Monica Maggioni, eletta in questi giorni presidente della Rai, esclude che i giornalisti possano essere imparziali: “Noi giornalisti facciamo sempre delle scelte, sostiene la Maggioni nelle 192 pagine di Terrore mediatico (Laterza). E scegliendo, scrive, prendiamo posizione. “Cominciamo a scegliere il primo giorno che diventiamo reporter. Lo facciamo scrivendo aggettivi, allungando dirette, enfatizzando le parole, alzando o abbassando gli effetti dell’audio. Rimanendo un’ora in un villaggio e tre in quell’altro”. (“la Repubblica”, 6 agosto2015, p. 2, Dalla guerra a viale Mazzini la carriera lampo di una donna azienda di Sebastiano Messina.
L’imparzialità proclamata ma non sempre praticata dagli storiografi (cfr Tucidide con Cleone, Tacito con Tiberio etc).
L’imparzialità viene proclamata da Tacito, all’inizio delle Historiae: “incorruptam fidem professis neque amore quisquam et sine odio dicendus est ” (I, 1), chi fa professione di veridicità inconcussa deve esprimersi su ciascuno mettendo da parte l’amore e senza odio.
Quindi nel primo capitolo degli Annales l’autore dichiara che partirà dagli ultimi anni del principato di Augusto, poi procederà raccontando di Tiberio e dei successori sine ira et studio quorum causas procul habeo (I, 1) senza risentimento e partigianeria, di cui tengo lontani i motivi.
Luciano ribadisce la norma dell’imparzialità dello storico: “Toiou'to~ ou\n moi oJ suggrafeu;~ e[stw, a[fobo~, ajdevkasto~, ejleuvqero~, parrhsiva~ kai; ajlhqeiva~ fivlo~…ouj mivsei oujde; filiva/ ti nevmwn oujde; feidovmeno~ h] ejlew'n h] aijscunovmeno~ h] duswpouvmeno~, i[so~ dikasthv~…xevno~ ejn toi'~ biblivoi~ kai; a[poli~, aujtovnomo~, ajbasivleuto~, ouj tiv tw'/de h] tw'/de dovxei logizovmeno~, ajlla; tiv pevpraktai levgwn. JO d j ou\n Qoukidivdh~ eu\ mavla tou't j ejnomoqevthse kai; dievkrinen ajreth;n kai; kakivan suggrafikhvn…[1]”, tale dunque deve essere il mio storiografo, impavido, incorruttibile, libero, amico della libertà di parola e della verità…un uomo che non attribuisce per amicizia e non lesina per odio, o uno che prova compassione o vergogna, o si lascia intimorire, giudice imparziale…straniero nei suoi libri e senza patria, indipendente, non sottoposto al potere, uno che non tiene in alcun conto di cosa sembrerà a questo o a quello, ma che racconta i fatti. Tucidide dunque legiferò molto bene e distinse la buona dalla cattiva storiografia.
Ma anche l’imparzialità degli storiografi che si dichiarono obiettivi è relativa, non assoluta.
“La storuigrafia antica mostra una costante ostilità verso i caduti delle lotte politiche, verso quelli che hanno tentato di acquistare sovranità o invano o con breve fortuna. Sollevare i cittadini o i soldati contro il Senato o contro l’imperatore è in ogni modo impresa sediziosa che la coscienza dello storico non può approvare, se anche ne possa venire pubblico giovamento. Ma la società umana, malgrado la sua inclinazione all’obsequium, non può stagnare in una immobile sudditanza; e gli uomini capaci di pubblico governo non possono trascurare le condizioni propizie alla loro opera o, se meglio piace, alla loro fortuna…Uomini “ambitiosi” sono giudicati i sovvertitori dei poteri costituiti: e infatti l’ambitio è carattere inseparabile da ogni attività politica, la quale non può essere assoluta dentro i limiti della coscienza individuale, ma deve necessariamente risolversi in una serie di atti ‘ambiziosi’ cioè a dire solleciti dell’altrui cooperazione ” (Concetto Marchesi, Tacito, p. 246)
Si tenga conto che in gran parte della storiografia classica è presente un pregiudizio antipopolare che ne limita l'obiettività. I promotori della lotta di classe sono spesso giudicati con formule moralistiche al servizio di una tendenza conservatrice.
“Lo storico tendeva normalmente ad appoggiare, o almeno a presupporre come validi, quegli aspetti della società intorno ai quali la maggioranza dei Greci e dei Romani in età pagana tendeva ad essere conservatrice: pratiche religiose, vita familiare, proprietà privata”[2].
Ancora sulla tragedia. Siamo tutti Ateniesi
Nella Domenica di “Il sole 24 ore” del 9 agosto, Glenn Most torna sulla tragedia (Inventori della tragedia ,p. 21, traduzione di Alessandro Pagnini). L’autore nota “la somiglianza tra personaggio e spettatore (su cui Aristotele insisteva)”. Questa “voleva dire che sia lo spettatore sia il personaggio soffrivano esattamente della stessa ignoranza e fragilità ontologica. Nella stessa città di Atene che, travolta da una incontrollabile cupidigia di potere e ricchezza, si era imbarcata in quegli stessi anni in una brutale campagna di imperialismo militare che sarebbe presto finita in una totale disfatta, nella distruzione e nel caos, ogni anno (…) i suoi poeti celebravano il dio del vino ricordando a quegli stessi cittadini (…) i limiti della conoscenza, l’inevitabilità del fallimento, la fragilità della felicità e l’autodistruttività dell’ambizione”.
Il fatto è che i protagonisti delle tragedie, soprattutto di quelle sofoclèe, ricordavano allo spettatore non solo loro stessi e le proprie vicende ma anche quelle della città.
Lo nota Bernard Knox secondo cui il carattere di Edipo "è quello del popolo ateniese" e la sua persona è "un microcosmo della popolazione dell' Atene di Pericle"[3]. Entrambi sembrano incarnare la descrizione fatta dai nemici Corinzi degli Ateniesi:" w{ste ei[ ti" aujtou;" xunelw;n faivh pefukevnai ejpi; tw'/ mhvte aujtou;" e[cein hJsucivan mhvte tou;" a[llou" ajnqrwvpou" eja'n, ojrqw'" a]n ei[poi" (Tucidide, I, 70), sicché, se qualcuno dicesse riassumendo che quelli sono nati per non avere pace loro stessi, e non lasciarvi gli altri uomini, direbbe giusto.
Ma sentiamo come conclude Glenn Most: “Nel nostro mondo di oggi, che pare sempre più non riconoscere valori diversi dall’ “interesse personale” (che vuol dire egoismo), dalla “ricchezza” (che vuol dire avidità), dallo “sviluppo” (che vuol dire ambizione) e dal realismo (che vuol dire potere), le lezioni della tragedia greca continuano a essere attuali quanto inascoltate. Ed anche in questo senso, sfortunatamente, siamo tutti Ateniesi”.
Non sono inascoltate “le lezioni della tragedia greca” né quelle sulla tragedia greca. Basta farsi ascoltare.
L’eufemismo.
Leggo in “la Repubblica” del 17 agosto 2015 (p. 30) un articolo di Federico Rampini intitolato Le parole per non dirlo.
Si tratta di eufemismi, una figura molto usata dai Greci.
Plutarco nella Vita di Solone (15, 2) ricorda che, a giudizio degli scrittori recenti, gli Ateniesi elegantemente addolciscono le realtà spiacevoli velandole con nomi nobili e generosi: chiamando le prostitute amiche ("ta;" me;n povrna" eJtaivra"") e così via.
A questo proposito è interessante l'osservazione di Leopardi nello Zibaldone (44):"Del resto è cosa pur troppo evidente che l'uomo inclina a dissimularsi il male, e a nasconderlo a se stesso come può meglio, onde è nota l'eujfhmiva degli antichi greci che nominavano le cose dispiacevoli ta; deinav con nomi atti a nascondere o dissimulare questo dispiacevole".
Ma sentiamo Rampini: “Non dite “straniero” ma “persona internazionale”. Vietati gli epiteti “obeso”, soprappeso”, da sostituire con persone di dimensioni”. Guai a insinuare che “questo studente estero ha difficoltà di apprendimento della nostra lingua”. Va incoraggiato, quindi “si sta concentrando nell’imparare la lingua”. Benvenuti nella nuova Distopia degna di Gorge Orwell: i campus universitari americani saranno pure le università migliori del mondo, ma l’autocensura “politically correct” del linguaggio raggiunge livelli preoccupanti. O esilaranti”.
A parer mio si tratta di ipocrisia.
Bologna 29 settembre 2024 ore 20, 37 giovanni ghiselli
p. s.
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