Breve excursus sul male del potere (Seneca).
Il regnum è un fallax bonum del quale non c'è da gioire: copre grande quantità di mali sotto un aspetto seducente:" Quisquamne regno gaudet? O fallax bonum/quantum malorum fronte quam blanda tegis"(Seneca, Oedipus,vv.7-8), qualcuno gode del regno? O bene ingannevole, quanti mali copri sotto una facciata così lusinghiera!. Sono parole di Edipo che dà inizio al dramma descrivendo l'infuriare della pestilenza.
Il regno è quasi sempre una tirannide: un bene scivoloso, un potere claudicante, in particolare quello di Edipo lo zoppo, e dei suoi figli.
Nelle Phoenissae di Seneca, Giocasta chiede a Polinice di rinunciare alla guerra poiché il premio che spetta al vincitore non è desiderabile: anzi Eteocle pagherà il fio del successo a caro prezzo, con il solo fatto di essere re:"poenas, et quidem solvet graves: regnabit "(v.645).
Manzoni riprende il tovpo" nell' Adelchi quando il protagonista ferito consola il padre sconfitto: “Godi che re non sei; godi che chiusa/all'oprar t'è ogni via: loco a gentile,/ad innocente opra non v'è: non resta/che far torto, o patirlo. Una feroce/ forza il mondo possiede, e fa nomarsi/Dritto..” (V, 8). E' il diritto del più forte.
Torniamo a Seneca Il secondo coro del Thyestes formato da vecchi micenei contrappone al tiranno crudele e avido un'immagine della regalità interiore: “rex est qui posuit metus/et diri mala pectoris,/quem non ambitio impotens/et numquam stabilis favor/vulgi praecipitis movet,/non quidquid fodit Occidens,/aut unda Tagus aurea/claro devehit alveo” (vv. 348-355), è re chi ha deposto le paure e le cattive passioni dell'animo crudele, quello che l'ambizione sfrenata non tocca e l'instabile favore del volgo precipitoso, né tutto quello che l'Occidente scava, o il Tago trasporta nel letto lucente con l'onda ricca d'oro. La regalità interiore non ha paura e non è avida.
Il quotidano “la Repubblica” del 17 gennaio del 2006 recava il titolo in prima pagina “Solo 11 le donne al potere”; ebbene una mente non fuorviata dai luoghi comuni attualmente di moda può pensare che questa rara presenza potrebbe anche fare onore ai miliardi di donne, e di uomini, che non sono al potere.
Torniamo a Cassio Dione. Nerone cominciò a scatenarsi: dava sfogo alla sua impudicizia, frequentava le taverne (kaphlei'a, 61, 8, popīnae). La zona era quella di ponte Milvio, malfamato centro di vizio. Ne derivavano risse e aggressioni. Anche nei teatri Nerone fomentava i disordini aizzando la canaglia. Questi passatempi risalgono agli anni 55-58, dai 18 ai 21 di Nerone. I ragazzi del resto sono ragazzi, e Cicerone con questo argomento attenuava la negatività delle intemperanze di Celio Rufo che un secolo prima bazzicava le prostitute, ossia Clodia e il suo ambiente.
Sarebbe valde severus , di un rigore eccessivo, chi vietasse alla gioventù questo spasso ammesso anche dalla severità degli antenati (Pro Caelio, 20, 48).
Nerone tolse la scorta alla madre. Circolavano voci sulla depravazione e la dissolutezza di Agrippina e Nerone. Di notte l’imperatore girava a far baldorie per tutta la città di nascosto: kruvfa de; nuvktwr ejkwvmaze kata; pa'san thn povlin (61, 9), aggredendo le donne e abusando dei fanciulli e depredando, e a volte uccidendo quelli che incontrava per strada.
Giovenale menziona le aggressioni notturne tra i mali della città.
Nerone si camuffava cambiando spesso parrucca ma veniva individuato per la sfrontatezza. Entrava anche nelle case, ma una volta un senatore, Giulio Montano, difendendo la propria moglie, lo picchiò. Nerone lo avrebbe ignorato ma Montano gli scrisse una lettera di scuse. Allora Nerone disse: “oujkou'n h[/dei Nevrwna tuvptwn” (61), allora sapeva che picchiava Nerone. Quindi Montano si uccise.
Intanto Agrippina si dimostrava affettuosa con Ottavia e cercava di accumulare denaro quasi in subsidium (Tacito, Annales, XIII, 18), come per trovarvi sostegno alla propria potenza. Ma Nerone le toglieva le scorte e la teneva lontano, isolandola. Siamo nel 55-56.
Nihil rerum mortalium tam instabile ac fluxum est quam fama potentiae non suā vi nixae (Tacito, Annales, XIII, 19) la reputazione di un potere che non è basato sulla forza è instabile e caduca.
Statim relictum Agrippinae limen. Non la visitava più nessuno praeter paucas feminas amore an odio incertas, non si sa se per affetto oppure odio. Tra queste c’era Giunia Silana, la moglie ripudiata da Gaio Silio, l’amante di Messalina.
Silana era una donna insignis genere, forma, lascivia et Agrippinae diu percara. In seguito Silana odiava l’imperatrice madre poiché questa diceva che era impudicam et vergentem annis, una svergognata al tramonto, un fiore di ieri.
Agrippina era del 15 d. C.
Silana dunque accusa Agrippina, attraverso il mimo Paride, di voler esautorare Nerone.
Tacito afferma che circolavano varie versioni sulla posizione di Burro che Agrippina aveva fatto salire in potenza. Fabio Rustico afferma che Burro conservò la sua carica ope Senecae (13, 20), per intercessione di Seneca; Plinio e Cluvio riferiscono che Nerone non dubitò della lealtà di Burro.
Fabio Rustico è una fonte di Tacito sempre malevola verso Nerone.
Adossava a Nerone la colpa dell’incesto con Agrippina.
Invece Cluvio Rufo dà la colpa della nova libido ad Agrippina.
Questa si era abbassata fino a un Pallante, sposata con lo zio et exercita ad omne flagitium (A, XIV, 2), aveva fatto il callo ad ogni turpitudine.
Era un autorevole senatore amico di Nerone. E’ la fonte meno ostile.
Un’altra fonte contemporarea all’imperatore e perduta è Plinio il Vecchio: scrisse una Historia a fine Aufidii Bassi che copriva gli anni di Nerone. Era ostile a Nerone quasi quanto Fabio Rustico.
Dichiarazione metodologica di Tacito: “Nos consensum auctorum secuturi, quae diversa prodiderint sub nominibus ipsorum trademus” (Annales, XIII, 20) seguiremo l’opinione degli autori che si trivano d’accordo, quando le versioni sono discordanti le presenteremo sotto il nome degli autori. Non diversamente premettono Curzio Rufo e Arriano
Nerone voleva uccidere la madre, ma Burro per il momento lo distolse.
Burro e Seneca si recano da Agrippina perché si giustifichi dalle accuse di Silvana che accusava l’imperatrice madre di volere prendere il posto del figlio, e questa ferociae memor (XIII, 21) memore della propria fierezza dice che Silana, donna senza figli, ignorava l’amore materno: neque enim proinde a parentibus liberi quam ab impudica adultĕri mutantur, i figli non vengono mutati dai genitori tanto quanto gli adulteri da una donna impudìca.
I presenti si commossero e Silana fu esiliata. Il mimo Paride invece per il momento fu risparmiato in quanto necessario alle dissolutezze del principe: solitus aliōquin id temporis luxus principis intendere (A. XIII, 20), solito del resto in quei momenti (per vinolentiam, durante i bagordi), stimolare la lussuria del principe.
L’imperatore lo farà uccidere solo nel 66, forse perché non era riuscito a imparare la danza (ojrcei'sqai) da lui (63, 18).
Nell’anno 56 c’era pace all’esterno, dissolutezza e disordine a Roma: otium foris, foeda domi lascivia Annales, XIII, 25). Nerone veste servili pererrabat itinera urbis et lupanaria et deverticula percorreva le vie della città lupanari e crocicchi travestito da schiavo e in compagnia di gentaglia rapinava botteghe e aggrediva passanti i quali a volte però riuscivano a segnarlo difendendosi.
Svetonio dice che “post crepusculum adrepto pilĕo vel galēro, si metteva un berretto o una calotta andava per le bettole, girava per i quartieri allegramente non senza fare danni, popīnas ibat circumque vicos vagabatur ludibundus, nec sine pernicie tamen” (26). Picchiava i passanti e li gettava nelle cloache, scassinava e depredava le botteghe. Poi vendeva il bottino in un mercatino che aveva organizzato in casa. Protraeva i banchetti da mezzogiorno a mezzanotte servito da prostitute e flautiste.
Cassio Dione racconta che dopo l’uccisione di Britannico, Nerone ejkfronei'n a[ntikru~ h[rxato (61, 7), cominciò a essere del tutto pazzo. Ottenne anche grande derisione gevlwta ijscuro;n parevscen, poiché puniva gli altri per delitti che lui stesso compiva.
Tacito afferma Manebat nihilo minus quaedam imago rei publicae (Annales, XIII, 28), tuttavia rimaneva una parvenza di Stato. Rimanevano i questori a capo dell’erario. Corbulone non voleva abbandonare l’Armenia, non gli sembrava degno della grandezza di Roma rinunciare alle conquiste di Lucullo e di Pompeo. Dopo la sconfitta subita da Mitridate (62 a. C., ad opera di Pompeo), la scelta del re dell’Armenia spettava a Roma. Ma i soldati assegnati a Corbulone erano nitidi et quaestuosi (13, 35), eleganti e avidi di guadagno.
Bologna 31 ottobre 2024 ore 20, 31 giovanni ghiselli
p. s.
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