Abbiamo
già detto che Musil definisce "catena di plagi"[1] quella che lega le grandi figure del mondo artistico
l'una all'altra.
Su
Catullo come primo anello latino di questa catena che rende malato l'amore
sentiamo P. Fedeli:"Grazie a
Catullo una nutrita serie di vocaboli acquista diritto di cittadinanza nel
linguaggio d'amore: basterà ricordare la definizione dell'amore come dolor
(2 7) ardor (2 8) cura (2 10; 68 51), ma anche come morbus
(76 25) , come pestis e pernicies che s'insinua nelle membra simile a un torpor
(76 20) e le divora (31 15) ; oppure la definizione dell'amata come desiderium (2 5); dell'innamorato come vesanus
(7 10) miser (8 1; 51 5) e dell'innamorata che si strugge
come misella (31 14);
dell'innamoramento come equivalente dell'ineptire (8 1), del perdite amare (45 3) dell'amore deperire (35 12), del tabescere (68 55) dell'ardere (68 53)"[2].
L'ardore
e il fuoco a dire il vero sono già presenti negli amorazzi dei giovani della
commedia:"Sperabam iam defervisse
adulescentiam:/ gaudebam. Ecce autem de integro! " fa Micione negli Adelphoe
(v. 151-152) a proposito del nipote, speravo che fossero sbolliti quegli
ardori giovanili: me ne rallegravo. Ecco invece di nuovo.
L'amore
in ogni caso secondo questi autori fa male, rende infelici, malati, ferisce,
consuma, brucia. "Deve" fare male poiché chi lo vive senza sensi di
colpa è meno intimidibile e ricattabile; insomma è meno soggetto al potere, ai
tempi di Augusto come ai nostri. Abbiamo già sentito Orwell.
Ora leggiamo sullo stesso motivo D. H. Lawrence
(1885-1930):"C'è un desiderio incoffessato, implacabile, dietro a tutte le
teorie del sesso. Ed è desiderio di annullare, di cancellare completamente il
mistero della bellezza. (…) La scienza ha una misteriosa avversione per la
bellezza, in quanto non riesce a sistemarla adeguatamente nella visione che
essa ha del mondo come serie di cause ed effetti. La società a sua volta ha una
misteriosa avversione per il sesso, in quanto interferisce perpetuamente con la
organizzazione bene ordinata che l'uomo sociale ha inventato per fare
quattrini. Le due avversioni si assommano e ne risulta che il sesso e la
bellezza sono soltanto espressioni dell'istinto di riprodursi. E allora
diciamolo: il sesso e la bellezza sono una cosa sola, come la fiamma e il
fuoco. Se provi odio per il sesso, lo provi anche per la bellezza. Se ammiri la
bellezza vivente, provi rispetto anche per il sesso…La sventura della
nostra civiltà deriva dall'odio morboso che proviamo per il sesso"[3].
Wilhelm Reich considera il terrorismo sessuale inflitto ai bambini come
un'arma che ammorba la vita erotica e nello stesso tempo annienta per sempre la
loro indipendenza:"L'inibizione morale della sessualità naturale del
bambino, la cui ultima tappa è una grave limitazione della sessualità genitale
del bambino piccolo, rende quest'ultimo pauroso, timido, timoroso dell'autorità,
ubbidiente, "buono" e pure "educabile" in senso
autoritario: l'inibizione morale paralizza, perché ormai ogni impulso libero e
vivo è affetto da grave paura e provoca, attraverso la proibizione del pensiero
sessuale, una generale inibizione del pensiero e una incapacità critica; in
breve il suo obiettivo è la creazione di un suddito che si adatti all'ordine
autoritario e lo subisca nonostante la miseria e l'umiliazione"[4].
La fobia del sesso fa parte della propaganda di
qualsiasi regime.
Tante volte deriva della storia personale e, quando è
espressa da autori maschi, deve essere collegata alla paura che hanno donne.
Faccio un esempio che accosta,
addirittura, Aristofane a Manzoni.
Nelle Rane il personaggio Eschilo si vanta di non avere
mai fatto agire nei suoi drammi Fedre né Stenebee puttane (povrna", v. 1043) e anzi di non avere mai
creato una donna in amore (" ejrw'san pwvpot& ejpoivhsa gunai'ka", v. 1044). Il personaggio
Euripide ribatte maliziosamente che nei drammi del rivale in effetti non c'è
nulla di Afrodite (1045), ossia non c'è grazia.
Ebbene lo stesso merito, dubbio assai, se lo attribuisce Manzoni nel Fermo e Lucia :" Non si deve scrivere di amore in modo da far
consentire l'animo di chi legge a questa passione. Di amore ce n'è seicento
volte di più di quanto sia necessario alla conservazione della nostra riverita
specie. Io stimo dunque opera impudente l'andarlo fomentando con gli
scritti". A queste parole dell'autore aggiungo alcune frasi prese da una
tesi di abilitazione all'insegnamento secondario di una giovane laureata della
SSIS di Bologna:"Il carattere di Lucia è architettato sulla base d'un
sistema che uccide il pensiero…Le sue aspirazioni, il suo voto incontrano freddezza
nel lettore di cuore sano; essa appare o insipida o egoista e tutta la maestria
della disposizione non basta a infondere sangue a quella creazione…Lucia fa
olocausto di sé sull'altare di un sistema"[5].
Questo maniaco dell'antisesso, si noti, è un moderato e uno
che si dice cristiano. Eppure il Cristo
disse bene della peccatrice :"Remissa
sunt peccata eius multa, quoniam dilexit multum, cui autem minus dimittitur,
minus diligit " (Luca, 7, 47), le sono perdonati i suoi molti peccati
poiché ha amato molto, quello invece cui si perdona meno, ama meno. E' una di
quelle splendide pagine del Vangelo che sono ignorate o fraintese dai furfanti
bigotti i quali adulterano le parole sante. A tale categoria appartiene
"la vecchia Bovary" la quale, quando il farmacista propose di
chiamare sua nipote Madeleine "protestò aspramente contro quel nome di
peccatrice"[6].
Tolstoj ci scherza sopra con intelligenza:" I libertini,
queste Maddalene di sesso maschile, hanno un segreto senso della propria
innocenza, né più né meno come le Maddalene femminili, e basato sulla medesima
speranza di perdono:"Tutto le sarà perdonato, perché ha molto amato; e a
lui tutto sarà perdonato, perché si è molto divertito"[7]. Per quanto riguarda la bellezza
della figura di Maddalena, "Maria Magdalene " (Luca, 24, 10)
consiglio vivamente la visione di quella di Masaccio col manto rosso sangue, i lunghi capelli biondi e le
braccia alzate a V, come a significare la prossima vittoria sopra il dolore
della morte (Crocifissione del 1426, Napoli, Museo di Capodimonte).
La storia dolorosa di Didone riprende
dall'incipit del quarto canto dell'Eneide
:"At regina gravi iamdudum
saucia cura/volnus alit venis et caeco carpitur igni " (vv. 1-2) ma la
regina, già da tempo ferita da pesante affanno, /ravviva nelle vene la piaga ed
è divorata da un fuoco nascosto.-at: la congiunzione avversativa
connette il primo verso di questo canto all'ultimo del terzo con il quale Virgilio dichiara concluso il
racconto di Enea, capace, come Odisseo, di sedurre attraverso le parole il cui
lungo fluire ha messo in agitazione la regina mentre ha dato finalmente quiete
all'eroe che ha raccontato se stesso:"Conticuit tandem factoque hic
fine quievit" (III, 718), tacque infine e posto qui un termine si
riposò. Nel primi versi del quarto canto si può già leggere il preludio della
fine tragica nelle "metafore comuni del sermo amatorius (ferita,
fuoco, malattia, veleno): esse appartengono tutte, oltre che a una tradizione
letteraria antica e diffusa, a un altrettanto antica e diffusa psicologia
popolare, che interpreta l'esperienza amorosa in termini prevalentemente
pessimistici, e la giudica negativamente (l'amor è, insomma, amor insanus).
Al primo verso, costruito su una struttura a chiasmo (a-b/b-a), il secondo
contrappone una doppia allitterazione (volnus…venis; caeco carpitur)"[8].
"Nel
libro I è soprattutto l'humanitas che caratterizza Didone; una humanitas divenuta carattere e sensibilità oltre che
coscienza morale, consistente soprattutto nella capacità, da parte di chi ha
molto sofferto, di comprendere i dolori degli altri e nella disposizione a
soccorrerli"[9].
Il verso espressivo di questo tw/' pavqei mavqo"
virgiliano è:" non ignara mali
miseris succurrere disco ", I,
630, non ignara del male imparo a soccorrere gli sventurati. Questa humanitas
, echeggiata ancora dalle prime parole del Decameron :"Umana cosa è
l'aver compassione degli afflitti"[10],
non verrà contraccambiata da Enea.
Eppure
questo è uno degli insegnamenti massimi dei nostri autori e della scuola
:"E infine, possiamo imparare la lezione fondamentale della vita, la
compassione per le sofferenze di tutti gli umiliati, e la comprensione
autentica"[11].
"All'inizio del libro IV Didone è già
immersa nella sua passione tormentosa ed è profondamente mutata; ma Virgilio
non s'è preoccupato di farci seguire e capire a fondo il mutamento e dell'humanitas del libro I è difficile ritrovare tracce nel
libro IV: il nuovo punto di partenza del dramma è la sofferenza della donna
ferita d'amore...la metafora della ferita per significare l'amore...proviene
dalla poesia greca, specialmente da quella alessandrina, ed è spesso associata
con l'immagine di Cupìdo, il figlio di Venere, che ferisce con le sue frecce.
(da una freccia del dio, per es. , è ferita Medea nella scena
dell'innamoramento in Apollonio Rodio III 275 sgg...L'aggettivo (saucia ) ha una sua tradizione di pathos
erotico[12]",
da Ennio, già citato, a Catullo cui
Virgilio allude :"multiplices animo
volvebat saucia curas ", 64, 250, volgeva ferita nell'animo molti
pensieri affannosi. Si tratta, naturalmente, di Arianna. La Penna-Grassi
menzionano pure Lucrezio:"idque petit corpus, mens unde est saucia amore "
(IV, 1O48), ed essa (la voluntas
eicere , il desiderio di eiaculare dove si indirizza la dira libido , la brama funesta) cerca quel corpo da cui la mente è ferita
d'amore. All'amore in Lucrezio dedicheremo diverse pagine più avanti.
Per quanto riguarda igni (v. 2) "il poeta
passa facilmente dalla metafora della ferita, a quella, ancora più diffusa, del
fuoco...E' notevole che Apollonio Rodio
nella scena dell'innamoramento (III 286 s.) unisca già le due immagini:"la
freccia (scagliata da Eros) alla giovinetta bruciava sotto il cuore simile a
fiamma"[13].
"Multa
viri virtus animo multusque recursat/gentis honos haerent infixi pectore
voltus/verbaque nec placidam membris dat cura quietem" (vv. 3-5), il
gran valore dell'eroe e la grande gloria della stirpe le ricorrono al pensiero,
le sembianze e le parole le stanno ficcate nel cuore e l'affanno non concede
alle membra un riposo tranquillo.
Questi
primi versi, prefigurando la catastrofe finale, presentano l'amore come
tormento: le sembianze e le parole di Enea, invece di procurare gioia alla
regina, sono infissi nel petto come dardi dolorosi e Didone, al contrario di
Enea, non trova riposo. Diverso, sproporzionato è dunque l'investimento, e
questa è la prima causa che crea dolore negli amanti, tragicamente in uno dei
due. Gli strumenti seduttivi di Enea, oltre la virtus raccontata e
connessa pure etimologicamente al vir che ne è dotato[14],
sono l'aspetto bello (voltus, non per niente Enea è figlio e protetto di
Venere che lo ha pure imbellito[15])
e le parole (verba). Sono gli eterni mezzi del seduttore; gli stessi che
usa Odisseo, anche lui infatti abbellito dalla sua dea che è Atena[16].
Pesaro 19 agosto 2023 ore 17, 45 giovanni ghiselli
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[1]L'uomo senza qualità , p. 270.
[2]Lo spazio letterario di Roma antica, 1,
p. 153.
[3]
Fantasia dell'inconscio e altri saggi sul desiderio, l'amore, il piacere
, Mondadori, Milano, 1978. Tratto da Lunario dei giorni d'amore , pp.
427-428.
[4]
W. Reich, Psicologia di massa del fascismo, p. 43.
[5]
G. Morandini, La voce che è in lei, Bompiani, 1997, p. 16. La tesi è di
Alessandra Neri, alumna optima .
[6] G. Flaubert, Madame Bovary,
p. 74.
[7]Guerra e pace , p. 855.
[8]
G. B. Conte, Scriptorium Classicum 3, p. 262.
[9].
A. La Penna-C. Grassi (a cura di) Virgilio,
Le Opere, Antologia , p. 352
[10]
Che nella fattispecie sono in particolare le donne innamorate.
[11]
E. Morin, op. cit., p. 49.
[12]A.
La Penna-C. Grassi (a cura di) Virgilio,
Le Opere, Antologia , p. 364.
[13]A.
La Penna-C. Grassi, op. cit., p. 365.
[14]
Appellata est enim ex viro virtus: viri autem propria maxime est fortitudo,
cuius munera duo sunt maxima: mortis dolorisque contemptio " (Cicerone
, Tusc., 2, 43), la virtù infatti deriva da vir ed è soprattutto
propria dell'uomo la fortezza i cui principali compiti sono due: il disprezzo
della morte e del dolore. Enea disprezzerà sì la morte e il dolore, ma quelli
dell'amante Didone.
[15]
Eneide I, 588-593.
[16] Odissea, VI, 232-235)
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