L’ijsonomiva. Erodoto.
L’uguaglianza politica piuttosto che da dhmokrativa è significata dalle parole ijsonomiva e ijsovthς.
Infatti dhmokrativa e ijsovthς (o ijsonomiva) non sono precisamente la stessa cosa.
“Democrazia era il termine con cui gli avversari del governo “popolare” definivano tale governo, intendendo metterne in luce proprio il carattere violento (kràtos indica per l’appunto la forza nel suo violento esplicarsi). Per gli avversari del sistema politico ruotanti intorno all’assemblea popolare, democrazia era dunque un sistema liberticida (…) la democrazia è un bersaglio polemico costante, nel caso della Repubblica di Platone addirittura il bersaglio di una feroce polemica (…) E’ nel fuoco di questi problemi che nasce la nozione-e la parola-democratìa, a noi nota, sin dalle sue prime attestazioni, come parola dello “scontro”, come termine di parte, coniato dai ceti elevati ad indicare lo “strapotere” (kràtos) dei non possidenti (dèmos) quando vige, appunto, la democrazia”[1].
Aristofane denuncia la prepotenza della democrazia identificata con la demagogia. Cfr. per esempio la critica al tribunale popolare dell’Eliea nelle Vespe. Ma vedi anche i Cavalieri del 424 poi le Vespe del 422 con gli attacchi al demagogo principe Cleone.
Ora i conservatori criticano la petulanza dei sindacalisti e tacciano di populismo ogni opposizione di piazza e quella- rarissima avis- rimasta in parlamento.
Torniamo a Erodoto. Otane dunque, durante il dibattito costituzionale, contrappone la monarchia, che di fatto è una tirannide, al potere del popolo: questo prima di tutto ha il nome più bello: " ijsonomivhn", poi non fa nulla di quanto perpetra l'autocrate: infatti nella democrazia le magistrature sono esercitate a sorte e il dh`mo~ ha un potere soggetto a controllo:" uJpeuvqunon de; ajrch;n e[cei" (III, 80, 6).
Polibio teorizzerà la degenerazione inevitabile della monarchia in tirannide.
Tra i sette nobili Persiani, quando ebbero parlato anche Megabizo, che propugnava l'oligarchia, quindi Dario, il quale sosteneva la monarchia e l'inevitabilità della degenerazione sia della democrazia sia dell'aristocrazia (III, 82) verso le rispettive forme deteriori, prevalse quest'ultimo con l'argomento che a loro la libertà era venuta da un monarca.
Allora Otane non entrò in lizza per diventare re, dicendo parole belle assai, una specie di manifesto dell'antisadismo:"ou[te ga;r a[rcein ou[te a[rcesqai ejqevlw" (III, 83, 2), infatti non voglio comandare né essere comandato.
Il potere, tanto quello inflitto, quanto quello subito, per Otane non è auspicabile.
L’ijsovth" come legge cosmica e il rifiuto dell’eccesso. (Euripide, le Fenicie)
L’uguaglianza (ijsovthς) come legge cosmica nelle Fenicie di Euripide.
Nelle Fenicie troviamo un contrasto fra Eteocle che sostiene il proprio potere assoluto, e Giocasta che gli fa notare la presenza dell’uguaglianza nel cosmo.
"Eteocle incentra tutto il suo elogio della tirannide sul "di più"[2], Giocasta obietta:"tiv d j e[sti to; plevon; o[nom j e[cei monon:/ejpei; tav g j ajrkounq j iJkana; toi'" ge swvfrosin", vv. 553-554, che cosa è il più? ha soltanto un nome; poiché il necessario basta ai saggi.
Le ricchezze non sono proprietà privata dei mortali, noi amministriamo quelle ricevute dagli dèi: quando vogliono, a turno, ce le portano via di nuovo.
Giocasta propugna l'uguaglianza :"kei'no kavllion, tevknon,-ijsovthta tima'n" (Fenicie, vv. 535-536), quello è più bello, figlio, onorare l'uguaglianza; infatti essa è legge cosmica:"nukto;" t j ajfegge;" blevfaron hJlivou te fw'"-i[son badivzei to;n ejniauvson kuvklon" ( vv. 543-544), l'oscura palpebra della notte e la luce del sole percorrono uguale il ciclo annuo. Ora se il sole e la notte si assoggettano a queste misure[3], domanda la madre, tu non tollererai di avere una parte uguale del palazzo (su; d j oujk ajnevxh/ dwmavtwn e[cwn i[son, v. 547) e di attribuire l'altra a tuo fratello? E dov'è la giustizia? Perché tu la tirannide, un'ingiustizia fortunata (tiv th;n turannivd j, ajdikivan eujdaivmona, v. 549), la onori eccessivamente e pensi che sia un gran che?
Credi che essere guardati sia segno di valore? E' cosa vuota (kenovn, v. 551) di fatto. O vuoi avere molte pene con molte cose nella casa? -
“Euripide fa pronunciare a Giocasta un atto di fede nell’organizzazione democratica ed egualitaria della città, messa a repentaglio dall’incontrollata filotimiva di chi cerca il potere personale anche a scapito del bene collettivo…Se Eteocle preferirà il potere, esporrà Tebe al rischio della distruzione e le sue concittadine a quello della schiavitù e della violenza. La ricchezza che sta tanto a cuore a Eteocle si rivelerà così un plou'to~ dapanhrov~, una “ben dispendiosa ricchezza” (v. 566)…Le parole conclusive di Giocasta saranno suonate nel teatro di Dioniso come un accorato monito a una generazione di politici ateniesi così vicini ai due fratelli del mito: mevqeton to; livan, mevqeton (“abbandonate l’eccesso, abbandonatelo”, v. 584).
Anche oggi i vari moderati accusano i loro oppositori di essere seguaci e fautori dell’eccesso (to; livan).
Euripide rivolge è un monito a entrambe le parti: “alla parte oligarchica, perché si renda conto che la ricerca del potere porta alla rovina della città; alla parte democratica, perché capisca che anche con la ragione dalla propria parte non si può praticare la violenza all’interno della polis senza danno per tutti. Non c’è nulla di peggio della somma di due ajmaqivai contrapposte”[4].
Le Fenicie vennero scritte poco dopo il colpo di Stato oligarchico (411), ma il rifiuto dell’eccesso e della dismisura è una posizione topica molto diffusa.
Bologna 22 ottobre 2024 ore 19, 04, giovanni ghiselli
p. s.
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[1] L. Canfora, La democrazia. Storia di un’ideologia , p. 15 e p. 33.
[2]Lanza, op. cit., p. 53.
[3] Il consiglio di seguire la natura, in particolare osservando l'alternarsi del dì e della notte, per prendere decisioni equilibrate lo dà anche Seneca a Lucilio "cum rerum natura delibera: illa dicet tibi et diem fecisse et noctem" (Ep. 3, 6), prendi decisioni osservando la natura: quella ti dirà che ha fatto il giorno e la notte.
Inoltre: i mortali non possiedono le ricchezze come cose proprie, esse sono degli dèi e noi le amministriamo ( Euripide, Fenicie, v. 555-556). Seneca echeggia questo topos in Ad Marciam de consolatione (del 37d.C.) :"mutua accepimus. Usus fructusque noster est" (10, 2), abbiamo ricevuto le cose in prestito. Nostro è l'usufrutto.
[4] E Medda, (a cura di) Euripide, Le Fenicie, p. 46.
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