NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

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sabato 19 agosto 2023

Percorso amoroso VIII stazione. Quarta parte

Abbiamo già detto che Musil definisce  "catena di plagi"[1] quella che lega le grandi figure del mondo artistico l'una all'altra.
 
Su Catullo come primo anello latino di questa catena che rende malato l'amore sentiamo P. Fedeli:"Grazie a Catullo una nutrita serie di vocaboli acquista diritto di cittadinanza nel linguaggio d'amore: basterà ricordare la definizione dell'amore come dolor  (2 7) ardor  (2 8) cura  (2 10; 68 51), ma anche come morbus  (76 25) , come pestis  e pernicies  che s'insinua nelle membra simile a un torpor  (76 20) e le divora (31 15) ; oppure la definizione dell'amata come desiderium  (2 5); dell'innamorato come vesanus  (7 10) miser  (8 1; 51 5) e dell'innamorata che si strugge come misella (31 14); dell'innamoramento come equivalente dell'ineptire  (8 1), del perdite amare  (45 3) dell'amore deperire (35 12), del tabescere (68 55) dell'ardere (68 53)"[2].
L'ardore e il fuoco a dire il vero sono già presenti negli amorazzi dei giovani della commedia:"Sperabam iam defervisse adulescentiam:/ gaudebam. Ecce autem de integro! " fa Micione negli Adelphoe  (v. 151-152) a proposito del nipote, speravo che fossero sbolliti quegli ardori giovanili: me ne rallegravo. Ecco invece di nuovo.
L'amore in ogni caso secondo questi autori fa male, rende infelici, malati, ferisce, consuma, brucia. "Deve" fare male poiché chi lo vive senza sensi di colpa è meno intimidibile e ricattabile; insomma è meno soggetto al potere, ai tempi di Augusto come ai nostri. Abbiamo già sentito Orwell.
 Ora leggiamo sullo stesso motivo D. H. Lawrence (1885-1930):"C'è un desiderio incoffessato, implacabile, dietro a tutte le teorie del sesso. Ed è desiderio di annullare, di cancellare completamente il mistero della bellezza. (…) La scienza ha una misteriosa avversione per la bellezza, in quanto non riesce a sistemarla adeguatamente nella visione che essa ha del mondo come serie di cause ed effetti. La società a sua volta ha una misteriosa avversione per il sesso, in quanto interferisce perpetuamente con la organizzazione bene ordinata che l'uomo sociale ha inventato per fare quattrini. Le due avversioni si assommano e ne risulta che il sesso e la bellezza sono soltanto espressioni dell'istinto di riprodursi. E allora diciamolo: il sesso e la bellezza sono una cosa sola, come la fiamma e il fuoco. Se provi odio per il sesso, lo provi anche per la bellezza. Se ammiri la bellezza vivente, provi rispetto anche per il sesso…La sventura della nostra civiltà deriva dall'odio morboso che proviamo per il sesso"[3].
Wilhelm Reich considera il terrorismo sessuale inflitto ai bambini come un'arma che ammorba la vita erotica e nello stesso tempo annienta per sempre la loro indipendenza:"L'inibizione morale della sessualità naturale del bambino, la cui ultima tappa è una grave limitazione della sessualità genitale del bambino piccolo, rende quest'ultimo pauroso, timido, timoroso dell'autorità, ubbidiente, "buono" e pure "educabile" in senso autoritario: l'inibizione morale paralizza, perché ormai ogni impulso libero e vivo è affetto da grave paura e provoca, attraverso la proibizione del pensiero sessuale, una generale inibizione del pensiero e una incapacità critica; in breve il suo obiettivo è la creazione di un suddito che si adatti all'ordine autoritario e lo subisca nonostante la miseria e l'umiliazione"[4].  
La fobia del sesso fa parte della propaganda di qualsiasi regime.
Tante volte deriva della storia personale e, quando è espressa da autori maschi, deve essere collegata alla paura che hanno donne. Faccio un esempio che  accosta, addirittura, Aristofane a Manzoni. Nelle Rane   il personaggio Eschilo si vanta di non avere mai fatto agire nei suoi drammi Fedre né Stenebee puttane (povrna", v. 1043) e anzi di non avere mai creato una donna in amore (" ejrw'san pwvpot& ejpoivhsa gunai'ka", v. 1044). Il personaggio Euripide ribatte maliziosamente che nei drammi del rivale in effetti non c'è nulla di Afrodite (1045), ossia non c'è grazia.
Ebbene lo stesso merito, dubbio assai, se lo attribuisce Manzoni nel Fermo e Lucia :" Non si deve scrivere di amore in modo da far consentire l'animo di chi legge a questa passione. Di amore ce n'è seicento volte di più di quanto sia necessario alla conservazione della nostra riverita specie. Io stimo dunque opera impudente l'andarlo fomentando con gli scritti". A queste parole dell'autore aggiungo alcune frasi prese da una tesi di abilitazione all'insegnamento secondario di una giovane laureata della SSIS di Bologna:"Il carattere di Lucia è architettato sulla base d'un sistema che uccide il pensiero…Le sue aspirazioni, il suo voto incontrano freddezza nel lettore di cuore sano; essa appare o insipida o egoista e tutta la maestria della disposizione non basta a infondere sangue a quella creazione…Lucia fa olocausto di sé sull'altare di un sistema"[5]. 
 
Questo maniaco dell'antisesso, si noti, è un moderato e uno che si dice cristiano. Eppure il Cristo disse bene della peccatrice :"Remissa sunt peccata eius multa, quoniam dilexit multum, cui autem minus dimittitur, minus diligit " (Luca, 7, 47), le sono perdonati i suoi molti peccati poiché ha amato molto, quello invece cui si perdona meno, ama meno. E' una di quelle splendide pagine del Vangelo che sono ignorate o fraintese dai furfanti bigotti i quali adulterano le parole sante. A tale categoria appartiene "la vecchia Bovary" la quale, quando il farmacista propose di chiamare sua nipote Madeleine "protestò aspramente contro quel nome di peccatrice"[6].
 Tolstoj ci scherza sopra con intelligenza:" I libertini, queste Maddalene di sesso maschile, hanno un segreto senso della propria innocenza, né più né meno come le Maddalene femminili, e basato sulla medesima speranza di perdono:"Tutto le sarà perdonato, perché ha molto amato; e a lui tutto sarà perdonato, perché si è molto divertito"[7]. Per quanto riguarda la bellezza della figura di  Maddalena, "Maria Magdalene " (Luca, 24, 10) consiglio vivamente la visione di quella di Masaccio col manto rosso sangue, i lunghi capelli biondi e le braccia alzate a V, come a significare la prossima vittoria sopra il dolore della morte (Crocifissione del 1426, Napoli, Museo di Capodimonte). 
 La storia dolorosa di Didone riprende dall'incipit del quarto canto dell'Eneide :"At regina gravi iamdudum saucia cura/volnus alit venis et caeco carpitur igni " (vv. 1-2) ma la regina, già da tempo ferita da pesante affanno, /ravviva nelle vene la piaga ed è divorata da un fuoco nascosto.-at: la congiunzione avversativa connette il primo verso di questo canto all'ultimo del terzo  con il quale Virgilio dichiara concluso il racconto di Enea, capace, come Odisseo, di sedurre attraverso le parole il cui lungo fluire ha messo in agitazione la regina mentre ha dato finalmente quiete all'eroe che ha raccontato se stesso:"Conticuit tandem factoque hic fine quievit" (III, 718), tacque infine e posto qui un termine si riposò. Nel primi versi del quarto canto si può già leggere il preludio della fine tragica nelle "metafore comuni del sermo amatorius (ferita, fuoco, malattia, veleno): esse appartengono tutte, oltre che a una tradizione letteraria antica e diffusa, a un altrettanto antica e diffusa psicologia popolare, che interpreta l'esperienza amorosa in termini prevalentemente pessimistici, e la giudica negativamente (l'amor è, insomma, amor insanus). Al primo verso, costruito su una struttura a chiasmo (a-b/b-a), il secondo contrappone una doppia allitterazione (volnus…venis; caeco carpitur)"[8].       
"Nel libro I è soprattutto l'humanitas  che caratterizza Didone; una humanitas  divenuta carattere e sensibilità oltre che coscienza morale, consistente soprattutto nella capacità, da parte di chi ha molto sofferto, di comprendere i dolori degli altri e nella disposizione a soccorrerli"[9]. Il verso espressivo di questo tw/' pavqei mavqo" virgiliano è:" non ignara mali miseris  succurrere disco ", I, 630, non ignara del male imparo a soccorrere gli sventurati. Questa humanitas , echeggiata ancora dalle prime parole del Decameron :"Umana cosa è l'aver compassione degli afflitti"[10], non verrà contraccambiata da Enea. 
Eppure questo è uno degli insegnamenti massimi dei nostri autori e della scuola :"E infine, possiamo imparare la lezione fondamentale della vita, la compassione per le sofferenze di tutti gli umiliati, e la comprensione autentica"[11].
 "All'inizio del libro IV Didone è già immersa nella sua passione tormentosa ed è profondamente mutata; ma Virgilio non s'è preoccupato di farci seguire e capire a fondo il mutamento e dell'humanitas  del libro I è difficile ritrovare tracce nel libro IV: il nuovo punto di partenza del dramma è la sofferenza della donna ferita d'amore...la metafora della ferita per significare l'amore...proviene dalla poesia greca, specialmente da quella alessandrina, ed è spesso associata con l'immagine di Cupìdo, il figlio di Venere, che ferisce con le sue frecce. (da una freccia del dio, per es. , è ferita Medea nella scena dell'innamoramento in Apollonio Rodio III 275 sgg...L'aggettivo (saucia ) ha una sua tradizione di pathos erotico[12]", da Ennio, già citato, a Catullo cui Virgilio allude :"multiplices animo volvebat saucia curas ", 64, 250, volgeva ferita nell'animo molti pensieri affannosi. Si tratta, naturalmente, di Arianna. La Penna-Grassi menzionano pure Lucrezio:"idque petit corpus, mens unde est saucia amore "  (IV, 1O48), ed essa (la voluntas eicere , il desiderio di eiaculare dove si indirizza la dira libido , la brama funesta)  cerca quel corpo da cui la mente è ferita d'amore. All'amore in Lucrezio dedicheremo diverse pagine più avanti.
  Per quanto riguarda igni  (v. 2) "il poeta passa facilmente dalla metafora della ferita, a quella, ancora più diffusa, del fuoco...E' notevole che Apollonio Rodio nella scena dell'innamoramento (III 286 s.) unisca già le due immagini:"la freccia (scagliata da Eros) alla giovinetta bruciava sotto il cuore simile a fiamma"[13].
"Multa viri virtus animo multusque recursat/gentis honos haerent infixi pectore voltus/verbaque nec placidam membris dat cura quietem" (vv. 3-5), il gran valore dell'eroe e la grande gloria della stirpe le ricorrono al pensiero, le sembianze e le parole le stanno ficcate nel cuore e l'affanno non concede alle membra un riposo tranquillo. 
Questi primi versi, prefigurando la catastrofe finale, presentano l'amore come tormento: le sembianze e le parole di Enea, invece di procurare gioia alla regina, sono infissi nel petto come dardi dolorosi e Didone, al contrario di Enea, non trova riposo. Diverso, sproporzionato è dunque l'investimento, e questa è la prima causa che crea dolore negli amanti, tragicamente in uno dei due. Gli strumenti seduttivi di Enea, oltre la virtus raccontata e connessa pure etimologicamente al vir che ne è dotato[14], sono l'aspetto bello (voltus, non per niente Enea è figlio e protetto di Venere che lo ha pure imbellito[15]) e le parole (verba). Sono gli eterni mezzi del seduttore; gli stessi che usa Odisseo, anche lui infatti abbellito dalla sua dea che è Atena[16].
 
Pesaro 19 agosto 2023 ore 17, 45 giovanni ghiselli
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[1]L'uomo senza qualità , p. 270.
[2]Lo spazio letterario di Roma antica, 1, p. 153.
[3] Fantasia dell'inconscio e altri saggi sul desiderio, l'amore, il piacere , Mondadori, Milano, 1978. Tratto da Lunario dei giorni d'amore , pp. 427-428.
[4] W. Reich, Psicologia di massa del fascismo, p. 43.
[5] G. Morandini, La voce che è in lei, Bompiani, 1997, p. 16. La tesi è di Alessandra Neri, alumna optima .
[6] G. Flaubert, Madame Bovary, p. 74.
[7]Guerra e pace , p. 855.
[8] G. B. Conte, Scriptorium Classicum 3, p. 262.
[9]. A. La Penna-C. Grassi (a cura di) Virgilio, Le Opere, Antologia , p. 352
[10] Che nella fattispecie sono in particolare le donne innamorate.
[11] E. Morin, op. cit., p. 49.
[12]A. La Penna-C. Grassi (a cura di) Virgilio, Le Opere, Antologia , p. 364.
[13]A. La Penna-C. Grassi, op. cit., p. 365.
[14] Appellata est enim ex viro virtus: viri autem propria maxime est fortitudo, cuius munera duo sunt maxima: mortis dolorisque contemptio " (Cicerone , Tusc., 2, 43), la virtù infatti deriva da vir ed è soprattutto propria dell'uomo la fortezza i cui principali compiti sono due: il disprezzo della morte e del dolore. Enea disprezzerà sì la morte e il dolore, ma quelli dell'amante Didone.  
[15] Eneide I, 588-593.

[16] Odissea, VI, 232-235)

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