NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

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mercoledì 23 ottobre 2024

Testimonianze greche e latine su Annibale. Metodologia di Polibio storiografo tucididèo.


 

Annibale in Cornelio Nepote.

Annibale fu superiore a tutti gli altri comandanti prudentiā,  per l’abilità e la capacità. Infatti in Italia sconfisse sempre i Romani. Venne però debilitatus dall’invidia dei suoi concittadini, altrimenti avrebbe potuto vincere i Romani. Sed multorum obtrectatio devicit unius virtutem (2), la maligna maldicenza di molti vinse la virtù di uno. Attraversò le Alpi quas nemo umquam cum exercitu ante eum, praeter Herculem Graium, transierat, quo facto is hodie saltus Graius appellatur.


 

Polibio racconta la guerra annibalica nel III libro.

 

Polibio ricorda quale è stata la causa della IIGP  secondo  Fabio Pittore,260-190- il più antico annalista romano il cui racconto arrivava alla guerra annibalica. Ne sono rimasti pochi frammenti. Aveva un’ottica filoromana.

 

 

FABIO Pittore, Quinto (Q. Fabius Pictor) 260 a.C. circa – 190 a.C.

Dopo la battaglia di Canne, già senatore, fu mandato a Delfi per interrogare l'oracolo e forse anche per sollecitare l'aiuto della lega etolica contro la minaccia della Macedonia. Scrisse in greco la sua opera, , ωμαίων πράξει~, che andava dalle origini dei Romani, considerati come discendenti di Enea, sino, pare, alla fine della seconda guerra punica (il frammento più recente si riferisce alla battaglia del Trasimeno). Della sua opera si ebbe anche una tradizione latina. Annibale continuò la politica del padre e, secondo Fabio, agì contro il parere del governo cartaginese

 

Filino di Agrigento (III secolo)  invece raccontò la IGP con un punto di vista filocartaginese.

 

 Polibio è filoromano. Secondo lo storiografo greco dunque  cause della IIGP furono  la pleonexiva e la filarciva dei Barcidi e il torto (ajdivkhma) contro i Saguntini (III, 8, 1).

.Polibio attribuisce la responsabilità della guerra a tutti i Cartaginesi.

Io dico che i lettori devono dare i loro giudizi secondo l’attendibilità dei fatti stessi  (ejgw; de; fhmi; me;n dei'n ejx aujtw'n tw'n pragmavtwn poiei'sqai tou;~  ajnagignwvskonta~ ta;~ dokimasiva~ , 3, 9, 5).

 

Dunque fu lo spirito revanscista di Amilcare-290-228- a scatenare la guerra. Amilcare poi seppe inculcare ai figli, Annibale e Asdrubale, questo suo odio contro i Romani.

 La sconfitta subita da Annone alle Egadi (241) non  aveva scoraggiato Amilcare. Le sue truppe dell’Erice (monte sopra Trapani) conservavano lo spirito combattivo. Amilcare ritardò solo per l’esigenza di domare la rivolta dei mercenari guidati da Mato e Spendio.

I Cartaginesi dovettero ritirarsi dalla Sardegna, ma Amilcare andò a preparare la rivincita in Spagna. Polibio dice che Annibale raccontò ad Antioco, nel 193, l’episodio della sua infanzia, quando era un bambino di nove anni e il padre gli ordinò di toccare gli arredi sacri e giurare che non avrebbe mai fatto amicizia con i Romani: “kevleuein, aJyavmenon tw'n iJerw'n, mhdevpote  j Rwmaivoi~ eujnohvsein “(3, 11, 7).

Antioco si rassicurò.

 

Nel 228 dunque Amilcare morì, gli succedette il genero Asdrubale e nel 221 le truppe acclamarono Annibale comandante supremo. Annibale suscitò nei soldati pollh;n eu[noian verso se stesso e megavla~ ejlpivda~ (3, 13, 8) per il futuro gratificandoli dopo i successi. Annibale procedeva di vittoria in vittoria, ma prima di attaccare Sagunto aspettava di essersi impadronito del resto del territorio. Era stato il consiglio di Amilcare.

 I Saguntini avevano capito le sue intenzioni e mandavano ambascerie a Roma.

 I Romani mandarono ad Annibale una ambasceria ed egli la ricevette (3, 15, 4).

Livio che vuole mettere Annibale dalla parte del torto sostiene invece che non la ricevette (21, 9).

 Polibio dice che Annibale a{te  nevo~ me;n w[n, plhvrh~ de; polemikh`~ oJrmh'~ (3, 15, 6), siccome giovane e pieno di ardore marziale, incoraggiato dal successo delle sue prime imprese, e spronato da sempre dall’odio contro i Romani, di fronte alla delegazione, si atteggiò a difensore dei Saguntini  (wJ~ khdovmeno~ Zakanqaivwn) rinfacciando ai Romani l’esecuzione di alcuni cittadini di Sagunto filocartaginesi ( 3, 15, 7).

Siamo nel 220 quando Annibale (del 246) aveva 26 anni.

 Era tradizione cartaginese, disse, non disinteressarsi di nessuno  tra quelli che ricevevano dei torti. Come gli Ateniesi di Euripide e di Isocrate. Insomma Annibale era plhvrh~ ajlogiva~ kai; qumou' biaivou (3, 15, 9) pieno di irragionevolezza e di passione violenta.  Come Medea.

Si vede qui la parzialità di Polibio. Quindi gli ambasciatori romani andarono a Cartagine.

 

Intanto Demetrio di Faro, succeduto a Teuta, appoggiandosi alla Macedonia saccheggiava le città illiriche soggette ai Romani. Aveva aiutato Antigono Gonata contro Cleomene III re di Sparta (222).

 

Nella primavera del 219 Annibale assedia Sagunto. La prese dopo 8 mesi.

Nell’assedio si presentava ai soldati come modello (uJpovdeigma tw/' plhvqei poiw'n auJtovn, 3, 17, 8) rischiando personalmente.Proprio come faceca Alessandro Magno.

 

Intanto il console romano Emilio sconfisse e costrinse alla fuga Demetrio di Faro, il quale si rifugiò da Filippo V di Macedonia.  Demetrio morì nel 214 combattendo contro Messene. Il padre di Alessandro Magno era Filippo II.

 

Nel giugno del 218 partì l’ambasceria per Cartagine: o consegnavano Annibale o scoppiava la guerra. I Cartaginesi cercarono delle giustificazioni che i Romani non accettarono.

Bisogna fare un’analisi attenta perché gli studiosi non falliscano il bersaglio (i[namhv oi filomaqou'nte~ peri; touvtwn ajstocw'si, 3, 21, 10, ) fuorviati dalla ignoranza e dalla parzialità degli storici sumplanwvmenoi tai'~ ajgnoivai~ kai; filotimivai~ tw'n suggrafevwn.

ajstocevw-stovco~ è il bersaglio- stocavzomai prendo la mira

 

Quindi Polibio esamina i vari trattati fra Roma e Cartagine risalendo al primo del 509 al tempo dei consoli  Giunio Bruto e Marco Orazio.

Gli annalisti romani fanno risalire il primo trattato al 348.

Polibio traduce il primo trattato dal latino arcaico: Romani e Cartaginesi si dividevano le sfere d’influenza: il Lazio ai Romani, la costa africana a ovest del  promontorio Bello (ossia Numidia e Mauretania) ai Cartaginesi. La Sicilia era in mezzo. La Sardegna e la Libia sono considerate dai Cartaginesi possedimenti propri, la Sicilia era riservata ai Cartaginesi solo nella parte occidentale. I Romani consideravano solo il Lazio sfera del proprio dominio.

Polibio poi ricorda un secondo trattato del 348 (in realtà il primo). I Cartaginesi vi inclusero Tiro e Utica. Di nuovo: La Libia, Sardegna e Sicilia occidentale ai Cartaginesi, Lazio ai Romani

 L’ultimo trattato fu stipulato nel 279, al tempo del passaggio di Pirro in Italia. Era un patto di alleanza in funzione difensiva contro Pirro.

I trattati venivano confermati dai giuramenti: i Cartaginesi giuravano per gli dèi della patria, i Romani nel primo trattato giurarono per Giove pietra: to;n o{rkon ojmnuvein e[dei  Diva livqon (3, 25, 6). Scagliavano una pietra lontano, come sarebbe accaduto allo spergiuro allontanato dalla patria. In latino Iovem lapidem iurare (Cic. Fam. 7, 2, 2). Negli anni successivi i Romani giurarono su Marte e Quirino. Questi trattati sono ancora conservati nell’Erario degli Edili, l’atrium publicum vicino al tempio di Giove Capitolino. Filino ha ignorato questi documenti e ha scritto il contrario di quanto dicevano i giuramenti, affermando che i Romani violarono i patti e giuramenti con la spedizione in Sicilia. (uJperevbainon   JRwmai'oi ta;~ sunqhvka~ kai; tou;~ o{rkou~,  3, 26, 4). Si può casomai rinfacciare ai Romani l’alleanza con i malfattori Mamertini.

Quindi Polibio riporta il trattato del 241 (che escludeva i Cartaginesi dalla Sicilia e dalle isole comprese tra Sicilia e Italia) con l’aggiunta della clausola del 238 che escludeva i Cartaginesi dalla Sardegna.

Asdrubale  aveva pieni poteri quando sottoscrisse il patto: “ to;n

 [ Ibera potamo;n mh; diabavnein ejpi; polevmw/ Karchdonivou~  (3, 29, 4), i cartaginesi non avrebbero attraversato l’Ebro in armi.

Ma i Cartaginesi dicevano che il trattato non aveva valore in quanto non ratificato dal senato. I Cartaginesi comunque avevano torto per Sagunto. Potevano avere ragione invece per l’indebita sottrazione della Sardegna e per il nuovo tributo imposto a Cartagine.

 

Parte metodologica: La conoscenza del passato non solo è bella ma necessaria: “ouj movnon kalhvn, e[ti de; ma'llon ajnagkaivan ei\nai fhmi th;n tw'n parelhluqovtwn ejpivgnwsin (3, 31, 4).  Infatti le vicende del passato prendono la loro verifica dai fatti stessi: “ejx aujtw'n tw'n pragmavtwn lambavnonta th;n dokimasivan ” (8) e rivelano con verità le inclinazioni e le concezioni di ciascuno. “ajlhqinw'~ ejmfaivnei ta;~ eJkavstwn aiJrevsei~ kai; dialhvyei~”.

 Lo storiografo e il lettore devono cercare le cause. Infatti se si toglie alla storia to; dia; ti kai; pw'~ kai; tino~ cavrin ejpravcqh to; pracqe;n kai; povteron eu[logon e[sce to; tevlo~, il perché, e come, e con quale scopo, il fatto venne compiuto, e quale esito verosimile ebbe, il resto è ajgwvnisma mevn, mavqhma d’ ouj givnetai , è declamazione, un saggio di retorica, a clever essay, non un insegnamento kai; parautivka me;n tevrpei, pro;~ de; to;  mevllon oujden wjfelei' to; pavrapan ( 3, 31, 13) e lì per lì diletta ma non è punto utile per il futuro. E’ un formula tucididèa.

Il IX libro inizia con due capitoli metodologici: Polibio dichiara di sapere bene che la sua opera presenta una certa secchezza di stile ("aujsthrovn ti" IX, 1, 2) e potrà ottenere l'approvazione di una sola classe di lettori: non dei dilettanti che cercano storie genealogiche, nè di coloro che amano i racconti straordinari come quelli che trattano di colonie, fondazione di città e rapporti di parentela. La sua storia  invece è prammatica, ossia tratta azioni politiche, narra avvenimenti contemporanei, e mira non tanto allo svago dei lettori quanto all'utilità di quanti vogliono riflettere seriamente ("hJmei'" oujc ou{tw" th'" tevryew" stocazovmenoi tw'n ajnagnwsomevnwn wJ" th'" wjfeleiva" tw'n prosecovntwn" IX, 2, 6).

 

A proposito Canfora osserva:" Non trascura neanche la metodologia storica. Qui gli giova Tucidide, bersaglio frequente della sua imitazione: come ad esempio nel proemio al IX libro (2-7), dove riprende le parole ed i concetti con cui Tucidide 'prevedeva' (I, 22, 4) l'insuccesso nell'immediato della propria opera"[1].

 

Sentiamo altre dichiarazioni di metodo. Polibio manifesta più volte l'intenzione di dire la verità a costo di provocare dispiaceri e risentimenti. Del resto nessuna persona dal retto giudizio riterrebbe amico sincero ("fivlon...gnhvsion") uno che sia timido ed abbia paura di parlare con franchezza ("to;n dediovta kai; fobouvmenon tou;" meta; parrhsiva" lovgou"", XXXVIII 4, 3); inoltre non si deve considerare affatto scrittore di storia politica chi valuta qualcos' altro più della verità ("suggrafeva de; koinw'n pravxewn oujd j o{lw" ajpodektevon to;n a[llo ti peri; pleivono" poiouvmenon th'" ajlhqeiva"", 4, 5). Lo storico deve rispettare tanto più la verità quanto più numeroso è il pubblico cui si rivolge e quanto più lontana nel tempo è destinata ad arrivare la sua opera. La narrazione deve restare libera da ogni falsità poiché non è suo compito dilettare momentaneamente gli orecchi dei lettori ma educarne profondamente lo spirito affinché non ricadano più spesso negli stessi errori ("cavrin tou' mh; tai'" ajkoai'" tevrpesqai kata; to; paro;n tou;" ajnagignwvskonta", ajlla; tai'" yucai'" diorqou'sqai pro;" to; mh; pleonavki" ejn toi'" aujtoi'" diasfavllesqai", XXXVIII, 4, 8). E' questo un insegnamento specificamente tucididèo (cfr. I, 22), e, da quando Tucidide legiferò (" jO d j ou\n Qoukidivdh"...ejnomoqevthse"), come afferma Luciano[2], la legge della verità divenne ineludibile per i suoi seguaci: nell'ultimo capitolo del suo opuscolo  Luciano aggiunge che bisogna scrivere la storia con verità ("su;n tw'/ ajlhqei'") e con il pensiero rivolto piuttosto  alla speranza futura che con adulazione mirando a compiacere quelli elogiati al momento presente ("pro;" to; hJdu; toi'" nu'n ejpainoumevnoi"", 63). Del resto lo scrupolo della verità a tutti i costi e la volontà di educare i posteri non si trova solo nei seguaci di Tucidide: Dante parlando con Cacciaguida esprime gli stessi dubbi e propositi che abbiamo letto in questi storiografi:"e s'io al vero son timido amico,/temo di perder viver tra coloro/che questo tempo chiameranno antico" (Paradiso , XVII, 118-120.)

 

Polibio sembra voler sottolineare la differenza tra la sua storia pragmatica e la letteratura spettacolare, scritta per il teatro, o quella libresca, fatta di cose apprese nei volumi. Ricorrente è la sua polemica contro Filarco il quale del resto"non è certo il solo ad essere accusato, poiché Polibio non ha pietà né di quegli storici che narravano fantasiosi racconti sul passaggio delle Alpi da parte di Annibale [3] , né di altri che riferivano favolose storie sul carro di Fetonte e sulla trasformazione delle sue sorelle in pioppi in Lombardia[4], tanto per citare solo due tra i molti esempi. La storiografia era intessuta di elementi tragici e mostruosi, e in tal modo gli argomenti seri venivano soppiantati da banalità[5]"[6].

La storia seria dunque è costituita di esperienza (th'sde th'" ejmpeiriva") di fatti :"Per questo tipo di storia Polibio ha una definizione speciale: pragmatikh; iJstoriva o pragmatiko;" trovpo"[7], espressione che spesso è stata fraintesa". Walbank definisce tale storia "come la storia politica e militare" e aggiunge che "si tratta inoltre di storia contemporanea"[8].

 

A questa dichiarazione si può accostare quella del realismo di  Marziale:"Non hic Centauros, non Gorgonas Harpyasque/invenies: hominem pagina nostra sapit "(X, 4, 9-10), non qui troverai Centauri, Gorgoni e Arpie: la nostra pagina sa di uomo.

 

Tali "digressioni polemiche" di Polibio tendono a "quell'abile e saccente demolizione degli altri storici" che contribuì a "costruire intorno alla propria opera una efficace immagine di autorevolezza". Del resto "vi contribuì certamente la cerchia influentissima, decisiva per gli sviluppi della cultura romana, di cui era saldamente entrato a far parte", ma la supponenza manifestata nei confronti dei colleghi storiografi ("nell'VIII libro contro Teopompo; nel XII contro Timeo; ma insoddisfatto è anche di Filarco, Filino, Fabio Pittore, Arato e così via"[9]) non fu ininfluente sul successo delle sue Storie.

 

Bologna 23 ottobre 2024 ore 11, 03 giovanni ghiselli

 

p. s.

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[1] Canfora , Storia Della Letteratura Greca , p. 523.

[2] Come si  deve scrivere la storia , 42     

[3]III, 48, 8. Costoro impostano il racconto come una tragedia, quindi hanno bisogno del deus ex machina  per risolverlo.

[4]II, 16, 13-15: si allude forse a Timeo.

[5]III, 20, 5: Sosilo e Cherea raccontano trivialità simili ai pettegolezzi che si ascoltano dal barbiere.

[6]F. Walbank, op. cit., p. 137.

[7] IX, 1, 2, 4

[8]F. Walbank, op. cit., p. 145.

[9]Canfora, Storia Della Letteratura Greca , p. 529.

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