Tucidide. Euripide e la parresia. Sofocle, Euripide, Isocrate, Arriano e il mito di Atene. Leggi scritte e non scritte
Anche i nostri padri costituenti sono debitori dei Greci, dell’Atene di Pericle in particolare.
Sentiamo alcune parole del lovgo~ ejpitavfio~ sui caduti nel primo anno di guerra, come vengono ricordate da Tucidide che può averle sentite pronunciare da Pericle nell’inverno 431-430 a. C.
Vediamo il paragrafo , II, 37, 1 delle Storie-
Noi, dice Pericle abbiamo una costituzione esemplare (paravdeigma) e degna di essere imitata. Si chiama democrazia è c’è una condizione di uguaglianza (to; i[son) per tutti. Si viene eletti alle cariche pubbliche secondo la stima del valore (kata; de; th;n ajxiwvsin) né uno viene preferito alle cariche per il partito di provenienza (oujk ajpo; mevrouς) più che per il valore (to; plevon ejς ta; koina; h] ajp j ajreth`ς), né del resto secondo il criterio della povertà (oujd j au\ kata; penivan) se uno può fare qualche cosa di buono per la città, ne è stato impedito per l’oscurità della sua posizione sociale (ajxiwvmatoς ajfaneiva/ kekwvlutai).
Sentiamo allora la nostra Costituzione.
Articolo 1: “L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”.
L’articolo 3 è forse il più “periclèo”: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di religione, di condizioni personali e sociali
Comma B. E’ compito della repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori alla organizzazione politica, economica e sociale del paese.
Nel Menesseno di Platone, il personaggio Aspasia dice che nessuno è stato escluso per povertà (peniva/), né per oscurità dei padri, né d’altra parte per condizioni opposte è stato ritenuto degno di onore (238d)
Sarebbe stata Aspasia a comporre il lovgo~ ejpitavfio~ di Pericle (236b).
Sentiamola: La nostra costituzione qualcuno la chiama democrazia, altri come vogliono, ma è invero un’aristocrazia con il consenso della massa- “esti de; th`/ ajlhqeiva/ met j eujdoxiva~ plhvqou~ ajristokrativa”. Noi abbiamo sempre avuto dei re[1].
Il popolo assegna cariche e potere a chi gli sembra essere il migliore: nessuno è stato escluso (ajphlevlatai oujdeivς) per debolezza, povertà, oscurità dei padri, né per motivi opposti (oujde; toi`ς ejnantivoiς) è stato onorato. C’è un solo limite (ei|ς o{roς): ha il potere e le cariche (kratei` kai; a[rcei) chi ha la reputazione di uomo saggio o buono (oJ dovxaς sofo;ς h} ajgaqo;ς ei\nai (238d)
La libertà
ejleuqevrwς…politeuvomen, liberamente viviamo da cittadini ( Tucidide II, 37, 2)
Parte importante di questa libertà nella cultura logocentrica, e parlata, dei Greci è la parrhsiva, come si legge nello Ione e nelle Fenicie di Euripide (Polinice).
La parresìa.
Parrhsiva potrebbe essere indicata come parola chiave di chi parla e scrive politicamente. Nello Ione[2] di Euripide il protagonista esprime il desiderio di ereditare da una madre ateniese questo privilegio, recandosi ad Atene, poiché lo straniero che piomba in quella città, anche se a parole diventa cittadino, ha schiava la bocca senza la libertà di parola ("tov ge stovma-dou'lon pevpatai[3] koujk e[cei parrhsivan", vv. 674-675).
Analogo concetto si trova nelle Fenicie[4] quando Polinice risponde alla madre sulla cosa più odiosa per l'esule:" e{n me;n mevgiston, oujk e[cei parrhsivan" (v. 391), una soprattutto, che non ha libertà di parola.
Infatti, conferma Giocasta, è cosa da schiavo non dire quello che si pensa.
"La parresìa è l'elemento che il Greco avverte come ciò che massimamente lo distingue dal barbaro. L'esule soffre della perdita della parresìa come della mancanza del bene più grande (Euripide, Fenicie, 391). Inutile ricordare che il valore della parresìa svolgerà un ruolo decisivo nell'Annuncio neo-testamentario. E dunque entrambe le componenti della cultura europea vi trovano fondamento"[5].
Su questa parola chiave gioca Victor Hugo quando riporta queste parole “ingenuamente sublimi” scritte da padre Du Breul nel sedicesimo secolo: “Sono parigino di nascita e parrisiano di lingua, giacché parrhysia in greco significa libertà di parola della quale feci uso anche verso i monsignori cardinali”[6].
Anche la nostra Costituzione conferisce somma importanza alla libertà di parola: "Articolo 19: "Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitare in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume.
Articolo 21: "Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione".
Pericle poi ricorda ouj paranomoũmen (II, 37, 3), non trasgrediamo le leggi, soprattutto obbediamo a quelle poste a tutela di chi subisce ingiustizia (o{soi te ejp j wjfeliva/ tw`n ajdikoumevnwn), e anche se non sono scritte (o{soi a[grafoi o[nteς) portano un disonore riconosciuto da tutti (aijscuvnhn oJmologoumevnhn fevrousin).
Leggi scritte e no. Solo un accenno.
Il dibattito leggi scritte o no si fa, a distanza, tra le opere di Sofocle (Antigone, Edipo re); Euripide (Supplici); Antifonte sofista (Della verità la legge danneggia la vita), Isocrate teorico dello schiavismo nell'Archidamo; Alcidamante antischiavista (Messeniaco).
In Platone il personaggio Callicle del Gorgia dice che le leggi sono vincoli para; fuvsin, mentre kata; fuvsin , secondo natura, è il diritto del più forte di prevalere ( 483e)
Lo scita Anacarsi, racconta Plutarco, derideva l'opera di Solone che pensava di frenare l'ingiustizia e l'avidità dei cittadini con parole scritte, gravmmasin, le quali non differiscono per niente dalle ragnatele ("a{ mhde;n tw'n ajracnivwn diafevrein", Vita di Solone, 5, 4), ma, come quelle, tratterranno le deboli e le piccole tra le prede irretite, mentre saranno spezzate dai potenti e dai ricchi. Il legislatore ateniese rispose che adattava il suo codice ai cittadini, in modo da mostrare a tutti che agire con giustizia è meglio che trasgredire le leggi. Ma, commenta Plutarco, le cose andarono a finire come supponeva Anacarsi il quale dopo avere assistito all'assemblea fece un'altra riflessione intelligente:"o{ti levgousi me;n oiJ sofoi; par& JvEllhsi, krivnousi d& oiJ ajmaqei'""(5, 6), che presso i Greci parlano i sapienti ma decidono gli ignoranti.
Infine Tacito: " corruptissima re publica plurimae leges", Annales, III, 27.
Cfr. anche lo scita Anacarsi a Solone in Plutarco.
Torniamo a Tucidide.
“Offriamo la nostra città come bene comune per chi vuole imparare o assistere ai nostri spettacoli. Non pratichiamo xenhlasiva, il bando degli stranieri, non escludiamo alcuno dall’imparare o dal vedere (kai; oujk ajpeivrgomevn tina h} maqhvmatoς h} qeavmatoς (II, 39, 1), anche se il nemico se ne può avvantaggiare.
L’articolo 10 della nostra Costituzione dice: “Lo straniero al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica. Non è ammessa l’estradizione per motivi politici”.
Il mito di Stato con la celebrazione di Atene che accoglie e protegge i perseguitati è presente in diverse tragedie del V secolo.
Negli Eraclidi di Euripide, Demofonte, figlio di Teseo e di Fedra, accoglie i supplici perseguitati da Euristeo. Nella parodo, il coro dice che è empio per una città trascurare la supplice preghiera di stranieri (107-108)
La terra ateniese da sempre vuole contribuire con la giustizia ad aiutare chi è privo di risorse: “ajei; poq j h{de gai`a toi`ς ajmhcavnoiς su;n tw̃/ dikaivw/ bouvletai proswfelei`n” (329-330).
Arriano fa dire a Callistene che un fuggitivo poteva salvarsi presso gli Ateniesi che avevano combattuto Euristeo il quale perseguitava gli Eraclidi e allora tiranneggiava la Grecia: “turrannou`nta ejn tw̃/ tovte th`ς JEllavdoς (Anabasi di Alessandro, 4, 10, 4).
Nelle Supplici di Euripide, Etra, la madre di Teseo, incoraggia il figlio ad aiutare le donne argive le quali pregano Atene di soccorrere le madri: tu non lasci spazio all’ingiustizia e proteggi i disgraziati ( 379-380).
Nell’ Edipo a Colono il protagonista dice che Atene è la città più pia (
j Aqhvna~ fasi; qeosebestavta~), la sola capace di aiutare lo straniero maltrattato (260-262)
Quindi Isocrate nel Panegirico , un caldo elogio di Atene, composto tra il 390 e il 389 ricorda che prima della guerra di Troia gli Eraclidi e Adrasto re di Argo andarono nella città di Pallade (54)
Nella Tebaide di Stazio, Giunone si muove verso le mura di Atene per convincere Pallade, ad aprire Atene bendisposta verso i supplici pii (supplicibusque piis faciles aperiret Athenas (XII, 294).
Bologna 26 ottobre 2024 ore 11, 32 giovanni ghiselli
p. s.
Statistiche del blog
Sempre1632764
Oggi680
Ieri180
Questo mese7992
Il mese scorso9470
[1] Il secondo arconte che presiedeva al culto, aveva il titolo di re ndr.
[2] Del 411 a. C.
[3] Forma poetica equivalente a kevkthtai.
[4]Rappresentata poco tempo dopo lo Ione. Tratta la guerra dei Sette contro Tebe.
[5] M. Cacciari, Geofilosofia dell'Europa, p. 21 n. 2.
[6] Notre-Dame de Paris, p. 38.
Nessun commento:
Posta un commento