Virgilio nella I Georgica dà una spiegazione diversa della genesi dell'età moderna: Giove procurò agli uomini fatiche e angosce (curae ) in quanto non lasciò che il suo regno restasse paralizzato in un pesante letargo"nec torpere gravi passus sua regna veterno " (v. 124).
Secondo Bettini, l'autore delle Georgiche tenta di mediare tra la posizione di Lucrezio e quella di Esiodo il quale "aveva affermato che il lavoro umano aveva avuto origine da una punizione divina, secondo una prospettiva religiosa che ritroviamo anche nella Bibbia". Virgilio dunque compie la sua mediazione "conservando da un lato il valore positivo del lavoro, ma conciliandolo dall'altro con l'idea di una giustizia e di una provvidenza divina. Centrale è il concetto di veternus , una specie di pigra indolenza, un torpore che affliggeva l'umanità nell'età dell'oro, e che avrebbe indotto Giove a introdurre il lavoro nel mondo, per stimolare l'ingegno umano e rendere gli uomini attivi, vigile e intraprendenti"[1] . Concezione simile si trova nel De providentia di Seneca il quale trova un significato positivo non solo nel lavoro ma pure nelle disgrazie (incommoda) nei dolori e nelle perdite quali prove per esercitare e temprare la virtus :"Marcet sine adversario virtus" (2, 4), senza un avversario la virtù marcisce; e dio nei confronti degli uomini buoni ha l'animo di un padre, li ama con forza, e ha questi progetti:"Operibus, inquit, doloribus, damnis exagitentur, ut verum colligant robur" (2, 6), con lavori, dolori, perdite, si affannino per raccogliere la vera forza. "Languent per inertiam saginata nec labore tantum sed motu et ipso sui onere deficiunt", infiacchiscono nell'ozio i corpi ingrassati e non solo per la fatica ma per il movimento e il loro stesso peso vengono meno. E' la medesima impostazione del Giobbe biblico:"Se nella cultura occidentale inglobiamo, per l'innesto operato dal cristianesimo, la cultura ebraica, allora la più antica occorrenza di questo "perché"[2] potrebbe essere il Libro di Giobbe "[3]. Questo dovrebbe risalire al V sec. a. C. Ne riporto una massima:"Felice l'uomo che è corretto da Dio"[4]. C'è un Giobbe moderno (1930) di Joseph Roth, un pio ebreo orientale, Mendel Singer:"la sua vita era una perpetua fatica". Aveva un figlio piccolo, Menuchim, che cresceva male, era malato, ma il Rabbi disse alla madre Deborah:"il dolore lo farà saggio, la deformità buono, l'amarezza mite e la malattia forte. I suoi occhi saranno grandi e profondi, le sue orecchie limpide e piene di risonanze"[5].
Tratta questo tema anche Shakespeare nel Cimbelino[6] quando Giove “nella teofania che lo vede discendere cavalcando l’aquila fra tuoni e fulmini (l’equivalente pagano del “turbine” dal quale Dio parla a Giobbe), disegna con fermezza il confine fra le competenze umane e quelle divine, formulando la legge che governa l’insondabile giustizia e la segreta caritas provvidenziale della divinità: “Non v’angustiate di pene mortali:/non è vostra, ma nostra la cura./Chi più amo più metto alla prova,/per far che i miei doni, più attesi,/siano ancor più graditi . Tranquilli,/la nostra grande divina potenza/solleverà vostro figlio umiliato”
“Be not with mortal accidents opprest;/No care of yours it is; You know ‘tis ours./Whom best I love I cross; to make my gift,/The more delay’d, delighted. Be content;/Your low-laid son our godhead will uplift” V , 4, 99-103:.Questa non è più soltanto la comparsa in scena del tradizionale, risolutorio deus ex machina. Si tratta, invece, di una vera e propria teodicea. Le “pene mortali” sono preoccupazioni esclusive della divinità, e gli uomini non se ne devono angustiare. “Chi più amo, più metto in croce”, sembra dire Giove usando la parola “cross”, e offre la chiave teologica di tutto il dramma; la felicità si ottien soltanto dopo grandi, dolorose prove, ed è un dono gratuito di Dio, che lo ritarda perché gli uomini vi trovino ancor maggiore diletto”[7].
Il veternus è presente in un'accezione psicologica-individuale in un altro poeta augusteo: Orazio nell'Epistola I, 8 lo menziona come un vizio della sua anima malata: egli vive male non perché gli manchino i mezzi materiali "sed quia mente minus validus quam corpore toto/nil audire velim, nil discere, quod levet aegrum;/fidis offendar medicis, irascar amicis,/ cur me funesto properent arcere veterno;/ quae nocuere sequar, fugiam quae profore credam;/ Romae Tibur amem ventosus, Tibure Romam " (vv. 7-12), ma perché meno forte nello spirito che in tutto il corpo, niente voglio sentire, niente imparare che mi tiri fuori dalla malattia, mi urto con i medici fidati, mi arrabbio con gli amici, perché hanno premura di allontanarmi da questo letargo funesto: seguo ciò che mi ha danneggiato, fuggo ciò che penso mi gioverà; a Roma amo Tivoli, in preda ai venti, a Tivoli Roma.
La stessa malattia che spinge a cambiare continuamente luogo per trovare la pace, invano, chi sta male con se stesso è denunciata, in Epistola I, 11, con un ossimoro:"caelum, non animum mutant qui trans mare currunt./Strenua nos exercet inertia " (vv. 27-28), cambiano il cielo, non lo stato d'animo quelli che corrono al di là del mare, non ci lascia in pace un' agitata indolenza. Questa deriva dalla sensazione che gli spiriti raffinati provano quando tutto viene deciso dall'alto, di non potere cambiare nulla. E' uno stato d'animo descritto da Musil con l'immagine efficace, il correlativo oggettivo, della carta moschicida che un poco alla volta blocca le vite dei giovani come fossero mosche: "qui ha imprigionato un peluzzo, là ha bloccato un movimento, e a poco a poco li ha avviluppati, finché son sepolti in un involucro spesso che corrisponde solo vagamente alla loro forma originale"[8].
Pesaro 26 agosto 2023 ore 17, 44 giovanni ghiselli
p. s
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[1] La letteratura latina, 2, p. 453.
[2] Quare aliqua incommoda bonis viris accidant, cum providentia sit . E' il sottotitolo, probabilmente autentico, del De providentia: perché agli uomini buoni capitano delle disgrazie dal momento che c'è la provvidenza.
[3] A. Traina (a cura di) La provvidenza, p. 8.
[4] La Bibbia di Gerusalemme, Giobbe , 5.
[5] J. Roth, Giobbe, p. 19.
[6] 1609-1610
[7] P. Boitani, Il Vangelo Secondo Shakespeare, p. 95.
[8]L' uomo senza qualità , p.124.
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