel dialogo con i Meli: riteniamo infatti che la divinità, secondo la nostra opinione, e l'umanità in modo evidente, in ogni occasione, per necessità di natura ("dia; panto;" uJpo; fuvsew" ajnagkaiva"") dove sia più forte, comandi, V, 105, 2.
In amore, come in guerra e in molti altri campi, i rapporti tra gli umani sono puri rapporti di forza.
Barine non viene punita per i suoi spergiuri: non diventa più brutta, anzi.
Vediamo le prime due strofe saffiche.
"Ulla si iuris tibi peierati/poena, Barine, nocuisset umquam,/dente si nigro fieres vel uno/turpior ungui,/ /crederem:sed tu simul obligasti/perfidum votis caput, enitescis/pulchrior multo iuvenumque prodis/publica cura " ( Ode, II, 8, vv. 5-8), Barìne, se la pena del giuramento violato ti avesse mai nociuto, se diventassi una dal dente nero o più brutta per una sola unghia, ti crederei: ma tu appena hai impegnato la tua vita perfida con i voti, brilli molto più bella e vieni avanti, pubblico tormento per i giovani.
-"In nessun'altra cosa come in amore si usa e si abusa a cuor leggero del giuramento. Ma gli antichi, che erano attaccati con tutta l'anima a una credenza che aveva tanta parte nella loro religione, nel diritto e nella vita comune, corsero ai ripari per ingannar se stessi: in amore sì, poiché lo si vede ogni giorno avvenire senza conseguenze, è lecito giurare falso senza pericolo, nel resto no"[1].
Perfidum è il consueto[2] aggettivo che indica la rottura del foedus e obligare è coerentemente un verbo del linguaggio giuridico. Enitescis costituisce l' ajprosdovkhton che contrasta con la punizione mancata dell'annerimento dei denti in conseguenza dello spergiuro (dente si nigro fieres vel uno/turpior ungui ", vv. 2-3, se diventassi più brutta per la dentatura annerita o almeno per una sola unghia).
Publica cura del v. 8 sovrappone la terminologia politica a una situazione erotica. "Orazio rincara la dose: essa non solo non ha sofferto della fede mancata, anzi a ogni giuramento falso divien più bella, ed esce per le vie accompagnata da un corteo sempre maggiore di giovani: nel publica cura si sente l'ironia, che però si rivolge molto più contro gli adoratori che non contro la bella donna, la quale fa, e ha ragione, i suoi interessi"[3].
Il tovpo" del giuramento amoroso tradìto.
Pasquali cita varie testimonianze della sua affermazione per la quale solo in amore è lecito spergiurare. Alcune le abbiamo già viste nei capitoli precedenti; qui aggiungo il Simposio di Platone dove Pausania fa notare che i più pensano che gli stessi dèi siano indulgenti verso gli spergiuri amorosi:"ajfrodivsion ga;r o{rkon ou[ fasin ei\nai" (183b), infatti dicono che non c'è giuramento d'amore.
Seguo qualche altra indicazione dell'autore di Orazio lirico :" Tibullo non ne fa uso se non in quella sua Ars amandi (I, 4, 21) posta in bocca a Priapo" (p. 480). Vediamone due distici:"Nec iurare time: Veneris periuria venti/irrita per terras et freta summa ferunt.// Gratia magna Iovi; vetuit pater ipse valere,/iurasset cupide quidquid ineptus amor " (vv. 21-24), non aver paura di giurare: gli spergiuri di Venere i venti li trascinano annullati per le terre e in cima ai flutti. Dobbiamo essere molto grati a Giove; il padre ha personalmente vietato che avesse valore qualunque giuramento avesse bramosamente fatto uno spropositato amore.
Del cattivo esempio del padre onnipotente in fatto di adultèri e tradimenti abbiamo già detto. Pasquali fa ancora notare che "Ovidio imita questo passo di Tibullo nell' Ars Amatoria I 633 sgg"[4].
Vediamo qualche distici anche del magister Naso:"Iuppiter ex alto periuria ridet amantum/et iubet Aeolios inrita ferre Notos.// Per Styga Iunoni falsum iurare solebat/Iuppiter: exemplo nunc favet ipse suo " (Ars Amatoria ,I, 631-634), Giove dall'alto sorride agli spergiuri degli amanti e ordina che i venti di Eolo li portino via senza effetto. Sullo Stige Giove era solito giurare il falso a Giunone: ora favorisce personalmente chi segue il suo esempio.
Ovidio, fa notare Pasquali nella nota citata sopra, "aveva già adoperato il tovpo" in forma un po' diversa in due passi degli Amores, assai somiglianti tra loro: I 8, 85 nec, siquem falles, tu periurare timeto: commodat in lusus numina surda Venus"[5] , e se ingannerai qualcuno tu non esitare a spergiurare: per i giochi amorosi Venere rende sordi gli dèi.
L'altro passo chiede indulgenza per gli spergiuri onesti:" Tu, dea, tu iubeas animi periuria puri/Carpathium tepidos per mare ferre Notos " (Amores , II, 8, 19-20), tu, dea, tu ordina che gli spergiuri di un animo puro li portino via i tiepidi venti del sud attraverso il mare Carpatico. La dea naturalmente è Venere, il mare Carpatico è l'Egeo chiamato così dall'isola di Carpato situata tra Creta e Rodi. Mare, isole e venti meridionali, tiepidi evocano vacanze e sensualità. A me pure la bicicletta.
Anche in Anna Karenina c'è un "codice di norme", quello di Vrònskij, che ammette lo spergiuro amoroso:" Le norme stabilivano senz'ombra di dubbio che bisognava pagare un baro, ma non obbligavano a pagare un sarto; che agli uomini non bisognava mentire, ma si poteva con le donne; che non bisognava ingannare nessuno ma un marito si poteva ingannare; che non si potevano perdonare le offese, ma che si poteva offendere, e così via"[6].
Vediamo altre due strofe dell'Ode II 8 di Orazio:" Expedit matris cineres opertos/fallere et toto taciturna noctis/signa cum caelo gelidaque divos/morte carentis.//Ridet hoc, inquam, Venus ipsa, rident/simplices Nymphae, ferus et Cupido/ semper ardentis acuens sagittas/cote cruenta " (vv. 9-16), ti giova ingannare le ceneri sepolte di tua madre e le silenti costellazioni della notte con l'intero cielo e gli dèi immuni dal gelo della morte. Ride di questo, lo affermo, la stessa Venere, ridono le Ninfe ingenue e il feroce Cupido che aguzza sempre i dardi ardenti sulla cote cruenta.- matris cineres opertos (coperti dalla tomba) fallere: il giuramento sulle ossa e le ceneri dei genitori è particolarmente grave: lo usa Properzio per rendere indubitabile la sua dedizione (gravitas) a Cinzia fino alla morte e oltre:"ossa tibi iuro per matris et ossa parentis/ si fallo, cinis heu sit mihi uterque gravis " (II, 20, 15-16), te lo giuro sulle ossa di mia madre, sulle ossa di mio padre, se ti inganno siano opprimenti per me le ceneri di entrambi. Se venisse meno la gravitas di Properzio interverrebbe negativamente quella della cenere.
"La scena della terza strofa, il giuramento per la tomba della madre sotto il cielo stellato è romantica e atta a ispirare terrori misteriosi. Orazio riprende qui uno spunto che aveva trattato nella sua romantica giovinezza[7] (Epod. XV 1):"nox erat et caelo fulgebat luna sereno inter minora sidera, cum tu magnorum numen laesura deorum, in verba iurabas mea", era notte e la luna brillava nel cielo sereno tra gli astri minori, quando tu, pronta a violare la potenza degli dèi grandi, giuravi sulle mie parole (vv. 1-4) Si tratta di Neera che giura, falsamente a Orazio che il loro amore sarebbe stato reciproco "fore hunc amore mutuum " (v. 10). Ma il poeta saprà reagire eroicamente: "nec semel offensae cedet constantia formae/si certus intrarit dolor " (vv. 15-16, un esametro e un dimetro giambico), e la costanza non cederà alla bellezza una volta rivelatasi odiosa.
Il non cedere è caratteristico dell'eroe: lo stesso Orazio definisce Achille incapace di cedere[8] . E il rivale felicior , più fortunato cui il poeta si rivolge con un quicumque es (v. 17), chiunque tu sia, come il coro o un personaggio della tragedia greca a Zeus (Eschilo, Agamennone 160; Euripide, Troiane , 885) e come Enea a Mercurio (Eneide IV, 577), presto piangerà anche lui l'amore trasferito altrove e il poeta a sua volta riderà:" Heu heu! translatos alio maerebis amores/Ast ego vicissim risero " (vv. 23-24). L'ultimo distico applica all'amore l'idea dell'orbis che ogni cosa porta in giro, in tutti i sensi.
Torniamo a Orazio Ode II, 8-
Ridet…rident : il poliptoto a cornice e inquam rafforzano questo distacco sorridente dalla vicenda amorosa, ben diverso dagli scoppi di gelosia e dalle maledizioni con le quali reagiscono ai tradimenti e agli spergiuri Catullo e gli elegiaci.
Faccio l'esempio di Properzio: nel primo libro (pubblicato attorno al 28 a. C.) l'amante geloso ricorda a Cinzia, la quale lo fa soffrire con la sua leggerezza (levitas) e la sua perfidia, che lo spergiuro può provocare la vendetta divina:"desine iam revocare tuis periura verbis,/Cyntia, et oblitos parce movere deos " (15, 25-26), smettila di tirare fuori di nuovo gli spergiuri con le tue parole, Cinzia, evita di irritare l'oblio dei numi.
Nel secondo libro, redatto tra il 28 e il 26, Properzio sembra di trovare una replica a questa ode di Orazio:"non semper placidus periuros ridet amantes/Iuppiter et surda neglegit aura preces./vidisti toto sonitus percurrere caelo,/fulminaque aetheria desiluisse domo?/non haec Pleiades faciunt neque aquosus Orion,/nec sic de nihilo fulminis ira cadit;/periuras tunc ille solet punire puellas,/deceptus quoniam flevit et ipse deus " (II, 16, 47-54), non sempre Giove ride calmo degli amanti spergiuri e con orecchie sorde trascura le preghiere. Hai visto i tuoni trascorrere per tutto il cielo e i fulmini saltati giù dalla dimora eteria? Questi non sono effetti delle Pleiadi né del piovoso Orione, né così cade dal niente l'ira del fulmine; allora quello suole punire le ragazze spergiure, poiché anche lui stesso, un dio, pianse ingannato.
E' questo il ribaltamento del gioco sofistico che abbiamo spiegato nel capitolo precedente. Anzi, secondo Pasquali "l'ultimo verso par quasi una risposta alla elegia citata dal primo libro di Tibullo (I 4, 21) pubblicato appunto in quello stesso torno di tempo: come lì Giove perdonava, conscio di aver dato lui il cattivo esempio, così qui punisce per dispetto degli inganni in cui egli è caduto"[9].
Properzio in un'altra elegia del medesimo libro fa dipendere la malattia di Cinzia non tanto dal caldo canicolare quanto dal fatto che la fanciulla non ha rispettato gli dèi:" venit enim tempus, quo torridus aestuat aer,/ incipit et sicco fervere terra Cane./sed non tam ardoris culpa est neque crimina caeli,/quam totiens sanctos non habuisse deos " (II, 28, 5-6), è venuto il tempo nel quale l'aria ribolle torrida, e la terra comincia a bruciare per la Canicola assetata. Ma la colpa non è tanto del caldo né delitto del cielo, quanto non avere considerati santi gli dèi.
Il tovpo" degli spergiuri si trova anche in un'altra elegia di Tibullo, quella contro il fanciullo Maratho (I, 9). Il poeta all'inizio utilizza il motivo della sera numinis vindicta , la punizione divina che tarda ma arriva contro gli spergiuri:" Ah miser, et siquis primo periuria celat,/sera tamen tacitis Poena venit pedibus!" (vv. 3-4), ah sciagurato, se qualcuno in un primo momento nasconde gli spergiuri, la punizione arriva comunque anche se tardi con piedi silenziosi. "Pure Tibullo ha inteso dire, e spera sia vero, che spergiurare è lecito ai belli, ma per una sola volta: parcite, caelestes; aequum est impune licere/numina formosis laedere vestra semel "[10] (vv. 5-6), risparmiatelo, Celesti, è giusto che ai belli sia lecito, una sola volta tradire impunemente il vostro nume. Tra l'altro il tradimento del ragazzo è inquinato e aggravato dall'oro, la "comune bagascia del genere umano"; l'universale mezzana che "profuma e imbalsama come un dì di Aprile quello che un ospedale di ulcerosi respingerebbe con nausea"[11].
Ma leggiamo il latino:"Admonui quotiens:"Auro ne pollue formam;/saepe solent auro multa subesse mala./Divitiis captus siquis violavit amorem,/asperaque est illi difficilisque Venus " (vv. 17-20), l'ho avvisato tante volte: non inquinare la bellezza con l'oro; spesso sotto l'oro sogliono essere posti molti mali. Se qualcuno ha profanato l'amore sedotto dalle ricchezze, per lui Venere è dura e ostile. "Questa è un'altra delle variazioni dell'antico motivo, adoprato con tutta libertà dai poeti, secondo ne viene loro il destro: lo spergiuro contro l'amore, se uno vi si induce per denaro, è il meno perdonabile di tutti"[12].
Ma Nell’ Ode di Orazio citata sopra (II, 8) nota Pasquali, è tutto" scherzo: Venere, le Ninfe del suo corteggio, Cupido il quale pur si compiace di aguzzare dardi ardenti sur una cote, che, a forza di sfregarsi ad essi, si macchia di sangue, non solo perdonano ma si divertono dello spergiuro"[13].-simplices (v. 14) :"Le Ninfe sono dette simplices, perché esse che per lo più si vendicano atrocemente di chi le offende impossessandosi di lui, rendendolo kavtoco", soggetto, numfovlhpto" [14], posseduto dalle ninfe, impazzandolo, questa volta perdonano: faciles Nymphae risere [15] , scrive Virgilio (ecl. III, 9)"[16].
-ferus et =et ferus. "La posposizione dell'et è un'eleganza neoterica, di origine alessandrina"[17]. Ferus deriva dalla radice indoeuropea *dher- che ha dato esito, in greco qhr- da cui qhvr, qhrov", animale selvatico e qhvra, caccia; in latino fer- da cui, oltre ferus, fera, ferinus, ferox.
Perfino la ferocia di Cupido armato di frecce insanguinate, della fiamma di Efesto, e incline ad un' ira simile a quella dei flutti[18] si dissolve in una risata.-ardentis=ardentes.-cote: in allitterazione con cruenta, è la pietra per affilare.
Leggiamo la penultima strofa di questa Ode (II, 8) di Orazio :" Adde quod pubes tibi crescit omnis,/servitus crescit nova, nec priores/impiae tectum dominae relinquunt,/saepe minati " (vv. 17-20), aggiungi che i giovani crescono tutti per te, per te crescono nuovi schiavi, né quelli di prima lasciano la casa dell'empia padrona benché lo abbiano minacciato spesso.- servitus: variante del servitium, sempre alla donna padrona.-dominae: abbiamo visto quanto sia presente questa parola nel linguaggio amoroso dei latini, mentre non ce n'è una corrispondente in quello dei Greci. La donna imperiosa e poco pia invece è molto presente nella letteratura (e nella vita) italiana: trova infatti un mercato ricco di poveri maschi che non hanno elaborato la matriarca, spesso una vera e propria strega:"Nel vedermi aggirar per casa come una mosca senza capo, quella bufera di femmina mi lanciava certe occhiatacce, lampi forieri di tempesta. Uscivo per levar la corrente e impedire la scarica. Ma poi temevo per la mamma, e rincasavo"[19]. Questo è Mattia Pascal compresso tra la suocera la moglie e la madre prima di "morire".
Leggiamo l'ultima strofa:" Te suis matres metuunt iuvencis,/te senes parci miseraeque, nuper/virgines, nuptae, tua ne retardet/aura maritos" (Ode, II, 8, vv. 21-24),
le madri ti temono per i loro vitelloni, ti temono i vecchi parsimoniosi e le povere ragazze appena sposate, che il tuo profumo ritardi i mariti.-matres metuunt : c'è l'adattamento alla pericolosa milizia dell'amore del tovpo" epico e tragico delle madri che temono per i figli andati in guerra.
Non solo le guerre dunque sono detestate dalle madri (Cfr. Ode I, 1, 24-25:" bellaque matribus/ detestata).
Il tovpo" delle madri e delle compagne sbigottite dalla bellezza suprema della donna fatale si trova pure nell' ode All'amica risanata di Foscolo:" tornano/ i grandi occhi al sorriso/insidïando; e vegliano/per te in novelli pianti/trepide madri e sospettose amanti" (vv. 16-18). A volte del resto queste fatalone sono un bluff: l'innamorato a vita di Màrquez "diffidava del tipo sensuale, quelle che sembravano di mangiarsi crudo un caimano e che di solito a letto erano le più passive"[20].
-aura (Orazio, II, 8, 24) Pasquali, dal quale mi permetto di dissentire, la interpreta non come l'odore ma "il venticello che, spirando dalla donna bella, ritarda i mariti avviati verso casa"[21]. Pasquali sostiene che anche questa ode con il timore delle madri del v. 21 attesta le maggiori possibilità di un matrimonio d'amore nella società romana del tempo di Augusto rispetto a quella ellenistica rispecchiata dalla commedia latina ( plautina in particolare: vengono menzionate l'Aulularia, la Cistellaria e il Trinumnus ) e che l'ultima strofa suppone "una società" nel senso moderno". In altre parole le signore romane erano più libere delle donne ellenistiche le quali "non partecipavano né a banchetti né a conversazioni se non erano regine o etere"[22]. Una affermazione che non sembra congruente con il personaggio di Barine.
Forse il filologo vuol dire che le matrone potevano subire uno sfavorevole giudizio comparativo da parte dei loro uomini quando partecipavano ai banchetti magari in compagnia di tali affascinanti etere, cosa che per le spose greche non era possibile come fa notare Cornelio Nepote (100-27 a. C.) nella Praefatio alle Vitae :"quem enim Romanorum pudet uxorem ducere in convivium? aut cuius non mater familias primum locum tenet aedium atque in celebritate versatur? quod multo fit aliter in Graecia. nam neque in convivium adhibetur nisi propinquorum, neque sedet nisi in interiore parte aedium, quae gynaeconitis appellatur, quo nemo accedit nisi propinqua cognatione coniunctus ", chi infatti tra i Romani si perita di portare la moglie al banchetto?o quale matrona non occupa il primo posto della casa e non si aggira nella parte più frequentata? Ciò avviene molto diversamente in Grecia. Infatti non è ammessa se non ai banchetti dei parenti né può trattenersi se non nella parte più interna della casa , che si chiama gineceo, dove nessuno entra se non è legato da stretta parentela.
Questa distinzione entra nel tovpo" di origine erodotea del relativismo culturale: nella stessa Praefatio al Liber de excellentibus ducibus exterarum gentium Cornelio Nepote afferma che dalla sua opera si può imparare:"non eadem omnibus esse honesta atque turpia ", che non sono uguali per tutti gli atti onorevoli e turpi, tant'è vero che a Sparta le vedove, anche nobili, partecipano ai banchetti "mercede ", per denaro. Come si vede un costume indicativo, decisivo per la vita di tutti, come la condizione della donna, può variare nel giro di non molti chilometri.
Quanto alla congruenza con questo capitolo possiamo dire che la partecipazione di mogli, mariti, e amanti degli uni e delle altre ai banchetti apre spazi alla gelosia di tutti contro tutti e alle ferite delle schermaglie amorose come vedremo in Lucrezio e come sappiamo bene.
Pesaro 20 agosto 2023 ore 9, 25 giovanni ghiselli
Sempre1397234
Oggi14
Ieri99
Questo mese3824
Il mese scorso6870
[1] G. Pasquali, Orazio lirico, p. 477.
[2]Cfr. perfide in Catullo 64, 133 già visto; più avanti lo troveremo in bocca a Didone in Eneide IV 305.
[3]G. Pasquali, Orazio lirico, p. 485.
[4]G. Pasquali, Orazio lirico, p. 480, n. 2.
[5] G. Pasquali, Orazio lirico, p. 480, n. 2.
[6] L. Tolstoj, Anna Karenina, p. 310.
[7] Pasquali, op. cit., p. 485. Gli Epodi furono pubblicati intorno al 30 a. C.
[8] Odi , I, 6, 6.
[9] G. Pasquali, Orazio lirico, p. 481.
[10] G. Pasquali, Orazio lirico, p.482.
[11] Shakespeare, Timone d'Atene, IV, 3.
[12] G. Pasquali, Orazio lirico, p.483.
[13] G. Pasquali, Orazio lirico, p. 485.
[14] Soggetto, posseduto dalle Ninfe appunto.
[15] Le ninfe indulgenti risero.
[16] G. Pasquali, Orazio lirico, p. 485 n. 1.
[17] La Penna, Orazio, Le opere, Antologia, p.156.
[18]Cfr. Meleagro in Anth. Pal. V, 180, 7-8.
[19] L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal del 1904, p.51.
[20] L'amore ai tempi del colera , p. 186.
[21] Op. cit., p. 487, n. 1.
[22] G. Pasquali, Orazio lirico, p. 489.
Nessun commento:
Posta un commento