domenica 13 ottobre 2024

Ifigenia CLXXXIX Il viaggio di ritorno da Moena. Gli eventi confatali.

 

 

Dopo cena partimmo diretti a Bologna.

Durante il viaggio l'accordo tra i demoni nostri si ruppe, senza una causa precisa; forse perché uno dei due non è buono, oppure perché sono cattivi entrambi, in maniera diversa per giunta; fatto sta che litigammo di nuovo, e i

benefici di quel pomeriggio fatato andarono in fumo. Mentre guidavo

pensavo alle prossime lezioni nella quarta ginnasio, non troppo

stimolato invero; quindi, per necessaria compensazione, meditavo

sull'opera letteraria che avrei iniziato presto: un dramma, o un

romanzo  con due amanti tragicamente travagliati e ostacolati da

iniquità sociali, nevrosi  personali e contrasti reciproci, ma alla fine

trionfanti nel sole dell'Amore e dell’ Arte.

Mi compiacevo di tale disegno e di tanto ottimismo. Bisognava però trovare le forme e antivedere l'esito della nostra esperienza: in quale modo

avremmo dovuto stimolarci noi due per arrivare allo scopo

grandioso di spingere un popolo intero al bello morale? La

compagna di viaggio sonnecchiava sebbene non fosse tragicamente

tardi. Di sua iniziativa non diceva parola, e, quando le domandavo qualcosa,

rispondeva, or sì or no, a monosillabi. Alla lunga mi diede fastidio,

e un poco alla volta i sentimenti amorosi si dileguarono lasciando posto al risentimento. Mi venne in mente un altro viaggio, fatto in tempi meno malsani: allora la ragazza mi aveva raccontato che sua madre,

durante le ore di guida del marito sui lunghi percorsi autostradali,

invece di aiutarlo a vincere il sonno nemico parlando con lui,

dormiva, o fingeva di farlo, poiché non aveva niente di buono da


dirgli. La stessa scappatoia prendeva la madre mia  quando vedeva

mio padre, vago di ciance, protendere il braccio destro sopra il volante  con atteggiamento elocutorio. Al pensiero che lo squallore parentale si ripetesse tra noi, mi venne l'angoscia. Volli provare se tale pena fosse scaturita

solo dagli antichi dolori miei, o se avesse una causa nella realtà

che stavamo vivendo. Domandai a bassa voce:"Dormi tesoro?"

"No-rispose con aria stanchissima e pigra-, ma ho tanto sonno".

"Ho sonno anche io-ribattei, quasi polemicamente-, ci facciamo

compagnia per un poco?".

"No: ho troppo sonno. Ti prego, lasciami dormire". Non le chiesi

altro; avevo già provato a me stesso che la mia angoscia era stata

causata dal solito suo atteggiamento da  parassita egoista: se eravamo

entrambi assonnati, non capivo perché io dovessi vegliare sgobbando e lei

dormire, o fingere di dormire. La bella ragazza, la necessaria

Musa, davanti a me si toglieva ancora le mutande odorose, grazie

a Dio, però con me non voleva parlare più, poiché non mi voleva bene.

Questo pensiero, dopo le radiose speranze del pomeriggio, mi

rodeva di nuovo.

"E' il suo egoismo colossale, schifoso, a guastarmi l'umore, a

darmi l'angoscia, a corrompere ogni gioia mia che non condivide,

come non vuole collaborare a niente di serio e impegnativo".

Ero pieno di risentimento. Alla stazione Affi, lago di Garda sud ,

mi fermai e scesi per un caffé, senza invitarla. Quando fui tornato ed ebbi

ripreso a guidare, quella doveva avere capito qualche cosa

del mio stato d'animo, preoccupandosene, per sé naturalmente;

fatto sta che alzò la testa e mi chiese:"Allora di cosa vuoi che

parliamo?"

"Del mio capolavoro", dissi con tono secco e astioso. Poi tacqui.

Ma dopo qualche secondo, siccome la Musa nemica non sembrava

intenzionata a fare altre domande, aggiunsi una provocazione che

era anche una mezza dichiarazione di guerra.

"Voglio scrivere un'opera d'arte sulla nostra storia; così quando

sarà finita del tutto ne resterà il ricordo".

A questo punto la ragazza si svegliò completamente e domandò

irritata:" Ebbene? Cosa posso dovrei fare io?".

Allora, per bilanciare i toni della conversazione che speravo

continuasse almeno fino a Mantova est, con voce addolcita

risposi:"tu potresti leggere gli appunti di questi ultimi due anni,


non sono molti, e sottolinearne, magari commentarne le parti

degne di entrare, rielaborate, nel nostro capolavoro".

Speravo in una risposta conciliante, invece avevo  scatenato anche il

risentimento suo, e il demone funesto della nostra competizione

cattiva. Infatti rispose:"Se avrò tempo, li leggerò dopo il mio esame.

Fino a tutto luglio non posso: devo pensare ai compiti verso me

stessa, prima di assecondare la tua volontà di successo".

"Senti come ha imparato la parte della Nora di Ibsen 32", pensai.

"Ho capito", risposi, e non le rivolsi più la parola. Mi ripugnava il suo

parassitismo metodico nei miei confronti , il recitare evidente e continuo, la volontà di sfruttarmi da parte di quel rettile velenoso rivestito del corpo di Venere.

Da me aveva appreso, preteso  e preso tutto quanto le era stato possibile, e

in cambio non voleva darmi più niente. Eppure anche dai suoi

rifiuti potevo imparare, almeno finché la sofferenza del precipitare

retrogrado, nell’animalesco, non fosse diventata inutilmente deleteria.

Allora mi sarei fatto lasciare e avrei cominciato a scrivere.

Arrivati a Bologna, la scaricai davanti al cancello, senza aiutarla a

portare i bagagli davanti all’ingresso della sua covo equivoco: la salutai

freddamente dall'automobile. Imparare soffrendo, sì; ma farsi

calpestare, no, nemmeno dall'aurea Afrodite. La odiavo. Tornai a

casa mia dove sentii di essere solo nel mondo. Ma non mi dispiaceva dato il mio fatalismo

Avevo capito che la rovina del nostro rapporto, la sua  tragica fine imminente e l’inizio del mio capolavoro erano due eventi confatali –confatalia33 suneimarmevna34- e, dato il mio amor fati, dovevo collaborare con entrambi.

Note

32Cfr. Casa di bambola, ultima scena.

33Cfr. Cicerone, De fato, 30.

34Cfr. Plutarco, Peri; eijmarmevnh~ 569F

 

Pesaro 13 ottobre 2024 ore 16, 34 giovanni ghiselli

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