Il professore apprendista. Il
sogno di un colloquio con Sofocle
Prima parte
Poco prima di compiere 31
anni, nell’ottobre del 1975, ricevetti la cattedra di latino e greco nel liceo
classico Rambaldi di Imola. Ne fui contento perché avevo studiato al liceo
classico, poi lettere classiche all’Università con l’intento di insegnare
queste materie.
Ma ne ero anche spaventato
perché provenivo da anni di lontananza dalle lingue e letterature antiche. In
cinque anni di insegnamento nella scuola media e un altro in un istituto
professionale femminile avevo dimenticato molto, se non proprio tutto. Avevo
superato un esame di abilitazione poi un concorso, è vero, ma non è con queste
prove che si impara a insegnare bene delle discipline trascurate per anni. Alle
medie ero stato un buon educatore di bambini, credo, ma avevo impartito un
sapere minuto e nello stesso tempo generico, dato che per quanto riguarda i
testi studiati da adolescente nel liceo Mamiani di Pesaro poi negli anni
universitari a Bologna, li avevo dimenticati abbeverandomi a lungo nel fiume Lete.
Quando mi presentai per
iniziare il nuovo lavoro, la paura di non essere in grado di farlo decentemente
aumentò: dovevo preparare i ragazzi dell’ultimo anno alla maturità il cui pezzo
forte all’orale allora era la tragedia greca e il collega dell’anno precedente
aveva adottato l’Edipo re di Sofocle.
Ebbene, da studente liceale
io avevo portato alla maturità le Troiane
di Euripide e per i due esami universitari di greco sostenuti un paio di
anni più tardi avevo dovuto preparare
tutta l’Odissea di Omero e sette
tragedie di Euripide.
Di Sofocle dunque avevo una
conoscenza minima, insufficiente, soltanto manualistica: vita e titoli
delle opere. Nemmeno tutte le trame conoscevo. Per giunta questo poeta aveva
una fama di reazionario che lo metteva quasi all’indice negli anni Settanta.
Mi diedi da fare, cioè
impiegavo diverse ore al giorno per tradurre i primi versi della tragedia in
programma e ripassare i tecnicismi della lingua greca, però, non avendo una
visione d’insieme non solo dell’opera sofoclea ma nemmeno dell’Edipo re, ero appena in grado di fare
la traduzione delle parole e un commento grammaticale, sintattico e
metrico ai trimetri giambici greci. Le ragazze e ragazzi che avevano undici
anni meno di me, e ci si dava del tu con fare amichevole, mi dissero con garbo
che la traduzione dei versi l’avevano già nel libro adottato, e i paradigmi
verbali li trovavano nel vocabolario. La grammatica potevano rivedersela da
soli. Da me avrebbero voluto un commento estetico, storico, filosofico. Un
discorso critico che desse una visione d’insieme della tragedia greca e di
Sofocle. Non ero in grado di dare tale sinossi che mancava anche a me.
Racconto questo per dire che
la scuola non mi aveva insegnato a insegnare, a interessare, a formare e
informare gli allievi, ma solo a imparare quello che sapevano e dicevano i miei
insegnanti.
Compresi che non ero
attrezzato per fare bene il mio lavoro.
“Ditemi voi cosa devo
studiare, imparare e insegnarvi”, chiesi con la dovuta umiltà .
“La nascita della tragedia di Nietzsche-, risposero-hai fatto studi
universitari e puoi capirla; per noi è troppo densa e difficile”
All’università, Nietzsche non
mi era stato nemmeno nominato, e al liceo era bandito quale teorico del nazismo.
Corsi a comprare quell’opera
giovanile del filosofo grecista: mi
affascinava, ma ne capivo poco anche io.
Non sapevo come fare. Ero tentato di rinunciare e retrocedere, però, conoscendo
invece discretamente Omero, uno dei due soli autori letti all’Università, ripetei il motto protrettico, esortativo, di
Achille a se stesso: “ouj lhvxw”, non cederò e rammentai pure il desiderio che aveva
Odisseo di imparare a ogni costo,
anche a rischio della vita.
Una di quelle prime sere,
eravamo nell’ottobre del 1975, andando a letto, tornai a pregare gli eroi e gli
dèi della Grecia: “venite a trovarmi, aiutatemi ancora”. L’amore per la cultura
greca non mi mancava.
Quella notte venne ad
aiutarmi Sofocle, poi si aggiunse anche Euripide.
Il poeta di Colono morto già novantenne
si presentò mentre dormivo: aveva l’aspetto di un bel vecchio, educato e
gentile. Si presentò dicendomi di essere il poeta che dovevo imparare a
conoscere e aggiunse che Aristofane l'aveva racchiuso in una formula limitativa
presentandolo come oJ d j eu[kolo" me;n
e[nqavd j, eu[kolo" d j ejkei'", quello di buon carattere qua come là (Rane,
v.82). Buono da vivo e pure da morto dunque.
Lui era anche
altro. Ma questo gli si addiceva. Perciò
non dovevo temerlo. Pensai che presentando
ai giovani un autore bravo e un uomo buono, magari avrei potuto bonificare
anche le loro menti, e la mia.
Gianni: “Spiegami
in che cosa consiste la bontà di carattere in
generale, e la tua in particolare”, lo pregai.
Sofocle “Bontà è
favorire la vita. Bontà suprema è quella divina- rispose- Oggi nel mondo la bontà
scarseggia o latita siccome tramontano gli dèi. Un declino iniziato già ai
tempi miei. So che tu dovrai spiegare il mio Edipo re. Ti consiglio di iniziare mettendo in evidenza le
quintessenze di questa tragedia attraverso le parole chiave. Fai bene a
tradurle letteralmente, a rispettare le mie scelte stilistiche. Devi evidenziare questa denuncia del coro “: “e[rrei de; ta; qei`a” (Edipo re, 910), va in malora il divino.
Il sacrilego Euripide porta la sofistica, il
relativismo e il razionalismo sulla scena e corrompe il popolo ateniese come
dice bene il personaggio Eschilo nelle Rane
di Aristofane. Io mi oppongo con la mia opera al dilagare dell’empietà. Grazie
agli dèi, il pubblico e i giudici preferiscono me agli altri due. Ho la
prospettiva di un popolo colto che mi ascolta e crede in me più che agli empi, esosi sofisti. Si fanno pagare vendendo
il loro vantato sapere, così come fanno prostitute mercanteggiando il corpo.
Ti faccio un esempio di empietà di due
personaggi della tragedia da me confutati. Nell’Edipo re la regina Giocasta bestemmia gli oracoli i cui sacerdoti
sono profeti della divinità
La bestemmia contro il numinoso che, nelle mie tragedie,
come nella Storia di Erodoto, aleggia
sulla terra assumendo varie forme, viene proclamata e autorizzata dall’incestuosa
regina che impreca: " O vaticini degli dei, dove siete?- w\ qew'n manteuvmata,-i{n j
ejstev" (946-947)
Le fa eco il figlio-marito,
sua vittima prima, poi complice, con questa tirata blasfema:" Ahi, perché
dunque, o donna, uno dovrebbe osservare/ il fatidico altare di Delfi o gli
uccelli/ che schiamazzano in alto? (...) Gli oracoli che c'erano, li ha presi/
Polibo che giace presso Ade, ed essi non valgono nulla"(vv.964- 966 e
971-972).
Versi cruciali del
dramma sono anche questi detti da Edipo in una scena precedente:"arrivato
io ejgw; molwvn,/ che non sapevo nulla, la feci cessare e[pausav nin/ azzecandoci con l'intelligenza e
senza avere imparato nulla dagli uccelli gnwvmh/ kurhvsa" oujd j ajp j oijwnw'n maqwvn 396-398-". Edipo si vanta di
avere sconfitto la"cantatrice
dura"(v.36), la "Sfinge dal canto variopinto"(v.130), avvalendosi soltanto della propria
intelligenza.
Tale affermazione di autonomia della povera mente umana,
per me, che sono tradizionalista e pio,
è u{bri", dismisura, prepotenza, cecità intellettuale e morale che fa crescere la
mala pianta del tiranno (v.873), il quale è perciò destinato a precipitare nella
necessità scoscesa (v.877) del castigo e della rovina. Precipitando si azzoppa
siccome la tirannide è una potere claudicante.
Il coro nel secondo stasimo reagisce con parole di condanna
e conclude:
“Non andrò più all'intangibile/ ombelico della terra a
pregare,/ né al tempio di Abae,/ né a Olimpia, /se queste parole indicate a
dito/ non andranno bene a tutti i mortali. /Ma, o potente, se davvero è retta
la tua fama,/Zeus signore del tutto, non sfugga questo a te/e al tuo potere
sempre immortale./ Infatti già estirpano/gli antichi vaticini di Laio
consunti/e in nessun luogo Apollo/risplende per gli onori/e tramontano gli
dei" (vv. 897--910).
Se parti da questi versi, giovane professore apprendista,
entri subito nel nucleo della tragedia e lascerai nei ragazzi un’impressione
buona, un’impronta profonda di educazione estetica ed etica”.
Gianni: “Hai ragione sono solo un tirocinante ma in fondo
ogni uomo buono lo è per tutta la vita, anzi per sempre, quindi lo sei anche
tu” gli dissi
Poi feci presente al vecchio poeta e gentiluomo che questa
sua religiosità poteva venire tacciata dai giovani di superstizione,
addirittura di clericalismo bigotto e reazionario.
Mi rispose che le sue parole stavano sempre dalla parte
della vita e se erano retrograde fuggivano lontano dall’ u{bri~, prepotenza e dismisura, e dal mivasma il contagio mortale come quello portato da Edipo
a Tebe.
Quindi mi disse che aveva favorito la vita anche
condannando la guerra, perfino il dio
della guerra, Ares, poiché la sua eujsevbeia la devozione religiosa da poeta educatore e pio era sempre
stata favorevole alla vita. Tale pietà sarebbe piaciuta senz’altro a ragazze e
ragazzi. Dovevo evitare di presentare il Sofocle imbalsamato da certa filologia
deretana, mi avvertì. Non sapevo ancora nulla del pamphlet Afterphilologie di Erwin Rohde in difesa di Nietzsche, ma Sofocle conosceva quanto era ignoto al
semplice apprendista. Avevo molto da imparare.
Lo pregai di segnalarmi i suoi versi di condanna della
guerra.
Il sogno dell’apprendista. Seconda parte. Sofocle, Euripide
e il docente-discente.
La guerra nei tre tragici greci
Sofocle: “Sulla
guerra non ho mai avuto dubbi”.
Gli chiesi di citarmi alcuni suoi versi di condanna della
guerra.
Sofocle: “parto dell’ Edipo
re, la tragedia che dovrai tradurre e commentare per i tuoi allievi”.
Gianni. “Ti
ringrazio. Aiutami, caro maestro, indicandomi le tue espressioni più belle e
significative, tali che colpiscano la sfera emotiva di quei ragazzi oltre
quella mentale. Il mio scopo è farmi ascoltare con attenzione. Vorrei fare una
bella figura con loro: è necessario interessarli per educarli. Vorrei anche
piacere a quei giovani carini, garbati.
Sofocle: “Certo, l’educazione è l’obiettivo dei maestri e
degli artisti.
Ascolta dunque: “il Coro nella parodo dell’Edipo re invoca gli dèi dell’ordine
cosmico, dell’arte, del benessere e degli agoni ginnici- Zeus, Apollo, Minerva,
Artemide-, mentre depreca, cioè prega che si allontani con una corsa
retrograda, precipitosa, Ares il dio della guerra-to;n malerovn, il violento (190), to;n ajpovtimon ejn qeoi`~ qeovn, il dio disonorato tra gli dèi
(215).
Devo avere proprio detestato la guerra per escludere dalla
mia devozione e infamare il dio cui stanno a cuore i massacri.
Anche Eschilo lo ha fatto mentre Euripide è rimasto ambiguo
su questo argomento.
Gianni:“Rammentami le posizioni di questi tuoi colleghi e rivali,
ti prego.
Sofocle: “Eschilo chiama Ares "oJ
crusamoibo;" d j [Arh"
swmavtwn" (Agamennone, v.437), il cambiavalute dei corpi, nel senso che la
guerra trasforma gli uomini in cadaveri e arricchisce gli speculatori
Infatti, subito prima, il coro di 12
vecchi argivi nel primo stasimo di questa tragedia rappresentata nel 458 canta:
“ invece di uomini, urne e cenere ritornano
alla casa di ciascuno.
Gianni “ Ti prego: ripetilo nella vostra
lingua che amo quanto la mia”
Sofocle
“ajnti; de; fwtw`n
teuvch kai; spodo;~ eij~
ejkavstou dovmo~
ajfiknei`tai”( vv.
434-436).
Gianni: “Mi fai
venire voglia di riprendere a studiare il greco con tutte le forze: la lingua e
la letteratura. Con versi come questi, che non conoscevo, posso dare
un’educazione anche morale alle ragazze e ai ragazzi. La guerra è il primo
fattore che danneggia, opprime e distrugge la vita ed è sempre incombente
sull’umanità. Un pessimo possesso
perenne, kavkiston
kth`ma ej~ aieiv”.
Mi dicevi che
Euripide su questo non è coerente”
Sofocle: “ Infatti:
nelle Troiane il collega esecra la
distruzione di Troia, mentre alla fine della sua vita, nell’ Ifigenia in Aulide fa proclamare la
guerra santa contro i Troiani dalla figlia primogenita di Agamennone. Ifigenia deve sacrificare la propria vita se
suo padre, il duce supremo, vuole condurre la flotta contro Troia. La ragazza in un primo momento ne ha paura poi
invece si appresta a morire con entusiasmo per la vittoria dell’Ellade, della
civiltà sulla barbarie ”.
Gianni: “Mi
piacerebbe sentire come si giustifica Euripide”, azzardai
Sofocle non si fece
pregare e convocò il tragediografo più giovane, morto del resto un poco prima
di lui. Entrambi sul finire del V secolo e dall’età d’oro della cultura
ateniese
Si aggiunse dunque Euripide che salutò, poi disse queste
parole:
“ho scritto le Troiane dopo l’orrendo massacro non
privo di stupri perpetrato dagli Ateniesi nostri concittadini nei confronti
degli abitanti della piccola isola di Melo. Lo sdegno mi ha dettato i versi di
questa tragedia rappresentata nel 415.
Nel prologo, appare il dio del mare Poseidone. Vi ricordo
le sue prime parole:
Sono
giunto qui, io Poseidone, lasciata la salsa
profondità Egea del mare dove danze di Nereidi
muovono
in cerchio la bellissima ombra del piede” (vv. 1-3).
Il
dio del mare conclude la propria parte
del prologo con la denuncia e la condannna delle distruzioni belliche : “E’
stolto tra i mortali chi devasta le città,/
consegnando
al deserto templi e tombe, luoghi sacri/
dei
morti: egli stesso passato poco tempo è
già morto” (93-96)
Tutti
perdono le guerre, nessuno le vince.
Più
avanti Cassandra la principessa profetica invasata da Apollo dirà che i greci
vincitori sono o saranno colpiti dalla sventura più dei vinti.
Ricordo
alcuni versi detti dalla ragazza invasata alla propria madre
“Farò
vedere che questa città è più felice 365
degli
Achei, - sono posseduta dal dio, certo, ma tuttavia
per
il tempo necessario starò fuori dal delirio.
Costoro
per una sola donna e una sola Cipride,
mentre
andavano a caccia di Elena, ammazzarono innumerevoli persone.
E
il comandante, il saggio, per scopi più odiosi
mandò
in rovina gli affetti più cari, sacrificando al fratello
le
gioie domestiche dei figli; per una donna,
una consenziente
e non rapita a forza si compirono questi obbrobri.
Quando
giunsero alle rive dello Scamandro,
morivano,
non perché privati dei confini della terra, 375
né
della patria dalle alte torri. E quelli che Ares prendeva
non
videro i figli, e non furono avvolti nei pepli
dalle
mani della sposa, ma in terra straniera
giacciono.
Gli eventi di casa loro poi accadevano simili a questi:
vedove
morivano le donne, e gli uomini morivano senza figli nelle case
dopo
avere allevato i figli per altri; né sulle tombe
di
quelli c’è chi donerà sangue alla terra.
Davvero
una spedizione degna di questo elogio!
Tacere
i turpi misfatti è meglio, né la mia musa
Diventi
la cantatrice che celebrerà i mali. 385
I
Troiani invece, innanzi tutto, ed è la gloria più bella,
morivano
per la patria, e quelli che la lancia abbatteva,
portati
morti nelle case dagli amici
nella
materna terra nativa avevano l’ultima veste di zolle,
composti
dalle mani di chi si doveva; 390.
e
quanti non morivano in battaglia dei Frigi,
sempre,
giorno per giorno abitavano con la sposa
e
con i figli le cui gioie erano lontane dagli Achei.
La
sorte di Ettore poi, secondo te amara, senti come sta:
se
ne è andato, morto, reputato l’uomo più valoroso,
e
questo glielo procura la venuta degli Achei” (365-396)
Gianni:
“Sto imparando molto da voi, amati maestri. Tu Euripide mi sei particolarmente
caro siccome ho portato le tue Troiane
all’esame di maturità, e altre sei tragedie tue a un esame universitario preparato con
mesi di lavoro. Tra le altre l’Ifigenia
in Aulide appunto.
Ti prego di ricordarmi i versi con i quali la
figlia di Agamennone va incontro al proprio sacrificio entusiasta, e approva la
guerra. Poi dimmi per quale ragione hai cambiato idea rispetto alle Troiane.
Euripide: “Ti ricordo le
parole dell’eroina : ‘divdwmi
sw`ma toujmo;n J Ellavdi (1397), offro il mio corpo per l’Ellade, quvet j, ejkporqei`te[1] Troivan (Ifigenia in
Aulide, 1398), sacrificate, distruggete Troia.
Questo sarà il mio monumento
perenne, questi i figli, le nozze, la fama[2].
L’Ifigenia in Aulide , scritta negli
ultimi mesi della mia vita , e rappresentata postuma, contiene un appello all’unità dei Greci e alla loro
alleanza contro i nemici orientali :"è naturale che gli Elleni comandino
sui barbari, e non i barbari, madre, sui Greci: loro infatti sono schiavi, noi
liberi"[3], proclama la fanciulla ( vv.
1400-1401) dopo avere offerto la sua vita per la patria.
La corifea le dice che il suo comportamento è nobile,
mentre è malato (nosei`, 1403) quello della tuvch e della dea Artemide[4] che esige sacrifici umani.
La ragione di questa mia approvazione della guerra è che
sul finire del secolo gli Spartani stavano sconfiggendo gli Ateniesi con l’aiuto
del denaro persiano e con questo mio
dramma attraverso Ifigenia chiamo a raccolta tutti i Greci contro il nemico
storico dell’Ellade: i Troiani da
combattere e vincere in questa tragedia prefigurano i Persiani che erano stati
sconfitti più volte dagli Elleni ma alla fine della guerra del Peloponneso stavano
aiutando gli Spartani a vincere questo lungo conflitto.
Nelle Troiane del 415, invece, l’uccisione degli uomini e
dei bambini dell’isola di Melo e la deportazione delle donne rese schiave
alludeva all’orribile trattamento inflitto a questi infelici che volevano
rimanere neutrali, e lo malediceva ”.
Sofocle: “Come hai potuto contraddirti così? Nelle Troiane di dieci anni prima avevi fatto dire alla vedova di Ettore, Andromaca
cui i Greci avevano ammazzato il figlio Astianatte ancora bambino:
“O
Greci inventori di barbari orrori,
perché
ammazzate questo fanciullo che non ha nessuna colpa?” (v. 764-765)
Euripide:
“sono stati anni diversi con situazioni diverse come ti ho spiegato e ti ripeto:
nelle Troiane alludevo all’eccidio di
Melo, e condannavo un crimine commesso
da noi Ateniesi, mentre nell’ Ifigenia
in Aulide chiamavo a raccolta i Greci contro il rinnovato pericolo
persiano.
Gianni“Mi è tornato in mente tutto caro
Euripide, e sono deciso a riprendere lo studio delle tue tragedie con la
massima lena. Durerò una fatica maggiore iniziandomi ai tuo drammi ottimo
Sofocle, ma sarà una fatica santa, benedetta dai nostri dèi.
Pesaro
18 ottobre 2024 ore 11
[1] Ma cfr. Poseidone nel Prologo delle Troiane.
“E’
stolto tra i mortali chi devasta le città mw'ro" de; qnhtw' o{sti" ejkporqei' povlei",
consegnando
al deserto templi e tombe, luoghi sacri 95
dei
morti: egli stesso dopo è già morto”.
50 Altrettanto Macaria figlia
di Eracle, negli Eraclidi di Euripide
“tavd j ajnti;
paidwn ejstiv moi keimhvlia (591), questi
saranno i ricordi della mia vita invece dei figli.
[3] Demostene nella III Olintiaca
(348, dove vuole convincere gli Ateniesi a soccorrere la città della Calcidica
contro Filippo di Macedonia) scrive che una volta agli Ateniesi obbediva il re
di Macedonia ed era giusto essendo un barbaro che obbedisse ai Greci (24)
[4] Cfr. Troiane 27 dove
Poseidone dicer nosei`
ta; tw`n qew`n , sono
malate le faccende degli dèi.
Già docente di latino e greco nei Licei Rambaldi di Imola, Minghetti e Galvani di Bologna, docente a contratto nelle università di Bologna, Bolzano-Bressanone e Urbino. Collaboratore di vari quotidiani tra cui "la Repubblica" e "il Fatto quotidiano", autore di traduzioni e commenti di classici (Edipo re, Antigone di Sofocle; Medea, Baccanti di Euripide; Omero, Storiografi greci, Satyricon) per diversi editori (Loffredo, Cappelli, Canova)
NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica
Ciclo di incontri alla biblioteca «Ginzburg». Protagonisti della storia antica
LE NUOVE DATE! Protagonisti della Storia Antica | Biblioteche Bologna - Tutte le date link per partecipare da casa: meet.google.com/yj...
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