La pietas tanto celebrata da Virgilio viene smontata da Orazio quando afferma che essa, nemmeno se attestata dal sacrificio di un toro al giorno, porterà un indugio alle rughe né alla vecchiaia che incalza né alla morte invitta:"nec pietas moram/rugis et instanti senectae/adferet indomitaeque morti " (Odi, II, 14, 2-4). Parimenti nel quarto libro delle Odi il poeta avverte il nobile Torquato che né la stirpe né la facondia né la pietas potranno restituirlo alla vita una volta che lui sarà morto e Minosse avrà dato sul suo conto giudizi inappellabili:"Cum semel occideris et de te splendida Minos/fecerit arbitria,/Non Torquate, genus, non te facundia, non te/restituet pietas " (vv. 21-24).
Altrettanto inefficace si rivela la pietas dei Meli di Tucidide quando rispondono agli Ateniesi che saranno in grado di resistere alla loro superprepotenza :"o{ti o{{sioi pro;" ouj dikaivou" " (V, 104), in quanto da pii opposti a persone ingiuste.
Boccaccio nella novella di Nastagio degli Onesti fa seguire alla "commendata" pietà il contraccambio della devozione amorosa, mentre la malvagità viene contraccambiata con lo sprezzante rifiuto dell'offerta d'amore. Questa storia anzi mostra che tale crudeltà "è dalla divina giustizia rigidamente…vendicata"[1].
"Ma cos'è la pietà? Nel dialogo platonico Eutifrone, nonostante l'incalzante dialettica cui la pietà viene sottoposta, non rimaniamo soddisfatti (forse perché oggi soffriamo per la sua particolare mancanza). A partire da questa assenza attuale possiamo arrivare a dire che la "pietà" è il saper trattare adeguatamente con l'altro…nel breve dialogo Eutifrone…la pietà (to; o{sion) viene dapprima definita come rapporto adeguato con gli dèi, per essere da ultimo riconosciuta come virtù, vale a dire, un modo di essere dell'uomo conforme al giusto"[2].
Nelle Baccanti di Euripide dove il Coro nel Primo Stasimo invoca la Pietà come una divinità eccelsa che porta giù in terra le ali d'oro, perché, udite le parole empie di Penteo contro Dioniso, scenda sulla terra a punirlo:" JOsiva povtna qew'n,-
JOsiva d ' a{ kata; ga'n-crusevan ptevruga fevrei",-tavde Penqevw" ajivvvei" ;" (vv. 370-373).
Ma torniamo al pio Enea.
Virgilio, mosso a compassione della donna, e non volendo del resto incolpare il suo eroe, ritorce e fa ricadere sull'amore la maledizione indirizzata a Enea dall'amante abbandonata:"Improbe Amor, quid non mortalia pectora cogis!" (v. 412), malvagio Amore, a cosa non spingi i petti mortali!
E' un'apostrofe contro l'amore che viene messo allo stesso livello dell'auri sacra fames , la maledetta fame dell'oro che ha spinto il re di Tracia a sgozzare l'ospite Polimestore:"Quid non mortalia pectora cogis, auri sacra fames! " (Eneide , III, 56-57).
Didone fa un'ultima prova "ne quid inexpertum frustra moritura relinquat " (v. 415) per non lasciare nulla di intentato, destinata com'è a morire invano. Quello dell'amore è un piano inclinato e scivoloso che conduce inevitabilmente alla rovina (cfr. infelix, pesti devota futurae già nel I canto, v.712).
Dunque la regina manda la sorella Anna da Enea a chiedere l'ultima grazia (extremam...veniam , v. 435) di un rinvio:"tempus inane peto, requiem spatiumque furori,/dum mea me victam doceat fortuna dolere " (vv. 433-434), un tempo di intervallo chiedo, una tregua e un respiro al mio furore, finché la mia sorte insegni a me vinta a soffrire.
L'intervallo si deve comunque concedere anche ai ragazzini nelle scuole (danda est tamen omnibus aliqua remissio raccomanda Quintiliano nella sua Institutio oratoria , I, 8) ma Enea rimane inesorabile:"fata obstant ", v. 440, i destini si oppongono e la dura volontà dell'eroe si conforma alla necessità che ha le mani d'acciaio.
La sua mente rimane immota come le radici di una quercia scossa dal vento.
Didone soffre, ha visioni e ode voci che accrescono il senso di colpa, quindi decide che si è meritata la morte. Nemmeno la notte che porta riposo a tutte le creature lenisce l'affanno dell'abbandonata:"Nox erat et placidum carpebant fessa soporem/corpora per terras silvaeque et saeva quierant/aequora, cum medio volvontur sidera lapsu,/cum tacet omnis ager, pecudes pictaeque volucres,/quaeque lacus late liquidos quaeque aspera dumis/rura tenent, somno positae sub nocte silenti/(lenibant curas et corda oblita laborum[3])/At non infelix animi Phoenissa neque umquam/solvitur in somnos oculisve aut pectore noctem/accipit: ingeminant curae rursusque resurgens/saevit amor magnoque irarum fluctuat aestu " (vv. 522-532), Era notte e i corpi stanchi raccoglievano per le terre il placido sonno e le selve e le acque furiose erano tranquille, quando le stelle si volgono alla metà del loro giro, quando tace ogni campo, le bestie e gli uccelli variopinti, sia quelli che abitano per largo tratto i limpidi laghi, sia quelli delle campagne ispide di cespugli, posati nel sonno sotto la notte silenziosa (calmavano gli affanni e i cuori dimentichi delle fatiche). Ma la Fenicia infelice nell'animo non si libera mai nel sonno e non accoglie la notte negli occhi o nel petto: raddoppiano gli affanni e l'amore, insorgendo di nuovo, infuria e fluttua in un grande ribollimento di ire.
Ecco dunque il contrasto tra la quiete della natura e l'agitazione della creatura che si sente in colpa. La tragedia in effetti nasce sempre da un cozzo tra l'uomo e l'universo ai cui ritmi invece tutti devono adeguarsi. I modelli di questo notturno sono diversi.
Il più antico e suggestivo è quello di Alcmane lirico corale, di lingua dorica, del VII secolo:" Dormono le cime dei monti e i burroni/e le balze e anche le gole/e le specie degli animali quante ne nutre la nera terra/e le fiere montane e la stirpe delle api/e i mostri negli abissi del mare purpureo; /dormono le razze degli uccelli dalle ampie ali" (fr. 58 D.).
Questo frammento probabilmente faceva parte di un partenio recitato durante una festa notturna, e, da poesia di occasione, è divenuto un topos con un lungo seguito nella letteratura europea , tanto che non è il caso di fare l'elenco delle imitazioni. Si può notare che non mancano echi di formule omeriche, come del resto è di derivazione epica l'osservazione attenta del mondo della natura. Tale attenzione è conseguenza di un rapporto vivo con il mondo ed è rivolta alla quiete e all'armonia di un cosmo da cui l'uomo non è ancora escluso.
Il contrasto rilevato da Virgilio invece si trova in Apollonio Rodio quando cala la notte che porta il desiderio del sonno a tutti ma non a Medea tenuta sveglia dal desiderio di Giasone:" quindi la notte portava la tenebra sopra la terra; nel mare i marinai fissarono l'Orsa Maggiore e le stelle di Orione dalle navi, e qualche viandante e custode di porte desiderava il sonno, e un denso torpore avvolgeva una madre di bambini morti; né c'era più abbaiare di cani per la città, né chiasso sonoro: il silenzio possedeva la tenebra che diventava nera. Ma il dolce sonno non prese Medea: molti pensieri la tenevano sveglia poiché le mancava Giasone e temeva la possente forza dei tori"(Le Argonautiche , III, 744-753). Già in questo poeta alla natura forte e sana del lirico arcaico è succeduto un mondo che incornicia il dolore degli uomini. Quella madre di bimbi morti sembra anticipare vedove, orfani e simili creature che soffrono nelle poesie di Pascoli.
Nella Didone di Virgilio questo dolore indeterminato diviene odio per la vita causato dal senso di colpa. Didone infatti non "si assolve" mai (neque umquam solvitur ).
Anzi si accusa da sola: " Non licuit thalami expertem sine crimine vitam/degere, more ferae, talis nec tangere curas/ Non servata fides cineri promissa Sychaeo " (vv. 550-552), non mi è stato possibile passare la vita senza nozze e colpa come le bestie, e non toccare tali affanni: non è stata osservata la fedeltà promessa al cenere di Sicheo.
Vedremo l'antitesi di questo triste e letale "tradimento" postumo nella fabula milesia, compresa nel Satyricon (111-112), della "Matrona di Efeso", una vedovella che poche ore dopo la morte del marito si tolse le gramaglie, e tutto il resto, senza rimorsi né ubbìe, dando retta a un soldato che oltretutto dovette appendere il cadavere dello sposo amato al posto di quello di un ladrone sottratto a una croce e affidato alla sua sorveglianza.
Le bestie, rimugina Didone, non si sposano né si sentono in colpa per l'accoppiamento. "Il mos ferarum , il modo di vivere delle fiere, è richiamato non come un modo di vivere inferiore, indegno dell'uomo, ma come un modo di vivere innocente: le fiere si accoppiano liberamente, promiscuamente, ma, appunto perché non hanno legami matrimoniali stabili e non ne sentono l'esigenza, sono innocenti. E' ben probabile che Virgilio tenga presente la descrizione dell'umanità primitiva del V libro di Lucrezio (925 ss. ) e in particolare 932 volgivago (errando da ogni parte) vitam tractabant more ferarum : ma si sa quanto sia ambiguo l'atteggiamento di Lucrezio verso questo stato ferino; ferino, sì, ma più puro di quello attuale e forse anche meno infelice (opportunamente il Page confrontava anche con Ovidio, Fast. II 291 vita feris similis , che si riferisce alla vita primitiva e felice degli Arcadi). Il fraintendimento consiste soprattutto nell'interpretare more ferae come condanna morale dello stato ferino. Tale fraintendimento si trova già in Quintiliano (IX 2, 64), che, in conseguenza, era portato a sentire nel passo una contraddizione spiegabile coi sentimenti di Didone: da un lato ella si lamenterebbe del matrimonio, ma dall'altro lascerebbe prorompere il proprio sentimento e riconoscerebbe che una vita senza nozze sarebbe una vita da bestie"[4]. Quintiliano cita il v. 550 e metà del 551 aggiungendo un punto interrogativo e considerandoli un esempio della figura dell'emphasis :" Non licuit thalami expertem sine crimine vitam/degere, more ferae?" L'enfasi è spiegata:"cum ex aliquo dicto latens aliquid eruitur...Quamquam enim de matrimonio queritur Dido, tamen huc erumpit eius adfectus, ut sine thalamis vitam non hominum putet, sed ferarum " (Institutio oratoria , IX, 2, 64), quando da qualche detto scaturisce qualcosa di nascosto...sebbene infatti Didone si lamenti del matrimonio, tuttavia la sua passione prorompe là dove ella ritiene che la vita senza nozze sia non da uomini ma da bestie.
Quale che sia l'interpretazione di Quintiliano, nel testo di Virgilio il letto e la colpa sono strettamente congiunti e la presenza dell'uno significa quella dell'altra.
Ella dunque è colpevole, mentre Enea è innocente poiché obbedisce agli ordini degli dèi che vengono ribaditi da Mercurio. Il quale gli appare in sogno al “pio” eroe gli dice pure che Didone è risoluta a morire ("certa mori ", v. 564), ma questo non ha importanza né per l'uomo né per il dio. Ella infatti rivolge nel petto inganni e una sinistra scelleratezza :"illa dolos dirumque nefas in pectore versat "(v. 563). L'allitterazione in dolos dirumque sottolinea entrambe le colpe della disgraziata. Qui si vede che mentre il sogno, ossia il desiderio camuffato, suggerisce l'inganno e il misfatto, trova anche il modo di discolpare il dormiente proiettando sulla regina tutto il male che egli stesso è già preparato a perpetrare contro di lei.
Bisogna solo evitare di essere danneggiati dalla femmina "varium et mutabile semper ", v. 569. Dopo queste parole l'immagine onirica tornò nell'oscuro e ribollente crogiolo dell'inconscio, ovvero, con le parole di Virgilio:"sic fatus nocti se immiscuit atrae " (v. 570), dopo avere parlato così, si mescolò alla notte oscura. Il sogno però non si era mascherato abbastanza bene, sicché Enea si svegliò terrorizzato:"Tum vero Aeneas subitis exterritus umbris/corripit e somno corpus sociosque fatigat " (vv. 571-572), allora sì che Enea, spaventato dall'apparizione improvvisa, strappa il corpo dal sonno e incalza i compagni. A questo punto è necessaria un'occhiata alla teoria freudiana di cui mi sono avvalso per interpretare la visione onirica di Enea.
Pesaro 23 agosto 2023 ore 16, 36.
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