Volevo imparare dell’altro dal dolore e dalla bellezza. Sapevo che non avrei sofferto più di quanto necessitava al mio scopo di apprendere.
Prima del dolore però veniva la bellezza, quella corporea che ai miei occhi preponderava su tutto il resto nella compagna di viaggio.
Arrivati a Senigallia, facemmo una breve sosta in un bar dove negli anni futuri mi sarei fermato decine di volte andando e tornando dall’Ellade con gli amici o da solo. Alcuni luoghi, certi fatti la prima volta insignifìcanti, se ripetuti con il volgere delle stagioni, diventano ricchi di molti segni e assumono un’importanza storica nella nostra vita mortale[1].
Ricordo, caro lettore, l’osteria di Abony a metà strada tra Budapest e Debrecen e la prima vota che ci entrai, desolato come un mendicante nel luglio del 1966. Ero invecchiato anzi tempo e uscito dalla mia scassata Seicento Fiat, barcollavo, quasi brancolavo come un cieco, tanto che un ubriaco, forse un tedesco, si avvicinò e mi domandò: “bist du Homerus?”.
Per vincere almeno il sonno, entrai nella bettola. Volevo bere un caffè e domandare se procedevo sulla via giusta. Non ne ero sicuro. Tanto meno prevedevo che in quel locale avrei fatto una fermata trionfale, più volte tornando dall’Università estiva di Debrecen, ogni volta con una donna diversa, ma sempre bella, fine e innamorata di me.
Quella sosta sarebbe diventato un rito celebrativo di trionfi erotici.
Sperarlo quella prima volta sarebbe stata follia.
Questo è il mio mito di Abony.
La colazione a Senigallia in tanti anni seguenti adesso significa non tanto l’amore di Ifigenia ma la breve sosta rituale, anche religiosa, con i tre migliori amici della mia vita: Fulvio oggi amico celeste, Maddalena e Alessandro presente, vivo, e benefico con il vecchio amico, durante la pedalata ciclistica di questa estate 1924. Spero che non sia stata l’ultima. Per il prossimo luglio abbiamo già in programma Delfi, il Parnaso, il Cicerone e Atene.
Dopo il caffè riprendemmo le biciclette. Pregai Ifigenia di starmi davanti. Non volevo tanto risparmiare energie quanto esaminare una per una le sue belle membra in movimento, per coglierne l’esemplarità, per sottrarle alla rovina del tempo irremeabile, alle offese crudeli degli uomini, delle malattie, dei fallimenti, e, dopo tutto questo, all’annientamento della morte inesorabile.
Osservavo i movimenti che distendevano e riaccostavano le parti del corpo nel pedalare la bici. Quindi consideravo una per una le membra dove nei primi mesi del nostro amore avevo visto l’idea del bello e quella del bene incarnate: un somatizzarsi della luce solare che è nel visibile quello che è Dio nell’ intellegibile.
Ifigenia mi aveva dato una spinta sovrumana verso l’amore e l’arte. Poi quello splendore si era offuscato e l’immagine statuaria era diventata meno pulsante di grazia, di gioia, di vita, anche se materialmente era rimasta quasi perfetta.
La piccola testa, incorniciata dai capelli ondulati, sorretta dal collo lungo e sottile, oscillava sulle spalle forti e rotonde; gli occhi scuri e grandi incastonati tra gli zigomi in rilievo ogni tanto si volgevano indietro per vedere se tenevo il ritmo delle giovani gambe che spingevano i pedali con forza. Quegli occhi interrogativi, circondati dai folti capelli nerissimi, sembravano laghi montani circondati da una cupa foresta, densi di inquietanti misteri. I seni cospicui fendevano l’aria come prue fornite di aplustri e assecondavano i movimenti del busto agile senza perdere la loro compattezza armoniosa.
Avrei voluto succhiarglieli per trarne la forza di parlare a quella magnifica donna con il suo stesso linguaggio che non capivo più da quando nuovi incontri dai quali non aveva ottenuto quanto sperava le avevano torto la mente con la favella. Quella forma corporea scemata di identità diventava una statua povera di anima.
Tuttavia continuavo ad ammirarla.
La vita sottile connettendo con la sua snellezza le superbe sporgenze superiori e inferiori, le metteva in risalto; le natiche tornite e sode poggiate sullo stretto sellino di cuoio, non si schiacciavano né deformavano in nessun verso; quando ifigenia si rizzava sopra i pedali per superare le brevi salite dei ponti, la carne dei glutei, parzialente visibili sotto i calzoncini succinti, non faceva una piega. Come tornava a pedalare seduta, usava soprattutto la forza delle cosce per imprimere un’energica spinta al veicolo: allora la carne fiorita e lievitata copiosamente sopra le ossa sottili, si tendeva con vigore abbronzandosi al sole già alto nel cielo; il piccolo disco delle ginocchia connetteva e armonizzava la tensione della coscia robusta con il turgore del forte polpaccio in deciso rilievo sopra la caviglia snella. Questa trasmetteva la spinta di tutta la muscolatura complessa ai piccoli piedi calzati di scarpette rosse.
Bologna 30 ottobre 2024 ore 17, 27 giovanni ghiselli
p. s
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[1] Ricordo, lettore, l’osteria di Abony a metà strada tra Budapest e Debrecen e la prima vota che ci entrai, desolato come un mendicante nel luglio del 1966. Ero invecchiato anzi tempo e uscito dalla mia scassata Seicento Fiat, procedevo come un cieco, tanto che un ubriaco, forse un tedesco, si avvicinò e mi domandò: “bist du Homerus?”.
“Per vincere almeno il sonno, entrai nella bettola. Volevo bere un caffè e domandare se procedevo sulla via giusta. Non ne ero sicuro. Tanto meno prevedevo che in quel locale avrei fatto una fermata trionfale, più volte tornando dall’Università estiva di Debrecen, ogni volta con una donna diversa, ma sempre bella, fine e innamorata di me.
Quella sosta sarebbe diventato un rito celebrativo di trionfi erotici.
Sperarlo quella prima volta sarebbe stata follia”.
Questo è il mio mito di Abony.
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