NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

Ciclo di incontri alla biblioteca «Ginzburg». Protagonisti della storia antica

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sabato 26 ottobre 2024

Annibale Dopo Canne. Giovanni Brizzi e un Annibale piacevolmente romanzato.

 

i cittadini di Petelia resistettero eroicamente ad Annibale e alla fame arrivando a cibarsi di cortecce e di rami di alberi. Si arresero dopo 11 mesi.

La fame di Petelia (Bruzio,  fine 216 a. C.) secondo Petronio giunse al cannibalismo:

l’ultimo frammento del Satyricon ricorda tre esempi di cannibalismo nella storia, forse per persuadere Gorgia, l'heredipĕta  esitante con il nome da filosofo, a trangugiare la carne del cadavere del vecchio Eumolpo:"quod si exemplis quoque vis probari consilium, Saguntini obsessi ab Hannibale humanas edēre carnes nec hereditatem expectabant. Petelini idem fecerunt in ultima fame, nec quicquam aliud in hac epulatione captabant nisi tantum ut esurirent. cum esset Numantia a Scipione capta, inventae sunt matres quae liberorum suorum tenerent semēsa in sinu corpora" (141, 9-11), che se tu vuoi che il mio progetto sia avvalorato da esempi, ti ricordo che i Saguntini assediati da Annibale (219) mangiavano carne umana e nemmeno si aspettavano un'eredità. Lo stesso fecero i Petelini (216) ridotti alla fame estrema, e in questo banchetto non andavano a caccia di altro che di non morire di fame. Quando Numanzia (133) fu presa da Scipione , si trovarono madri che tenevano in seno corpi mezzi rosicchiati dei propri figlioli.

"Quell'esempio tripartito è il degno finale epico di un libro, che al di sotto di vicende oscene, triviali, mirabolanti, o aridamente finanziarie, fa udire il trascorrere imperterrito e solenne della storia"[1].

 

Carattere di Annibale in Polibio: dopo la caduta di Capua (211) Annibale  si trovò in difficoltà e arrivò a violare i patti firmati con alcune città, deportando, p. e. a Metaponto gli abitanti di Erdonia (Bruzio) che fece incendiare. Alcuni dunque lo accusano di empietà, altri di crudeltà o di avarizia. Ma è difficile pronunciarsi peri; th'~  j Annivbou fuvsew~:  bisogna tenere conto dell’influenza degli amici e della pressione delle circostanze (9, 26, 10). Secondo i Cartaginesi comunque prevaleva l’avarizia, secondo i Romani la crudeltà.

A proposito della morte di Marcello presso Venosa, Polibio elogia Annibale che si prendeva cura della propria sicurezza personale (10, 33, 3). Infatti la vita del comandante è preziosa per l’esercito e non sostituibile.

Annibale era w{sper ajgaqo;~ kubernhvth~ (11, 19, 3), come un bravo timoniere guidando e tenendo insieme Libici, Iberi, Liguri, Celti, Fenici, Italici, popoli che non avevano in comune ouj novmo~, ou[k e[qo~, ouj lovgo~, leggi, costumi né lingua (11, 19, 4). Se non avesse incontrato i Romani non avrebbe fallito. Al contrario  Alessandro Magno, secondo Livio, se avesse incontrato i Romani, avrebbe fallito. 

Altro elogio di Annibale si trova in 18, 28, 6, dove Polibio dice che i Romani persero diverse battaglie non per difetti del loro schieramento o armamento ma per la destrezza e l’intelligenza di Annibale (para; th;n ejpidexiovthta th;n   jAnnivbou kai; th;n ajgcivnoian). Annibale, p. e., vista l’insufficienza delle sue armi, armò il suo esercito con quelle prese ai Romani. Fu sconfitto quando trovò un comandante delle sue stesse capacità.

 

Plutarco contrappone il carattere cartaginese a quello degli Ateniesi che sono inclini all’ira e al sospetto, ma anche alla compassione.

 L’Ateniese ama aiutare i deboli,  e ama i discorsi scherzosi e comici, e non si adira con chi lo canzona anche se si compiace di essere elogiato. Fa paura anche  chi lo comanda, ma poi è umano con i nemici.

I Cartaginesi al contrario hanno un carattere (h\qo~) pikrovn, aspro, skuqrwpovn cupo, uJphvkoon  toi'~ a[rcousi, soggetto a chi comanda,  baru; toi'~ uJphkovoi~, pesante sui soggetti, ajgennevstaton ejn fovboi~,  vilissimo nelle paure, ajgriwvtaton ejn ojrgai'~, feroce nelle ire ejpivmonon toi'~ gnwsqei'si, testardo nelle decisioni, pro;~ paidia;n kai; cavrin ajnhvdunton kai sklhrovn, che non si addolcisce né ammorbidisce davanti allo scherzo e alla grazia (Consigli politici, 3, 6). Carcopino lo ha accostato al puritanesimo.   

 

Giovanni  Brizzi e il suo romanzo suAnnibale. Prima parte.

 

 Annibale. Come un’autobiografia, Bompiani, Milano, 2003.

 

Prusia è impastato dell’opportunismo necessario ai piccoli per sopravvivere; e vorrà probabilmente ingraziarsi i nuovi padroni del mondo, anche a spese dell’ospite-Annibale rifugiatosi da lui come ultima meta. (p. 9). Il fatalismo di Annibale: “ho sempre considerato questo atteggiamento come una tra le espressioni più tipiche della stirpe punica, una stirpe abituata a divinità esigenti” (p. 12).

Le sorelle di Annibale: Arishat che da Bomilcare ha avuto Annone; Batnoam moglie di Asdrubale, morta di parto.

Salambaal, decenne fu promessa in sposa al principe numidico Naravas che aveva aiutato Amilcare nella guerra contro i mercenari. E’ la Salambò di Flaubert.

 

I fratelli: Asdrubale e Magone. La madre: “alta e severa, nel lungo abito a pieghe stretto in vita da una cintura d’oro; di lei rammento l’amore quasi ossessivo, che le diede la forza di opporsi alla partenza del maschio maggiore” (p. 14).

Ricorda i reduci di Sicilia: Matho, Libico dalla smisurata forza fisica; Spendios, Campano fuggiasco segnato da cicatrici forse più morali che fisiche; Autarito, gigantesco Gallo dai capelli rossi e dai lunghi baffi spioventi” Quindi: “Giscone, nobile e sereno, e Annone, altero e insinuante, avversarsario irriducibile di mio padre e mio, come suo figlio dopo di lui…ho potuto assaporare il gusto acre di una guerra senza pietà e senza fede, come quella contro i mercenari; una guerra fatta non tanto di scontri campali, quanto di crocifissioni e torture; una guerra che ha visto prigionieri esposti alla furia degli elefanti e uomini costretti a cibarsi di carne umana (p. 18).

 

Un’oligarchia “tradizionalista, moralista e gelosa delle proprie prerogative”, odiava  Amilcare e i suoi generi Asdrubale e Bomilcare per i loro atteggiamenti democratici, per l’ammirazione della cultura greca. “A mio padre, a mio cognato Asdrubale e a me la malignità dei nostri pari ha riservato la taccia, infamante presso i Punici, di pederastia” (p. 21). Non questo avevamo preso dai Greci ma l’invenzione ellenica della democrazia: “in tale nozione la mia famiglia e io potevamo trovare uno strumento prezioso per scardinare il sistema politico vigente nella nostra città”. Il fine ultimo però era la signoria su Cartagine che aveva bisogno di una vittoriosa guerra di rivincita contro Roma.

Con i militari bisognava ricorrere alla “teologia della vittoria” (p. 23).

“La vicenda stessa di Cartagine si apre, con Elissa, nel segno del suicidio mistico…esso è stato considerato a lungo come prerogativa regale; e la stessa classe oligarchica…costretta a confrontarsi sul piano etico con la figura monarchica, che aborre sopra ogni altra, si è sentita a sua volta impegnata a testimoniare collettivamente il proprio spirito di sacrificio, sostituendo al gesto individuale il rito del molk, il crudele olocausto dei figli piccoli cui oggi si ricorre per ingraziarsi gli dèi nei momenti più cupi e disperati della vita cittadina” (p. 25). Il favore degli dèi viene misurato con il metro della ricchezza e i Cartaginesi “finiscono spesso per inseguire il profitto come segno esteriore della protezione celeste…si è assai sviluppato presso di noi l’interesse per l’economia…tale settore è stato uno dei meglio curati nella mia prima educazione (p. 25). “Complementare rispetto a questo campo, per noi Punici, è la conoscenza delle lingue: mercante attivo su tutte le sponde del Mediterraneo, infatti, il Cartaginese è considerato come il poliglotta per eccellenza” (p. 26). Cfr. Plauto Poenulus 112: “is omnnes linguas scit…Poenulus plane est

 Annibale le ha studiate per esigenze belliche. Conosce il greco, il latino, i principali dialetti iberici e celtici. Conoscenza importante per la trasmissione degli ordini.

“Sono stato acusato di avarizia, ma questa calunnia me l’hanno cucita addosso proprio quegli  ottimati che hanno ammassato ricchezze enormi con ogni mezzo e che non hanno esitato…a frodare per anni il fisco cittadino” (27) grazie alla complicità dei loro pari negli organi di controllo.

“Greca è, del resto, la seconda anima mia e di Cartagine” (28). Amilcare aveva fatto amicizia con Santippo, il vincitore di Attilio Regolo, e volle per Annibale un maestro spartano. E’ una calunnia dei detrattori di Cartagine che Santippo sia stato fatto annegare dai Cartaginesi. Tornò a casa dopo aver lucrato grossi compensi a Cartagine e presso Tolomeo Evergete. Maestro di Annibale  fu Sosilo, spartano segaligno più ancora che asciutto e governato da “un’intransigenza etica tale da meritare soggezione e rispetto” (30). “sono rimasto sempre profondamente legato, nell’intimo, alla parlata strascicata e un po’ dura dei Peloponnesiaci dell’interno, che per prima ho ascoltato dal mio maestro” (31). Sosilo gli fece leggere Isocrate, Demostene (amor di patria) e Tucidide (realismo). Al dito A. porta un sigillo con il ritratto di Alessandro e “la mia mensa, sempre frugale, si è però ornata nelle occasioni solenni dell’ Eracle  jEpitrapevzio~ di Lisippo, un trionfo da tavola appartenuto allo stesso sovrano macedone” (32).  

Il bronzo rappresentava Eracle in atto di libare seduto sulla pelle del leone nemeo. Ricordava ad Annibale i suoi modelli, quello umano (Alessandro Magno cui era appartenuto) e quello divino.

Il gusto del bello lo deve non a Sosilo, troppo austero ma a “Sileno di Kalé Akté” Calatte Sicilia settentrionale vicino Messina l’altro greco che mi ha seguito per ogni dove. Sileno che veniva dalla Sicilia, era “sottile e astuto, insinuante e indiretto” (p. 32). “Da buon Siceliota, egli era più pratico dello spartano, e soprattutto era di lui assai più portato all’uso sistematico della metis, quel misto di saggezza, di spregiudicatezza e di astuzia che dev’essere patrimonio di statisti e uomini di guerra” G. Brizzi, Annibale Come un’autobiografia, p. 32). Sileno gli narrò l’aforisma di Lisandro : “ a chi biasimava l’uso dell’astuzia come indegno dei Lacedemoni che si proclamano stirpe di Eracle, quel gran re spartano replicava che dove non arrivano le spoglie dell’invulnerabile leone nemeo, che rivestono l’eroe, occorre coprirsi con la pelle della volpe” (p. 32). Antigono Gonata e Odisseo dicevano che solo vincere è ciò che conta.

Fu dunque “Sileno a trasformarmi in quel maestro di stratagemmi che tutto il mondo conosce” (p. 32). “Punico di nascita e Greco di educazione. Maestro dell’inganno…io ho appreso questa condotta dai miei maestri ellenici” . Valore ed astuzia…crudeltà…fatalismo…rigorismo etico…senso del dovere e del sacrificio spinti all’estremo…tenacia inflessibile. Non ha invece preso l’umanesimo dei Greci.

Le divinità puniche sono esigenti e terribili: “poco o nulla importano le necessità dell’individuo di fronte alle superiori istanze collettive della politica e della guerra” (34). I suoi modelli greci, a partire dal suo idolo, Alessandro, poi Dionisio e Agatocle, Demetrio Poliorcete, Filippo II, erano stati costretti a uccidere. “L’essenziale, era, mi dicevo, che non se ne traesse piacere” (35). Per Cartagine ero disposto “persino a immolare me stesso”. “Avevo torto…per il pensiero greco fine ultimo dell’agire umano dev’essere l’uomo stesso.” Cfr. Antigone, v. 523.

 Sosilo nella sua storia Annibale Monomavco~ creò la figura del malvagio consigliere, sdoppiando Annibale. Il quale riconosce che la sua educazione greca lo ha toccato solo in superficie. Della religione “ho fatto un uso del tutto strumentale, secondando le esigenze della propaganda” (p. 39).  

Asdrubale fece della Spagna “una specie di feudo personale della nostra famiglia” cercando di evitare la diffidenza di Cartagine “una Città-Stato ombrosa, diffidente e gelosa della propria libertà” (p. 47).

Dai Greci ho derivato l’ambizione a creare un’immagine da trasmettere al mondo, un’immagine che avesse crismi di regalità eroica e superumana” (p. 47). “Grazie agli attributi prescelti” nell’effigie delle monete “mio padre e io fummo assimilati a Eracle-Melqart…la divinità che per prima, nel mito, ha valicato le Alpi venendo dalla Spagna” (p. 48). “Fino all’estremo soggiorno in una Crotone di remote tradizioni erculee” (p. 49). Nella polivalenza di Eracle  possono riconoscersi tutte le culture. E’ il più universale dei simboli ….i suoi caratteri incarnano alcune istanze insopprimibili dell'animo umano…La sua polivalenza nasceva dal tratto essenziale comune alle diverse interpretazioni che vengono date di lui: sostanzialmente una forza giusta e riparatrice, in grado di punire i malvagi e di proiettare l'uomo verso un'immortalità da conquistarsi con l'esercizio costante della virtù… Il nume tutelare della spedizione in Italia fu dunque, di volta in volta, il Melqart che parlava al cuore dei Punici, o l'Eracle greco nelle sue diverse accezioni, l'Ogimos caro al mondo celtico, il Makeris africano o la corrispondente figura iberica. Comunque io lo proponessi, ogni membro della mia armata finiva per coglierne un'identità diversa, quella a lui più cara; e di questa figura, multiforme e unica a un tempo, io potei quindi costantemente servirmi come di una chiave, capace di aprirmi tutte le porte"[2].  

Per celebrare le mie gesta portai con me “Sosilo, il maestro che amava Tucidide, cui chiesi di essere il cronista della campagna d’Italia; e soprattutto Sileno, il Siceliota che mi promise…una vera e propria epopea in prosa, garantendomi che avrebbe creato un alone mitico intorno alla mia figura” (p. 51). “Gli storici di Roma mi hanno dipinto come un mostro empio e assetato di sangue; e uno dei suoi poeti, Cneo Nevio, ha fatto di me una sorta di Furia in sembiante umano, una sinistra divinità della vendetta generata dal sangue di Elissa da una maledizione remota” (p. 52).

A 52 anni Annibale percorse oltre mille stadi (200 km.) che separano Cartagine da Tapso in poco più di mezza giornata, cambiando continuamente cavalcatura. Grazie all’allenamento e al regime di vita regolare. Vitto frugale, non ha mai mangiato sdraiato. Poco vino.

Le donne mi piacevano ma me ne sono astenuto. Ho sposato una principessa iberica, ho avuto occasionali rapporti con prostitute e dopo la morte di mia moglie ho intrecciato una relazione duratura con una nobile fanciulla di Capua. Ho letto le opere di strategia e di tattica, quelle che narrano le campagne di Filippo II, di Antigono Monoftalmo, di Demetrio Poliorcete, di Pirro, di Santippo. Conoscevo a memoria la storia di Tolemeo Sotere e le Praxeis di Callistene con le imprese di A. Magno e le Memorie di Pirro. Ho fatto mia la manovra avvolgente inventata dalla scuola macedone. Ho sacrificato i Galli che odiano le lunghe marce e ogni forma di fatica. Amano il vino, sono cacciatori di teste. Li ho schierati in prima linea. Ho sempre calcolato tutto. Al caso ho cercato di non concedere nulla.

Le informazioni raccolte mi hanno spinto a correggere i piani.

“Gli storici di Roma concedono grande rilievo al trucco che attuai a Callicula” (colle della Campania, oggi Caianello, 217 a. C.)

Livio dice che Fabio occupò il monte Callicola e la città di Casilino che tagliata dal fiume Volturno, separa l’agro falerno dal campano (22, 159. Annibale era entrato nell’agro falerno.

“o l’idea di gettare sulle navi di Eumene di Pergamo anfore piene di serpenti velenosi, l’ultima vittoria” (p. 69). 184 a. C.

“Validi alleati, in battaglia, possono essere la nebbia, della quale mi giovai al Trasimeno, o il vento, che mi soccorse sul campo di Canne” (p. 70).

Il mio punto debole: non mi sono mai sentito un poliorceta. Il mio talento: l’intelligenza che mi ha affrancato da ogni schema preconcetto. A chi volesse seguire le mie orme lascerei quindi un solo precetto: quello di pensare sempre liberamente (p. 71).

Arrivato in Spagna bambino, si recò con il padre al santuario di Melqart. Amilcare mise l’impresa sotto la protezione del dio. Amilcare muore travolto dalla corrente di un fiume a 46 anni (229 a. C.).

Asdrubale  il cognato di Annibaleaveva talento politico e offrì agli Spagnoli di partecipare al governo della regione, sotto il suo controllo. Asdrubale, come Alessandro Magno voleva avviare un processo di osmosi culturale e politica che fondesse tra loro dominatori e sudditi (p. 81). Venne salutato come re. Invero  Asdrubale esigeva ostaggi dagli Iberi. Asdrubale alla morte della sorella di Annibale sposò una principessa iberica e volle che Annibale facesse lo stesso. A. sposò Imilce appartenente a una famiglia ellenizzata. (Cfr. Silio Italico, Punica, III, 61, 150 ss.).

“Per questa piccola donna bruna e ingioiellata non ho provato mai il desiderio dei sensi…forse l’ho amata; con tenerezza, tuttavia, non con passione. A lei debbo comunque la gioia, grandissima, del mio primo figlio” (83). Lo chiamò Amilcare.

Livio afferma che della città spagnola di Castulo , sul fiume Baetis, il Guadalquivir, era oriunda la moglie di Annibale (24, 41, 7).

Asdrubale aveva dei partigiani a Sagunto che insorsero contro gli aristocratici. Questi, appoggiati dai Romani, li misero a morte.

Asdrubale venne ucciso dall’attentato di uno schiavo di un regulo riottoso crocifisso (221). A Cartagine gli oligarchi alzarono la testa contro i Barcidi, ma l’assemblea popolare e alcuni geronti erano con Annibale acclamato dall’esercito e ratificato da popolo e senato. Annibale non aveva compiuto 25 anni. I consoli romani erano Marco Minucio Rufo e Publio Cornelio Scipione Asǐna. L’obiettivo era Sagunto (88).

Si trovava “a mezza strada tra Cartagine di Spagna e il corso dell’Ebro” (89). A. voleva rompere la “consorteria internazionale”  (90) tra gli optimates  (cfr. Pro Sestio[3]) di tutta la terra che Roma stava ordendo.

A Roma la fazione contadina voleva l’espansione nella pianura padana, mentre il gruppo degli Scipioni traeva i suffragi dai ceti mercantili. Gli Scipioni ebbero il consolato nel 221 (Scipione Asina e Marco Minucio Rufo, un fedele seguace plebeo della famiglia), e il loro avversario Flaminio la censura. Riuscì a far dedurre le colonie di Cremona e Piacenza. Voleva cacciare i Galli dalla pianura padana sostituendoli con coloni italici. Ambasciatori romani si recarono prima da Annibale, poi a Cartagine, ma non ebbero soddisfazione. Sul far dell’estate del 219 Annibale attacca Sagunto. Si dicevano oriundi di Zacinto, oriundi a Zacyntho insula dicuntur (21, 7)  misti con i Rutuli venuti da Ardĕa (a sud della foce del Tevere).

 Aveva la rilevanza di un simbolo: la sua indipendenza limitava il dominio punico in Iberia. Per l’assedio i Cartaginesi usavano le vinĕae (tettoie di giunchi intrecciati) e gli arieti. A. legato ai moduli eroici proposti da Alessandro Magno si espose troppo e venne ferito alla coscia destra da una tragula (giavellotto) che gli lasciò una lieve zoppia (cfr. la zoppia del  tiranno).

 Hannibal ipse, dum murum incautius subit, adversum femur tragula graviter ictus cecidit” (21-7).  

Nel dicembre del 219 dopo otto mesi Sagunto cade.

Per il 218 vengono eletti consoli Publio, il più giovane dei fratelli Scipioni e Tiberio Sempronio, fieri nemici entrambi di Cartagine.

In marzo  Romani mandarono una seconda ambasceria a Cartagine per chiedere la consegna di Sagunto e di Annibale. I geronti non poterono accettare. Il popolo si sarebbe rivoltato. Il sufeta Bomilcare rispose al capo della legazione che decidessero loro per la pace o la guerra.

I Romani avevano forze superiori: la formula togatorum, il numero degli atti alle armi  prescrivibili arrivava a 770 mila unità. L’Italia era tenuta insieme dagli interessi comuni a molti dei suoi notabili. L’esercito cartaginese era fatto di mercenari. La fedeltà delle città africane era dubbia. Non avevano l’incentivo degli interessi comuni. Le inesauribili riserve di materiale umano costituivano la superiorità dei Romani.

Annibale voleva staccare da Roma i socii, come Eracle il suo “alter ego divino aveva sfiancato Anteo staccandolo dalla madre terra” (p. 101).

Fino ad allora la comunità romana era composta e guidata da contadini. Ma acquistavano potere i mercanti, i banchieri, gli appaltatori, i finanzieri, gli usurai. Mercanti italici e guggas, trafficanti cartaginesi, frequentando taverne e bordelli di porti lasciavano notizie su questa situazione. Annibale contava molto sulle città greche. Cartagine si presentava infatti come città ellenizzata. Bisognava umiliare militarmente le legioni romane per creare defezioni tra i socii.

I Romani erano inficiati dall’annualità e collegialità dei consoli, dalla fretta di combattere in acie di comandanti e soldati che dovevano tornare a lavorare la terra, dal rispetto della fides secondo cui doveva essere evitato il ricorso all’insidia, di condurre una guerra more latronum (107). Insomma si doveva fare una guerra cavalleresca.

 Al. Magno con tre battaglie (Granico 334, Isso 333, Gaugamela 331) aveva disfatto l’impero persiano. Altrettanto avrebbe fatto Annibale con quello romano. Contava di battere gli eserciti e di spezzare la federazione italica.

Bologna 26 ottobre 2024 ore 17, 56 giovanni ghiselli.

p. s.

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[1] Luca Canali, op. cit., p. 61.

[2] G. Brizzi, Annibale, p. 50

[3] Nell’orazione Pro Sestio del 56 a. C. Cicerone li definisce in questo modo : “Omnes optimates sunt qui neque nocentes sunt, nec natura improbi nec furiosi, nec malis domesticis impediti” (97), sono tutti ottimati quelli che non sono nocivi, né per natura malvagi né squilibrati, né inceppati da difficoltà familiari. Anzi essi costituicono una casta (natio) all’interno della popolazione: “integri sunt et sani et bene de rebus domesticis constituti”, sono irreprensibili, saggi e benestanti. 

 

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