lunedì 14 ottobre 2024

Ifigenia CLXCIV. I primi amori. A Marisa.


 

 

La mattina del 15 marzo, appena sveglio, cominciai a meditare.

Era domenica: ne avevo tutto il tempo, anche troppo. Dopo due

anni, quattro mesi e mezzo, quello era il primo giorno non

lavorativo che avrei passato a Bologna senza vedere né sentire

Ifigenia, con ogni probabilità. Mi ero talmente abituato a

vivere con lei e per lei, a ricevere le sue visite, le telefonate, le

richieste, che se davvero non l'avessi più vista, ascoltata, potuta

aiutare, avrei sentito il vuoto e il nulla. La mia decantata vitalità,

che l'amica Antonia aveva definito "faustiana", invero dipendeva

quasi tutta da quella ragazza. Eppure, sparita lei fisicamente,

dovevo leggere più di prima, correre gli stadi più di prima, in

tempi migliori; dovevo pedalare non solo su per la Croara, il Monte delle

formiche, il Grappa e il Pordoi, ma pure il Gavia e lo Stelvio.

“Stelvio e Gavia per me pari son” gridai. Poi il Parnaso, l’Olimpo e il Taigeto

 E scrivere un capolavoro dovevo. Un epos grandioso, un romanzo

con la visione, diurna e notturna, realistica e onirica, di un'epoca

intera. Non avrei sprecato con il vizio e nell'ozio il talento che la

bella donna aveva riconosciuto in me; non avrei sciupato

nell'inerzia, stando seduto a mangiare o steso a boccheggiare, il

fisico che a lei una volta piaceva, e forse le sarebbe piaciuto di

nuovo se non l'avessi lasciato andare in malora. Non avrei mai

abiurato il culto della santa bellezza rivelata e consacrata

dall'amore di quella ragazza. Non mi sarei più

abbassato a tresche con femmine deformi e cretine. L'amore di

Ifigenia era diventato un altri culmine della mia vita dopo quello di Elena Augusta : di lassù potevo osservarla intera, comprenderla con una visione d’insieme, e raccontarne le quintessenze che riguardano tutti. Avrei scritto una grande storia d'amore partendo dalle emozioni di bambino per le bambine coetanee, poi, di femmina umana in femmina umana, sarei arrivato al 14 marzo del 1981.

 

Il ricordo dell’emozione più antica risaliva all'estate del '55: avevo 11  anni

non ancora compiuti,  mi trovavo a Moena. Mi impressionò

fortemente una citta più bruna bruna, snella, vivace, vestita  di

bianco. La vedevo affacciata a una finestra: abitava al piano si sotto.

Non conoscevo il suo nome. La sentivo cantare un motivo con parole su

una paloma bianca come la neve, come la neve. La pensavo quale creatura  variopinta, policronma: candida, come la paloma  e  il suo vestito, nera come i suoi capelli lunghi e lisci, azzurra come gli occhi che purtroppo non mi guardavano punto. Fu il primo anno che a Moena non passai le

mattine aspettando, invano, la posta della mamma mia spensierata e leggera o irata e furente.  Impiegavo il tempo cercando un'occasione

per conoscere quella bambina preziosa e farmi guardare e parlarle. Un giorno avvicinai suo fratello, un  bimbo di sei o sette anni.

 Lo invitai a giocare, e quando la madre, una donna di occhi e di capelli nerissimi 13 lo chiamò in casa, gli chiesi se potessi salire anche io. Disse di sì; anzi ne fu priprio contento poiché uno “più grande” lo degnava della sua

compagnia.

Con questo stratagemma odissiaco entrai nel loro

appartamento. La sorella però purtroppo non c'era, e, quando

giunse, non mi rivolse lo sguardo. Ci rimasi male assai, ma non

desistetti.

Qualche giorno dopo, verso la fine di agosto, mi accorsi con

strazio che in quell'amore non contraccambiato avevo pure un

rivale: un ragazzotto di 13-14 anni che abitava al primo piano

della nostra casa di via Damiamo Chiesa.  Paloma dimorava al secondo, io con la zia Giulia al terzo piano.

 Li osservavo dalla finestra: parlavano volentieri quei due,

senza nascondere qualche complicità. Con mio trazio. Dovevo superare lui agli occhi di lei, ma ero piccolo io, minuto e malvestito. Quello era

grande, massiccio, anche un po' prepotente: prendeva  spesso a calci i bidoni della spazzatura  e gridava. Mi pareva un adulto rozzo, quasi bestiale. Cosa potevo fare contro tale ciclope?

Un pomeriggio, mentre uscivo da casa, li vidi sorridersi davanti al

portone.

AlloraMi venne in mente un'astuzia da condannato a morte14: mi avvicinai, chiesi se sapevano l'ora, feci una o due osservazioni

insignificanti, quindi sfidai quel Carnera a una gara di corsa lì

in via Damiano Chiesa fino alla fontana del Turco, poi dopo una svolta, in mezzo a un campo dei cavoli,delle patate in fiore, e delle farfalle bianche.

 Il circuito si chiudeva davanti a casa nostra dopo altre due svolte a sinistra

Volevo mettere in lizza la mia agilità alata contro la brutalità greve dell’aborrito rivale. Non poté rifiutare.

Mentre si parlava dei termini della sfida, feci in modo che si

avvicinassero e volessero partecipare anche altri bambini del rione,

villeggianti e moenesi. Più numerosi fossero stati gli agonisti, più bello sarebbe stato il mio trofeo. Ne vennero una decina, tutti maschi.

 Flavio, "lo strullo", fu eletto giudice.

Bisognava correre su un circuito di  un chilometro circa. Paloma osservava  gli  agonisti stabilire le regole e spiegarle a Flavio che

sorrideva a tutti e augurava la vittoria a ciascuno di noi. La guardavo di

sfuggita: mi sembrò pallida e più bruna, più bella che mai.

Speravo che fosse in apprensione, se non per me, almeno per il

risultato. I capelli li aveva nerissimi, come la madre sua e la mia, gli occhi

azzurri anche questi come la mia mamma; i bambini del resto non danno agli occhi l'importanza dovuta: trovano maggiore significazione nel naso,

nelle guance, nelle labbra, e, appunto nelle chiome; forse perché

sono parti più concrete, afferrabili, accarezzabili. Da me per altro

soltanto nei pensieri e nei sogni, ché la mamma mia non si

lasciava accarezzare.

Trovavo quella bambina così attraente che ne tremavo, sia

vedendola  brillare nel sole, sia ricordandola alla lume della

luna. Speravo di rendermi degno di tanto splendore vincendo la

competizione che avevo voluto. Pensavo che se mi avesse

approvato, avrei potuto gettarmi dentro i crepacci della

Marmolada senza morire né farmi male. Le ali, mi sarebbero spuntate. Né le

vipere che mi terrorizzavano avrebbero potuto nuocermi, né i lupi, né gli orsi

dei boschi, né i preti minacciosi, né le zie sempre pronte a

sgridarmi, proprio nessuno. E della posta che non arrivava, non mi

importava un fico. Finalmente avevo trovato una ragione per non

soffrire dell'amore non contraccambiato dalla mamma,

 L'interessamento di Paloma dovevo meritarlo. Sapevo

che nessuno ammira nessuno per niente, e sapevo pure di valere

qualche cosa correndo. In fondo da allora poco è cambiato,

sebbene siano passati decenni.

Il tempo infatti non è reale, e l'arte deve svelarne l'apparenza illusoria. Esso porta a ciascuno la formazione della  sua identità che si viene scoprendo e

consolidando negli anni. Finché l'uomo muore e poi, forse, come

affermano molti saggi, l'opera ricomincia, o continua a crescere  in

un'altra figura di forma diversa: "Cuncta fluunt, omnisque vagans formatur imago"  15  tutto scorre e ogni immagine si forma fluttuando  .


 

 

Flavio dunque diede il via e la gara iniziò. Il mio rivale

in amore correva davanti a tutti: si era piazzatoin prima

posizione, sgomitando e facendo valere la mole. Infilammo lo

stretto sentiero che attraversava l'orto con i cavoli e le patate, in fila indiana: io seguivo l'aborrito ragazzo come un ombra, ché  l'avversario da battere era

lui. Gli altri infatti rimasero presto staccati. Nemmeno quel

grossolano era portato alla corsa: quando sbucammo in via

Damiano Chiesa sul rettilineo d’arrivo sentii che ansimava molto più in fretta di me, e lo superai senza difficoltà. Anzi, allungai pure un poco il percorso,

per stare alla larga dalle sue mani che infatti allungò per

ghermirmi, farmi cadere e  grattare il ventre sul duro pavimento

 Ma non riuscì ad acchiapparmi. Sicché tagliai il traguardo per

primo. Flavio esultava, Paloma per niente. Se fosse stata meno

stupida e vana, quella brunetta avrebbe compreso chi era tra noi

due il più capace, poiché avevo voluto e vinto la gara; chi il più

onesto, siccome non avevo imbrogliato; chi nella vita avrebbe

combinato qualche cosa di egregio se ero stato io, piccolo, minuto,

 e malvestito, anche debole andavano dicendo le zie a chi

le ascoltava, a prevalere su un ercole  meglio tenuto e

pasciuto di me. Non osai avvicinarmi a lei: speravo che venisse  a

dirmi qualche cosa; almeno:"bravo! Come ti chiami? Di dove

sei?"

Le avrei risposto:"Mi chiamo Giannetto, sono di Pesaro, l'ho fatto

per te. Chiedimi cose più difficili, molto più difficili: per te tirerò

giù le stelle dal cielo". Credo che se mi avesse rivolto un sorriso,

quel giorno mi avrebbe commosso più che se oggi mi sorridesse

l'intero universo, o Dio stesso. Invece andò dallo sconfitto, e con

un'espressione fine, che contrastava con il ceffo sudato di

quel gaglioffo, disse senza ironia:"Bravo, siamo arrivati secondi".

Smisi  di adorare Paloma, però mi accade ancora di ricordare il

volto bianco incorniciato dai capelli neri di lei, quando osservo la

luna alzarsi dagli alberi scuri di una tacita selva.

Partendo da quell'immagine bruna dunque sarei arrivato all'icona

di Ifigenia che mi aveva lasciato la sera prima.

Ho continuato a sentirmi attirato dalle ragazze brune brunem a innamorarmi di loro.

 Fino alla Päivi che era rossa ma Elena, l’Augusta era bruna.

Arrivato alle scuole medie Lucio Accio poche settimane più tardi mi innamorai di Marisa che oltre essere bruna e carina era la più brava della sezione femminile. Studiavo anche per prendere voti non meno alti dei suoi.

Li confrontavamo.  Non ho mai potuto accarezzare nemmeno lei, ma con Marisa almeno potevo parlare. Un passo alla volta nell’apprendistato amoroso. Tuttavia non bisogna procedere troppo adagio: velocemente cade e precipita il destino di noi mortali. Troppo breve è la vita umana pure se centenaria. Siamo creature effimere, della durata di un giorno: “sogno di ombra è l’uomo” scrive Pindaro nel quinto epodo della Pitica VIII.

Oggi al mare la sorella di Marisa mi ha detto che  è morta pochi giorni fa. Le aveva detto di  me che ero molto bravo a scuola.

“Non più di Marisa. Mi dispiace molto. Sono sempre stato un fervido ammiratore di tua sorella” le ho risposto.

Se  lo avessi saputo in tempo sarei andato al funerale e avrei accarezzato la bara. Dedico questo capitolo all’antica compagna nelle scuole Lucio Accio e Terenzio Mamiani. Marisa è stata una delle persone più importanti della mia vita. Quando passo sotto casa sua non lontana dalla mia, lancio ancoa dei baci con un gesto della mano

 

Note

13

Cfr. Leopardi, Operette morali, Dialogo della Natura e di un islandese.

14

Cfr. M. Proust, Dalla parte di Swann, trad. it. Einaudi, Torino, 1978, p.32.


 

15 Ovidio, Metamorfosi XV,v. 178.

 

p. s.

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