NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

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venerdì 18 ottobre 2024

Come si possono introdurre i tragici greci a chi vuole iniziarsi

Il professore apprendista. Il sogno di un colloquio  con Sofocle
Prima parte
 
Poco prima di compiere 31 anni, nell’ottobre del 1975, ricevetti la cattedra di latino e greco nel liceo classico Rambaldi di Imola. Ne fui contento perché avevo studiato al liceo classico, poi lettere classiche all’Università con l’intento di insegnare queste materie.
Ma ne ero anche spaventato perché provenivo da anni di lontananza dalle lingue e letterature antiche. In cinque anni di insegnamento nella scuola media e un altro in un istituto professionale femminile avevo dimenticato molto, se non proprio tutto. Avevo superato un esame di abilitazione poi un concorso, è vero, ma non è con queste prove che si impara a insegnare bene delle discipline trascurate per anni. Alle medie ero stato un buon educatore di bambini, credo, ma avevo impartito un sapere minuto e nello stesso tempo generico, dato che per quanto riguarda i testi studiati da adolescente nel liceo Mamiani di Pesaro poi negli anni universitari a Bologna, li avevo dimenticati abbeverandomi  a lungo nel fiume Lete.
Quando mi presentai per iniziare il nuovo lavoro, la paura di non essere in grado di farlo decentemente aumentò: dovevo preparare i ragazzi dell’ultimo anno alla maturità il cui pezzo forte all’orale allora era la tragedia greca e il collega dell’anno precedente aveva adottato l’Edipo re di Sofocle.
Ebbene, da studente liceale io avevo portato alla maturità le Troiane di Euripide e per i due esami universitari di greco sostenuti un paio di anni più tardi  avevo dovuto preparare tutta l’Odissea di Omero e sette tragedie  di Euripide.
Di Sofocle dunque avevo  una  conoscenza minima, insufficiente, soltanto manualistica: vita e titoli delle opere. Nemmeno tutte le trame conoscevo. Per giunta questo poeta aveva una fama di reazionario che lo metteva quasi all’indice negli anni Settanta.
Mi diedi da fare, cioè impiegavo diverse ore al giorno per tradurre i primi versi della tragedia in programma e ripassare i tecnicismi della lingua greca, però, non avendo una visione d’insieme non solo dell’opera sofoclea ma nemmeno dell’Edipo re, ero appena in grado di fare la  traduzione delle parole  e un commento grammaticale, sintattico e metrico ai trimetri giambici greci. Le ragazze e ragazzi che avevano undici anni meno di me, e ci si dava del tu con fare amichevole, mi dissero con garbo che la traduzione dei versi l’avevano già nel libro adottato, e i paradigmi verbali li trovavano nel vocabolario. La grammatica potevano rivedersela da soli. Da me avrebbero voluto un commento estetico, storico, filosofico. Un discorso critico che desse una visione d’insieme della tragedia greca e di Sofocle. Non ero in grado di dare tale sinossi che mancava anche a me.
Racconto questo per dire che la scuola non mi aveva insegnato a insegnare, a interessare, a formare e informare gli allievi, ma solo a imparare quello che sapevano e dicevano i miei insegnanti.
Compresi che non ero attrezzato per fare bene il mio lavoro.
“Ditemi voi cosa devo studiare, imparare e insegnarvi”, chiesi con la dovuta  umiltà .
La nascita della tragedia di Nietzsche-, risposero-hai fatto studi universitari e puoi capirla; per noi è troppo densa e difficile”
All’università, Nietzsche non mi era stato nemmeno nominato, e al liceo  era bandito quale teorico del nazismo.
Corsi a comprare quell’opera giovanile del  filosofo grecista: mi affascinava,  ma ne capivo poco anche io. Non sapevo come fare. Ero tentato di rinunciare e retrocedere, però, conoscendo invece discretamente Omero, uno dei due soli autori letti all’Università,  ripetei il motto protrettico, esortativo, di Achille a se stesso:  ouj lhvxw”, non cederò e rammentai pure il desiderio che aveva Odisseo di  imparare a ogni costo, anche  a rischio della vita.
Una di quelle prime sere, eravamo nell’ottobre del 1975, andando a letto, tornai a pregare gli eroi e gli dèi della Grecia: “venite a trovarmi, aiutatemi ancora”. L’amore per la cultura greca non mi mancava.
 
Quella notte venne ad aiutarmi Sofocle, poi si aggiunse anche Euripide.
Il poeta di Colono morto già novantenne si presentò mentre dormivo: aveva l’aspetto di un bel vecchio, educato e gentile. Si presentò dicendomi di essere il poeta che dovevo imparare a conoscere e aggiunse che Aristofane l'aveva racchiuso in una formula limitativa presentandolo come  oJ d j eu[kolo" me;n e[nqavd j, eu[kolo" d j ejkei'", quello di buon carattere qua come là  (Rane, v.82). Buono da vivo e pure da morto dunque.
Lui era anche altro. Ma  questo gli si addiceva. Perciò non dovevo temerlo. Pensai  che presentando ai giovani un autore bravo e un uomo buono, magari avrei potuto bonificare anche le loro menti, e la mia.
 
Gianni: “Spiegami in che cosa consiste la bontà di carattere in  generale, e la tua in particolare”, lo pregai.
SofocleBontà è favorire la vita. Bontà suprema è quella divina- rispose- Oggi nel mondo la bontà scarseggia o latita siccome tramontano gli dèi. Un declino iniziato già ai tempi miei. So che tu dovrai spiegare il mio Edipo re. Ti consiglio di iniziare mettendo in evidenza le quintessenze di questa tragedia attraverso le parole chiave. Fai bene a tradurle letteralmente, a rispettare le mie scelte stilistiche.  Devi evidenziare questa denuncia del coro “: “e[rrei de; ta; qei`a” (Edipo re, 910), va in malora il divino.
Il sacrilego Euripide porta la sofistica, il relativismo e il razionalismo sulla scena e corrompe il popolo ateniese come dice bene il personaggio Eschilo nelle Rane di Aristofane. Io mi oppongo con la mia opera al dilagare dell’empietà. Grazie agli dèi, il pubblico e i giudici preferiscono me agli altri due. Ho la prospettiva di un popolo colto che mi ascolta e crede in me più che agli  empi, esosi sofisti. Si fanno pagare vendendo il loro vantato sapere, così come fanno prostitute mercanteggiando il corpo.
Ti faccio un esempio di empietà di due personaggi della tragedia da me confutati. Nell’Edipo re la regina Giocasta bestemmia gli oracoli i cui sacerdoti sono profeti della divinità
La bestemmia contro il numinoso che, nelle mie tragedie, come nella Storia di Erodoto, aleggia sulla terra assumendo varie forme, viene proclamata e autorizzata dall’incestuosa regina che impreca: " O vaticini degli dei, dove siete?- w\ qew'n manteuvmata,-i{n j ejstev" (946-947)
Le  fa eco il figlio-marito, sua vittima prima, poi complice, con questa tirata blasfema:" Ahi, perché dunque, o donna, uno dovrebbe osservare/ il fatidico altare di Delfi o gli uccelli/ che schiamazzano in alto? (...) Gli oracoli che c'erano, li ha presi/ Polibo che giace presso Ade, ed essi non valgono nulla"(vv.964- 966 e 971-972).
Versi cruciali  del dramma sono anche questi detti da Edipo in una scena precedente:"arrivato io ejgw; molwvn,/  che non sapevo nulla, la feci cessare e[pausav nin/ azzecandoci con l'intelligenza e senza avere imparato nulla dagli uccelli gnwvmh/ kurhvsa" oujd j ajp j oijwnw'n maqwvn 396-398-". Edipo si vanta di avere sconfitto  la"cantatrice dura"(v.36), la "Sfinge dal canto variopinto"(v.130),  avvalendosi soltanto della propria intelligenza.
Tale affermazione di autonomia della povera mente umana, per me, che sono  tradizionalista e pio, è u{bri", dismisura, prepotenza, cecità intellettuale e morale che fa crescere la mala pianta del tiranno (v.873), il quale è perciò destinato a precipitare nella necessità scoscesa (v.877) del castigo e della rovina. Precipitando si azzoppa siccome la tirannide è una potere claudicante.
Il coro nel secondo stasimo reagisce con parole di condanna e conclude:
“Non andrò più all'intangibile/ ombelico della terra a pregare,/ né al tempio di Abae,/ né a Olimpia, /se queste parole indicate a dito/ non andranno bene a tutti i mortali. /Ma, o potente, se davvero è retta la tua fama,/Zeus signore del tutto, non sfugga questo a te/e al tuo potere sempre immortale./ Infatti già estirpano/gli antichi vaticini di Laio consunti/e in nessun luogo Apollo/risplende per gli onori/e tramontano gli dei" (vv. 897--910).
Se parti da questi versi, giovane professore apprendista, entri subito nel nucleo della tragedia e lascerai nei ragazzi un’impressione buona, un’impronta profonda di educazione estetica ed etica”.
 
Gianni: “Hai ragione sono solo un tirocinante ma in fondo ogni uomo buono lo è per tutta la vita, anzi per sempre, quindi lo sei anche tu” gli dissi
Poi feci presente al vecchio poeta e gentiluomo che questa sua religiosità poteva venire tacciata dai giovani di superstizione, addirittura di clericalismo bigotto e reazionario.
 
Mi rispose che le sue parole stavano sempre dalla parte della vita e se erano retrograde fuggivano lontano dall’ u{bri~, prepotenza e dismisura, e dal   mivasma il  contagio mortale come quello portato da Edipo a Tebe.
Quindi mi disse che aveva favorito la vita anche condannando la  guerra, perfino il dio della guerra, Ares, poiché la sua eujsevbeia la devozione religiosa da poeta educatore e pio era sempre stata favorevole alla vita. Tale pietà sarebbe piaciuta senz’altro a ragazze e ragazzi. Dovevo evitare di presentare il Sofocle imbalsamato da certa filologia deretana, mi avvertì. Non sapevo ancora nulla del pamphlet Afterphilologie di Erwin Rohde in difesa di Nietzsche,  ma Sofocle conosceva quanto era ignoto al semplice apprendista. Avevo molto da imparare.
Lo pregai di segnalarmi i suoi versi di condanna della guerra.
 
 
 
Il sogno dell’apprendista. Seconda parte. Sofocle, Euripide e il docente-discente.
 
La guerra nei tre tragici greci
 
 Sofocle: “Sulla guerra non ho mai avuto dubbi”.
 
Gli chiesi di citarmi alcuni suoi versi di condanna della guerra.
 
Sofocle: “parto dell’ Edipo re, la tragedia che dovrai tradurre e commentare per i tuoi allievi”.
 
Gianni.  “Ti ringrazio. Aiutami, caro maestro, indicandomi le tue espressioni più belle e significative, tali che colpiscano la sfera emotiva di quei ragazzi oltre quella mentale. Il mio scopo è farmi ascoltare con attenzione. Vorrei fare una bella figura con loro: è necessario interessarli per educarli. Vorrei anche piacere a quei giovani carini, garbati.
 
Sofocle: “Certo, l’educazione è l’obiettivo dei maestri e degli artisti.
Ascolta dunque: “il Coro  nella parodo dell’Edipo re invoca gli dèi dell’ordine cosmico, dell’arte, del benessere e degli agoni ginnici- Zeus, Apollo, Minerva, Artemide-, mentre depreca, cioè prega che si allontani con una corsa retrograda, precipitosa, Ares il dio della guerra-to;n malerovn, il violento (190), to;n ajpovtimon ejn qeoi`~ qeovn, il dio disonorato tra gli dèi (215).
Devo avere proprio detestato la guerra per escludere dalla mia devozione e infamare il dio cui stanno a cuore i massacri.
Anche Eschilo lo ha fatto mentre Euripide è rimasto ambiguo su questo argomento.
 
Gianni:“Rammentami le posizioni di questi tuoi colleghi e rivali, ti prego.
 
Sofocle: “Eschilo  chiama Ares "oJ crusamoibo;" d j  [Arh" swmavtwn" (Agamennone, v.437), il cambiavalute dei corpi, nel senso che la guerra trasforma gli uomini in cadaveri e arricchisce gli speculatori
Infatti, subito prima, il coro di 12 vecchi argivi nel primo stasimo di questa tragedia rappresentata nel 458 canta:
“ invece di uomini, urne e cenere ritornano alla casa di ciascuno.
 
Gianni “ Ti prego: ripetilo nella vostra lingua che amo  quanto la mia”
Sofocle
ajnti; de;  fwtw`n
teuvch kai; spodo;~ eij~ 
ejkavstou dovmo~ ajfiknei`tai”( vv. 434-436).
 
Gianni: “Mi fai venire voglia di riprendere a studiare il greco con tutte le forze: la lingua e la letteratura. Con versi come questi, che non conoscevo, posso dare un’educazione anche morale alle ragazze e ai ragazzi. La guerra è il primo fattore che danneggia, opprime e distrugge la vita ed è sempre incombente sull’umanità. Un pessimo possesso  perenne, kavkiston kth`ma ej~ aieiv”.
Mi dicevi che Euripide su questo non è coerente”
 
Sofocle: “ Infatti: nelle Troiane il collega esecra la distruzione di Troia, mentre alla fine della sua vita, nell’ Ifigenia in Aulide fa proclamare la guerra santa contro i Troiani dalla figlia primogenita di Agamennone.  Ifigenia deve sacrificare la propria vita se suo padre, il duce supremo, vuole condurre la flotta contro Troia.  La ragazza in un primo momento ne ha paura poi invece si appresta a morire con entusiasmo per la vittoria dell’Ellade, della civiltà sulla barbarie ”.
 
Gianni: “Mi piacerebbe sentire come si giustifica  Euripide”, azzardai
 
Sofocle non si fece pregare e convocò il tragediografo più giovane, morto del resto un poco prima di lui. Entrambi sul finire del V secolo e dall’età d’oro della cultura ateniese
 
Si aggiunse dunque Euripide che salutò, poi disse queste parole:
“ho scritto le Troiane dopo l’orrendo massacro non privo di stupri perpetrato dagli Ateniesi nostri concittadini nei confronti degli abitanti della piccola isola di Melo. Lo sdegno mi ha dettato i versi di questa tragedia rappresentata nel 415.
Nel prologo, appare il dio del mare Poseidone. Vi ricordo le sue  prime parole:
Sono giunto qui, io Poseidone, lasciata la salsa
   profondità Egea del mare dove danze di Nereidi
muovono in cerchio la bellissima ombra del piede” (vv. 1-3).
Il dio del mare  conclude la propria parte del prologo con la denuncia e la condannna delle distruzioni belliche : “E’ stolto tra i mortali chi devasta le città,/
consegnando al deserto templi e tombe, luoghi sacri/
dei morti: egli stesso  passato poco tempo è già morto” (93-96)  
Tutti perdono le guerre, nessuno le vince.
Più avanti Cassandra la principessa profetica invasata da Apollo dirà che i greci vincitori sono o saranno colpiti dalla sventura più dei vinti.
Ricordo alcuni versi detti dalla ragazza invasata alla propria madre
“Farò vedere  che questa città è più felice 365
degli Achei, - sono posseduta dal dio, certo, ma tuttavia
per il tempo necessario starò fuori dal delirio.
Costoro per una sola donna e una sola Cipride,
mentre andavano a caccia di Elena, ammazzarono innumerevoli persone.
E il comandante, il saggio, per scopi più odiosi
mandò in rovina gli affetti più cari, sacrificando al fratello
le gioie domestiche dei figli; per una donna,
 una  consenziente e non rapita a forza si compirono questi obbrobri.
Quando giunsero alle rive dello Scamandro,
morivano, non perché privati dei confini della terra, 375
né della patria dalle alte torri. E quelli che Ares prendeva
non videro i figli, e non furono avvolti nei pepli
dalle mani della sposa, ma in terra straniera
giacciono. Gli eventi di casa loro poi accadevano simili a questi:
vedove morivano le donne, e gli uomini morivano senza figli nelle case
dopo avere allevato i figli per altri; né sulle tombe
di quelli c’è chi  donerà sangue alla terra.
Davvero una spedizione degna di questo elogio!
Tacere i turpi misfatti è meglio, né la mia musa
Diventi la cantatrice che celebrerà i mali. 385
I Troiani invece, innanzi tutto, ed è la gloria più bella,
morivano per la patria, e quelli che la lancia abbatteva,
portati morti nelle case dagli amici
nella materna terra nativa avevano l’ultima veste di zolle,
composti dalle mani di chi si doveva; 390.
e quanti non morivano in battaglia dei Frigi,
sempre, giorno per giorno abitavano con la sposa
e con i figli le cui gioie erano lontane dagli Achei.
La sorte di Ettore poi, secondo te amara, senti come sta:
se ne è andato, morto, reputato l’uomo più valoroso,
e questo glielo procura la venuta degli Achei” (365-396)
 
Gianni: “Sto imparando molto da voi, amati maestri. Tu Euripide mi sei particolarmente caro siccome ho portato le tue Troiane all’esame di maturità, e altre sei tragedie  tue a un esame universitario preparato con mesi di lavoro. Tra le altre l’Ifigenia in Aulide appunto.
 Ti prego di ricordarmi i versi con i quali la figlia di Agamennone va incontro al proprio sacrificio entusiasta, e approva la guerra. Poi dimmi per quale ragione hai cambiato idea rispetto alle Troiane.
Euripide: “Ti ricordo le parole dell’eroina : ‘divdwmi sw`ma toujmo;n  J Ellavdi (1397), offro il mio corpo per l’Ellade, quvet j, ejkporqei`te[1] Troivan (Ifigenia in Aulide, 1398), sacrificate, distruggete Troia.
Questo sarà il mio monumento perenne, questi i figli, le nozze, la fama[2].
L’Ifigenia in Aulide , scritta negli ultimi mesi della mia vita , e rappresentata postuma, contiene  un appello all’unità dei Greci e alla loro alleanza contro i nemici orientali :"è naturale che gli Elleni comandino sui barbari, e non i barbari, madre, sui Greci: loro infatti sono schiavi, noi liberi"[3], proclama la fanciulla ( vv. 1400-1401) dopo avere offerto la sua vita per la patria.
La corifea le dice che il suo comportamento è nobile, mentre è malato (nosei`, 1403) quello della tuvch e della dea Artemide[4] che esige sacrifici umani.
La ragione di questa mia approvazione della guerra è che sul finire del secolo gli Spartani stavano sconfiggendo gli Ateniesi con l’aiuto del denaro persiano e  con questo mio dramma attraverso Ifigenia chiamo a raccolta tutti i Greci contro il nemico storico dell’Ellade: i Troiani  da combattere e vincere in questa tragedia prefigurano i Persiani che erano stati sconfitti più volte dagli Elleni ma alla fine della guerra del Peloponneso stavano aiutando gli Spartani a vincere questo lungo conflitto.
Nelle Troiane  del 415, invece, l’uccisione degli uomini e dei bambini dell’isola di Melo e la deportazione delle donne rese schiave alludeva all’orribile trattamento inflitto a questi infelici che volevano rimanere neutrali, e lo malediceva ”.
 
Sofocle: “Come hai potuto contraddirti così? Nelle Troiane di dieci anni prima avevi  fatto dire alla vedova di Ettore, Andromaca cui i Greci avevano ammazzato il figlio Astianatte ancora bambino:
“O Greci inventori di barbari orrori,
perché ammazzate questo fanciullo che non ha nessuna colpa?” (v. 764-765)
 
Euripide: “sono stati anni diversi con situazioni diverse come ti ho spiegato e ti ripeto: nelle Troiane alludevo all’eccidio di Melo, e condannavo un crimine commesso  da noi Ateniesi, mentre nell’ Ifigenia in Aulide chiamavo a raccolta i Greci contro il rinnovato pericolo persiano.
 
  Gianni“Mi è tornato in mente tutto caro Euripide, e sono deciso a riprendere lo studio delle tue tragedie con la massima lena. Durerò una fatica maggiore iniziandomi ai tuo drammi ottimo Sofocle, ma sarà una fatica santa, benedetta dai nostri dèi.
 
Pesaro 18 ottobre  2024 ore 11
 
 
 
 


[1] Ma cfr. Poseidone nel Prologo delle Troiane.
“E’ stolto tra i mortali chi devasta le città mw'ro" de; qnhtw' o{sti" ejkporqei' povlei",
consegnando al deserto templi e tombe, luoghi sacri 95
dei morti: egli stesso dopo è già morto”.     
 
50 Altrettanto Macaria figlia di Eracle, negli Eraclidi di Euripide “tavd j ajnti; paidwn ejstiv moi keimhvlia (591), questi saranno i ricordi della mia vita invece dei figli.  
 
[3] Demostene nella III Olintiaca (348, dove vuole convincere gli Ateniesi a soccorrere la città della Calcidica contro Filippo di Macedonia) scrive che una volta agli Ateniesi obbediva il re di Macedonia ed era giusto essendo un barbaro che obbedisse ai Greci (24)
 
[4] Cfr. Troiane 27 dove Poseidone dicer nosei` ta; tw`n qew`n , sono malate le faccende degli dèi.

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