Entrai in camera mia. Erano circa le sette. Poco dopo arrivò Ifigenia, assai complimentosa. Probabilmente aveva pensato di essere stata troppo scostante. Mi faceva carezze e moine straordinarie. Troppe, e, nel contesto di quella giornata, stonate. Alle sette e mezzo scendemmo a cenare. La ragazza continuava a ripetere:"Quanto sei bello, gianni, quanto sei bravo!". Aspettai che tacesse un momento, quindi le domandai:"Perché sei venuta in montagna senza intenzione di fare niente con me: né parlare sul serio, né sciare, né passeggiare, né amoreggiare?" Capì che non poteva continuare a mentire e rispose:"Non lo so. Forse per abbronzarmi. E' vero che non ho più tanta voglia di stare con te, non quanta ne avevo una volta, e mi spiace". La osservavo con calma. Ne fu incoraggiata. Continuò:"I miei sentimenti verso di te adesso non li capisco. Dammi del tempo; anzi, facciamo una cosa. Finita la cena, saliamo in camera mia. Quindi torniamo a Bologna, e là, per due settimane, tu non mi cerchi, nemmeno al telefono. Io devo pensarci bene a quello che sento, alla nostra situazione, a noi due. Prima non ho voluto stare con te siccome ero stanchissima e tutta indolenzita per le cento o mille cadute della mia disastrosa discesa. Quando ho fatto la doccia, mi sono vista piena di lividi. Ma non è solo per lo sfinimento e il pestaggio della discesa da te imposta che non ho voluto fare l’amore. Credo di essere venuta qua con l'intenzione di vedere se tu mi vuoi bene, se io te ne voglio; insomma per capire qualcosa di noi. Io non sono più sicura di niente. Ora per esempio mi è venuta una gran voglia di farlo". Sembrava sincera. Probabilmente lo era. Le luccicavano gli occhi mentre mi fissava. Salimmo in camera sua. La chiave chiudeva. Lo facemmo una volta, con gusto e allegria. Dopo l'orgasmo disse:"Lavati Gianni, facciamolo ancora". Andai nel bagno contento. "Come ai bei tempi", pensavo. Tornai presto nel letto dove lei aspettava fissando il soffitto con un sorriso. Io però non ebbi una seconda erezione decente. Priapo mi aveva abbandonato. Dopo tre o quattro tentativi falliti, Ifigenia mi scostò con una mano, e, senza guardarmi, esclamò con dura ironia:"Poi sono io quella che ne ha poca voglia! Diciamola una buona volta questa verità!". "Sì, capita pure a me di non avere tanto desiderio quanto una volta-risposi-, ma generalmente tu sei più fredda di me. L'anno scorso il meno entusiasta ero io; quest'anno sei tu". "Già, oramai sono due anni che le cose non vanno bene tra noi", confermò. Allora dissi:" Adesso partiamo. A Bologna proveremo la separazione che hai proposto tu poco fa. Per due settimane non ti cercherò. Faremo in modo di non incrociarci nemmeno per strada. Dopo questi quindici giorni tu, però, mi dici con tutta franchezza e chiarezza se vuoi restare con me. Io lo vorrei, nonostante questa sera sia rimasto al di sotto della nostra sufficienza. Io ambisco a restare con te. Non è soltanto dal numero degli orgasmi che si misura la volontà di stare insieme". Ifigenia annuì. Ci vestimmo, prendemmo i bagagli già preparati prima di cena e scendemmo. Il proprietario dell'albergo, quando andai a pagare il conto, disse: "Torni a Bologna tanto presto? Io, con una femmina tanto giovane e bella starei via almeno due anni". Non si vedeva quanto male andassero le cose tra noi. Meglio così: non affliggevamo altri che noi stessi. Durante il viaggio scherzammo sulla nostra tragedia; forse ci aveva rallegrati la decisione presa di non vederci per quindici giorni. Arrivati sulla tangenziale, poco prima di separarci, ancora una volta e forse per sempre, recitammo un vicendevole atto di dolore:"Mio Dio, mi pento e mi dolgo con tutto il cuore...". Davanti alla porta di casa sua le ricordai il nostro patto, onesto e chiaro. Rimasto solo, nel letto, non ero del tutto infelice.
La mattina seguente andai a scuola con il proposito di non incontrarla. Invece uscito da scuola durante l’intervallo la vidi nel solito bar di via Nazario Sauro. Era con un compagno della scuola di recitazione che conoscevo, siccome era venuto più di una volta a casa mia, con lei, a prendere appunti su Ibsen. Era un giovane taciturno, occhialuto, foruncoloso nel volto bruno. Ifigenia quella mattina lontana era così splendida che ne provai un'impressione di dolore. Mi scoccò un sorriso luminoso con il quale mi inflisse una ferita; mi sembrava che volesse significarmi:" Tu oramai sei fuori dalla mia vita, e io sto bene.". Sorrisi anche io, cercando di non lasciare vedere l'affanno interno, e bevvi il caffè senza dire parola. Ero molto turbato: le gambe tremavano, e il cuore in tumulto balzava dentro il petto. L'avevo vista così miticamente bella, radiosa e lontana, che l'amore di lei, mi sembrava già una favola antica. Da raccontare.
Durante l'ultima ora, verso mezzogiorno, mi affacciai all'alta finestra che risponde a un angusto cortile dove avevo parcheggiato la bianca Volkswagen. Guardai giù, nelcupo pozzo dove il sole non arriva che in giugno. C'era lei. Irradiava bellezza dal volto abbronzato. In fondo a quel buco, la vidi brillare di candida luce. Era seduta sopra una vespa con gli occhi chiusi e la faccia girata verso un raggio riverberato da una finestra lontana e poco pulita. Quel riflesso opaco diventava un barbaglio potente dopo essersi vivacizzato cadendo nel viso della ragazza già abbronzata dalle nevi scintillanti del Lusia. Parlava con uno seduto accanto a lei, tenendo le spalle appoggiate su quelle di lui. Sembrava soddisfatta. Forse l'avevo perduta. Dopo la scuola, salii sul monte Donato. Volevo rivisitare una stradina sghemba e romita, dove due estati prima avevamo fatto l'amore scostando spine, schiacciando insetti, facendo fuggire le lucertole che saettavano via come baleni verdi, e interrompendo lo strepitoso fragore delle cicale pazze di sole. Stavamo stretti in abbracci dolcissimi, al pari di uccelli dentro i cespugli1 Dopo, ci rotolammo giù per un pendio, tenero di erba alta e profumata Quando ci ritrovammo in fondo al declivio, fermi e ancora avvinghiati, le accarezzai i capelli violacei versati sulla vegetazione, le baciai le labbra ardenti, vermiglie come i papaveri, le guardai le iridi nere come le more, le pupille scure, brillanti di gioia nella gran luce pomeridiana, e mi sembrò di tenere abbracciata la terra con il meglio della sua vita. Il 23 marzo 1981,di quella intesa con la ragazza, di quella felicità naturale, non era rimasto niente.
Il colpo di scena
Il 24 era un martedì, giorno nel quale le mie lezioni cominciavano soltanto alle undici. Perciò potei dormire a sazietà: fin oltre le nove, come chi ha la coscienza tranquilla. Era anche una bella giornata di sole già caldo, precocemente quasi maturo, per cui potei andare a scuola in bicicletta, e non infagottato. Insomma ero di buon umore, come se le cose mi andassero bene. Dopo tutto,
pensavo, l'interruzione o anche la fine del rapporto poteva essere una cosa buona: sarei diventato libero di dedicarmi a me stesso, potevo farla finita con tutti i pensieri e le azioni senza costrutto alcuno, prive di soddisfazione mentre cercavo invano di piacere a una donna ingrata, incapace di trattenere e valorizzare ogni dono. Avrei avuto tempo per leggere, onde non perdere, oltretutto il resto, la fondamentale identità di insegnante bravo. Quindi avrei cominciato a scrivere l'opera che dovevo a me stesso e all'umanità. Così avrei pure recuperato l'autocompiacimento, l'amor proprio che avevo smarrito versandolo nella fanciulla dall'anima ingrata, siccome priva di fondo, come le brocche delle spose omicide 2.
Arrivai davanti al liceo quando suonava l'inizio della ricreazione. La campana si sentiva anche da fuori le mura del tetro edificio, illuminate del resto e rallegrate dal sole. Decisi di non entrare prima che l'intervallo fosse finito, per non correre il rischio, di essere interpellato e disturbato da qualche importuno molesto. Aspettai di fianco al portone d'ingresso con la Faccia girata verso la santa fiamma che nutre la vita. Ero contento siccome avevo trovato la forza di stare solo. Mi mossi dopo avere sentito tutto il suono che segnava l'inizio della quarta ora. Ma come posi piede sul primo gradino di accesso al corridoio, sentii una voce che gridava il mio nome con forza. Non potei fare a meno di fermarmi, girarmi e alzare gli occhi. Era una ragazza che voleva dirmi qualcosa. Era lei alle mie spalle. Sì era Ifigenia che mi chiamava, un'altra volta, e correva ancora verso di me. Arrivò trafelata, come nel giorno del primo incontro. "Gianni -disse- ti stavo cercando. Devo parlarti”. Come due anni e mezzo prima. L'espressione del volto era commossa ma allegra. "Adesso ho lezione", risposi. Ifigenia non si lasciò fermare. :"Gianni, io ti amo. Voglio stare con te. In questi tre giorni mi sei mancato tanto; sempre mi sei mancato. Ci vediamo all’una”. Mi salutò non senza ripetere che aveva capito di amarmi, e ne era sicura. Si allontanava verso via Ugo Bassi facendo piccoli balzi, come una puledra di fianco alla madre in un pascolo luminoso e fiorito. Era certa che non l'avrei respinta. Sapeva bene che mi tenevo sulle mie solo perché volevo sentirla parlare ancora, prima di farle vedere quanto ero contento e fiero del fatto che aveva deciso di tornare con me. Oh sì, ne ero felice: poco prima, a furia di arzigogoli, avevo solo messo insieme una misera consolazione dello strazio di essere stato piantato da una femmina umana siffatta. Dopo mesi di dolorosa incertezza, aveva detto che voleva restare con me. Però non sapevo per quali motivi né con quali intenzioni. Finite le ore di scuola la vidi corrermi incontro: l’amabile seno, sotto la maglia di lana sottile, rosa, aderente, balzava in leggero anticipo rispetto al resto del corpo. Era splendidissima la ritrovata compagna. Non era Nemesi, era Afrodite: aleva la pena soffrire ancora grandi dolori per una giovane donna fatta così.
Note
1 Cfr. Euripide, Baccanti, vv. 957-958 :"Kai; mh;n dokw' sfa'" ejn lovcmai" o[rniqa" w{"-levktrwn e[cesqai filtavtoi" ejn e{rkesin", e mi sembra che esse, come uccelli tra i cespugli, siano avvinte nei dolcissimi lacci dei letti.
2 Le Danaidi.
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Già docente di latino e greco nei Licei Rambaldi di Imola, Minghetti e Galvani di Bologna, docente a contratto nelle università di Bologna, Bolzano-Bressanone e Urbino. Collaboratore di vari quotidiani tra cui "la Repubblica" e "il Fatto quotidiano", autore di traduzioni e commenti di classici (Edipo re, Antigone di Sofocle; Medea, Baccanti di Euripide; Omero, Storiografi greci, Satyricon) per diversi editori (Loffredo, Cappelli, Canova)
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giovedì 17 ottobre 2024
Ifigenia CCV. Il ritorno a Bologna e il colpo di scena.
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