Alle tre del pomeriggio partimmo. Arrivammo a Bologna all'ora di cena e andammo a mangiare da Lamma. Quando ci fummo seduti entrò Mario , una strana, nota figura di professore anziano e acciaccato. Un uomo sofferente in quanto convinto di avere sciupato le proprie capacità di scrivere. Io al genio inespresso non credo, altrimenti dovrei dolermi di essere un Coppi o uno Zatopek mancato. Sono sicuro che un grande talento, se c'è, trova il modo di manifestarsi. Quel vecchio amico era comunque e persona sensibile, intelligente a suo modo, e colta, sebbene una malattia, dice lui, lo avesse inceppato a vent'anni, impedendogli di fare le letture che avrebbe dovuto per coltivare il suo talento. Da Omero a T. S. Eliot, tutti gli scrittori classici e neoclassici avrebbe voluto studiare. Quando ebbi preso una certa domestichezza con i Greci e i Latini dopo due anni che li insegnavo al liceo, una volta gli offrii un aiuto per riprenderne la lettura diretta, ma egli rifiutò con voce alta e sdegnata:"Che cosa vuoi che me ne faccia di Omero, Eschilo, Sofocle, Euripide, Platone, Catullo, Orazio, Virgilio, Sallustio e Tacito soltanto? Io voglio leggere tutto, tutto, assolutamente tutto, oppure assolutamente nulla!". Così non se ne fece niente. Tale era il tipo. La gente comune, usuale, quella che può ritenersi normale data l'immensa volgarità dell'epoca, lo disprezzava e canzonava; alcuni lo maltrattavano anche. Io, oltre rispettarlo siccome infelice, lo trovavo interessante, talora perfino educativo, quasi sempre quale contromodello del resto, e per tempi limitati, in quanto temevo il contagio della debolezza sua. Comunque, finché lo frequentavo, ero gentile e disponibile ad ascoltarlo con attenzione: il vecchio sentiva la necessità di raccontare la pena del suo fallimento. Una volta d’estate lo portai a Pesaro, a casa mia. La zia più attempata e autoritaria quando fu partito mi disse: “è possibile che tu non frequenti mai una persona normale? “Quelli che a te sembrano normali sono gli usuali, i conformisti ordinari che a me non piacciono. I miei amici sono degli straordinari riusciti o falliti: da loro imparo di più”. “Basta che tu sia contento te, però non portarli più in casa nostra, almeno finchè sarò viva io”. Ora mi dispiace che questa e le altre zie non ci siano più. In ogni caso mi hanno aiutato e io chiedo ancora il loro aiuto nelle mie orazioni devote e commose. Appena arrivato a Pesaro, Mario volle andare a nuotare. Dopo qualche bracciata, tornò a riva e svenne. Disse che non mangiava da due giorni. Quella sera di fine vacanze pasquali dunque, entrato da Lamma, si diede a girare tra i tavoli con aria esplorativa e implorante. Guardava se conosceva qualcuno per sedersi vicino e parlare. Era alto, di età non definibile, con una curvatura strana in cima alla spalla sinistra. Le labbra esangui e semiaperte lasciavano intravvedere una chiostra di denti radi, sbrecciati; lo sguardo degli occhi grandi, scuri conservava un bagliore fioco e intermittente. Con una mano si appoggiava su un bastone nodoso, con l'altra di tanto in tanto si toccava la schiena gemendo. Camminava in maniera maldestra: barcollava e sembrava sempre in procinto di stramazzare sul duro pavimento con tutta la sua affaticata lunghezza; si piegava su un lato, poi si raddrizzava di scatto, come se un attimo prima di ogni caduta dolorosa, forse letale, con riuscisse, con uno sforzo titanico, a trovare l’energia necessaria per rialzarsi e procedere lungo il suo faticoso cammino. Sembrava un eroe bersagliato dai colpi di un destino tenacemente ostile, eppure incapace di averla vinta su una pena così antica e tanto temprata da infinite sciagure. Una sera d’inverno uscìi da Lamma con lui e qualcun altro. Nevicava, camminavamo adagio, appoggiandoci ai muri per non scivolare e mi sembrava che interpretassimo la disfatta dei tedeschi a Stalingrado. L’amico Claudio disse: seguiamo Von Marius versi resa, così forse ci salveremo. Mario lo sentì e ne rise. Era comunque una cara persona. Temo che non ci sia più, siccome sono passati venti anni dacché non lo incontro. Come ci vide quella sera di primavera, si mosse verso di noi: sapeva che non sarebbe stato respinto né trattato con scortesia. Può sembrare ovvio: il minimo dovuto a un infelice, eppure a Bologna in tanti gli davano noia in molte maniere. Alcuni lo umiliavano, altri lo picchiavano addirittura. Fin da quando ero matricola l'avevo notato quale "ecce homo" vilipeso e deriso negli ambienti accademici e studenteschi della città. Già in quel tempo lontano provai compassione per lui e sdegno per i suoi persecutori sadici e vili: goliardi e fannulloni vari che bivaccavano presso l'Università. Anche i camerieri di Lamma del resto non gli risparmiavano dosi di motteggi e gomitate. Come fu giunto vicino al nostro tavolo, l'infelice mi salutò, poi, invitato, sedette. Sebbene digiuno, non volle mangiare né bere. Lo feci parlare, ponendogli diverse domande, poiché sapevo che di questo aveva bisogno, e anche perché da lui potevo imparare qualcosa. Le sue frustrazioni di fondo erano due: non avere scritto un capolavoro e non avere mai baciato una donna. Del resto non sapeva che cosa avrebbe dovuto scrivere e quale femmina umana avrebbe voluto baciare. Disse che quando era studente nel Liceo classico Ludovico Ariosto di Ferrara, in italiano scritto superava di gran lunga Bassani:"Altro che Giorgio ero bravo a scrivere io!" "Poi che cosa è successo?" domandai incuriosito. "A vent' anni mi è caduta la mannaia sul collo". Proseguì Accusando, oltre le persecuzioni razziali, i parenti che non gli volevano bene e non lo hanno aiutato. Tutto questo gli aveva spezzato il talento e la vita. Il vecchio amico non assolse neppure se stesso: il colpo di grazia se lo era dato da solo. "Sono io l'omicida di quest'uomo" disse indicando la propria persona addolorata con dito tremante. Si era ucciso moralmente quando aveva messo in mani cattive il potere sulla propria persona. "Tu non farlo mai. Mai!", gridò con tono ieratico, mentre mi fissava con occhi ispirati. Trasfigurato, sembrava più grande a vedersi, e parlava come ispirato dalla potenza molto vicina di un dio, al pari della Sibilla cumana 1. Qualunque sventura possa ti possa mai capitare, tu non tradire te stesso e non cedere ai mali, anzi procedi più audace”2 Ricordava l’Eneide e aveva ragione. Lo capivo bene. Mario è stato un maestro per me. Non glielo dissi, siccome non mi avrebbe ascoltato, poiché la disgrazia vera di tali infelici è la perdita dell’attenzione per ogni cosa e persona tranne il proprio dolore. Anche io, vent'anni prima, avevo fatto uno sbaglio quasi mortale. Invece di potenziare le mie qualità tenendo gli occhi aperti sul mondo, mi ero lasciato avvilire da persone di formato men che mediocre. Mi giudicavano brutto e incapace. In effetti di una vita da servo e ripetitore dei luoghi comuni del borgo, non sono mai stato capace. Potevo fare di più e di meglio, ma non ne avevo il coraggio. Ero diventato brutto poiché non credevo in me stesso. Poi, nel 1966, ho incontrato Fulvio che mi ha aiutato, poi nel 1968 Elena di Praga, quindi nel 1971 Helena Augusta che mi ha elevato al suo livello. Ma questo l’ho già raccontato. Dopo il liceo, avevo perso la soddisfazione, l’orgoglio di essere raro, la coscienza di essere diverso in meglio dalla gente usuale. Questo bisogna insegnare ai ragazzi emarginati e maltrattati perché sono rari. Di recente un quindicenne si è ucciso. La sfiducia che mi rendeva brutto e infelice intorno ai ventanni partiva da un indebolimento mio che incoraggiava la malevolenza di quanti avevano sofferto i miei successi sportivi e scolastici. Mi massacrarono finché lasciai fare. Mi addentarono, mi squarciarono, come una muta sbrana l'animale più forte quando sanguina e perde vigore. Ma dopo un paio di anni ho reagito, con uno sforzo titanico mi sono rialzato e ho cominciato a recuperare le forze per risalire sopra la china della sventura. Mi aiutò il grande movimento del '68. Viaggiai, mi provincializzai, incontrai qualche persona per bene: diverse donne e Fulvio, l’amico più caro che ora mi protegge dal cielo. Che Dio benedica i miei salvatori, insieme con tutti i miei alunni, poiché la salvezza definitiva venne dal rapporto vivo con loro. Dopo il primo anno di insegnamento avevo recuperato del tutto il favore di me stesso, e l'autogestione della mia vita.
L'amico anziano invece si accusava da solo di avere sotterrato i suoi talenti 3, commettendo il maximum scelus: quello contro sé stesso.
Mi faceva bene incontrarlo e ascoltarlo. Mi metteva in guardia contro le mie debolezze. Mario dunque parlava ricordando i suoi martìri che mi rendevano triste e pio. Ifigenia invece non lo ascoltava né gli rivolgeva lo sguardo. Quanto diceva non la interessava: lei non temeva di sciupare i propri talenti. Guardava in giro cercando di farsi guardare. Io ne soffrivo e la disprezzavo. Trovavo più interessante e pregevole il vecchio. Mi venne in mente una sera del giugno del '78. Stavo cenando da Lamma con Luciana l’ex scolara diventata ventenne, quando entrò Mario con aria implorante, ci vide e, invitato, venne a sedersi con noi. La ragazza lo ascoltò con attenzione, lo guardò con simpatia, gli chiese di rimanere quando lui accennò ad alzarsi; poi, come fummo soli, disse che quell'uomo le aveva fatto compassione: che bisognava aiutarlo. Poi ci pianse. E' di un'altra stoffa spirituale l’alumna optima e amica carissima. Sa provare pietà in quanto è dotata di immaginazione. Finita la cena, riportai Ifigenia nella sua dimora e tornai a casa mia. Scrissi qualche parola sul viaggio. Mi tormentava il pensiero che avrei potuto fallire i miei bersagli, l'arte e l'amore, come Ludwig II, re di Baviera e come Mario, ebreo di Ferrara. Andai a letto promettendomi l'amore, necessario a me stesso, e l'opera letteraria che dovevo all'umanità. Però prima bisognava conoscere una donna di grande formato spirituale e trovare qualcosa da raccontare che fosse tanto meravigliosa da interessare molte persone, da educarle e aiutarle.
Note
1 Cfr. Virgilio, Eneide, VI, 45 sgg. Si era giunti alla soglia, quando la vergine:"è il momento 45 di interrogare il destino", dice, "il dio, ecco il dio!" . E a lei che diceva tali parole davanti all’ingresso, all'improvviso, non il volto, non il colore rimase lo stesso non composte le chiome: ma il petto è ansimante, e il cuore estasiato è gonfio di sacro delirio; è più grande a vedersi e non manda suoni mortali, poiché è ispirata dalla potenza 50 già molto vicina del dio. maiorque videri/nec mortale sonans, adulata est numine quando-iam popiore dei.
2. Cfr. Virgilio Eneide VI, v. 95: Tu ne cede malis, sed contra audentior ito. Mi sono ripetuto questo verso ogni volta che le cose mi andavano male. Un esempio: quando mi retrocessero al ginnasio, mi dissi: devo insegnare all’Università e diventare maestro di un popolo intero parlando e scrivendo.
3 Cfr. Vangelo secondo Matteo, 25, 25:"et timens abii et abscondi talentum tuum in terra", ebbi paura e andai a nascondere il tuo talento sotto terra.
Bologna 22 ottobre 2024 ore 17, 48 giovanni ghiselli p. s. Statistiche del blog Sempre1631366 Oggi130 Ieri249 Questo mese6594 Il mese scorso9470
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Già docente di latino e greco nei Licei Rambaldi di Imola, Minghetti e Galvani di Bologna, docente a contratto nelle università di Bologna, Bolzano-Bressanone e Urbino. Collaboratore di vari quotidiani tra cui "la Repubblica" e "il Fatto quotidiano", autore di traduzioni e commenti di classici (Edipo re, Antigone di Sofocle; Medea, Baccanti di Euripide; Omero, Storiografi greci, Satyricon) per diversi editori (Loffredo, Cappelli, Canova)
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martedì 22 ottobre 2024
Ifigenia CCXIV. A Bologna da Lamma. Capitolo dedicato all’amico Mario.
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