Come fummo entrati nel Luna park, cercai di fare buon viso e di adattarmi ai suoi gusti. Per quasi due ore riuscii a scherzare, a simulare allegria, a fingere di stare volentieri in quel luogo. Lo odiavo fin da bambino: ci ho sempre visto qualche cosa di triste, falso e volgare. Quella sera ero depresso; un poco alla volta divenni esasperato. Prima di riportarla a casa la umiliai vomitandole addosso tutto il risentimento accumulato in mesi di sottomissione. Nei due anni e mezzo del nostro stare insieme, tante volte il suo infantilismo non mi era spiaciuto, ma la notte del sette giugno ne ebbi il voltastomaco: probabilmente era destino poiché la litigata che ne seguì prepara e prefigura la catastrofe della notte compresa fra il 12 e il 13 giugno. Ifigenia volle che ci guardassimo riflessi negli specchi deformanti. Apparivamo smisuratamente grassi, o magri, o lunghi, o corti. Quella rideva. Volle che girassimo con l'autoscontro: ci sbatacchiavano da tutte le parti: quella rideva. Poi volle girare seduta in una grande, lentissima ruota; poi volle salire e scendere rapidamente su e giù per le montagne russe, e rideva sempre; poi volle pescare oche di plastica con un anello appeso ad un filo attaccato a una canna; poi volle tirare palle di pezza su dei barattoli vuoti sperando di vincere non so che cosa; poi, sebbene fosse passata la mezzanotte, e il giorno dopo io avessi lezione alle otto, volle replicare diverse di quelle scemenze, mentre oramai doveva vedersi che ne avevo la nausea, come l'avevo del suo ridere nervoso, insensato. Prima di aggredirla, la guardai in faccia. Aveva gli occhi piccoli piccoli e lacrimosi, quasi due strette fessure mongoliche, e grossi denti che uscivano fuori dal labbro superiore rialzato, rimasto un poco peloso quel giorno. E rideva, rideva smisuratamente. I capelli erano avviticchiati e appiccicati alla faccia sudata. Sembrava uno di quei bambini disgraziati che si agitano impotenti sulle sedie a rotelle dove li tengono legati perché non si facciano a pezzi da soli. A un tratto le chiesi di smettere di fare la scema: era l'una di notte e io non ne potevo più. Poi dissi dell'altro. Poche parole ma molto cattive1 Ifigenia divenne seria e si mise a piangere. Seguitò fino a casa sua. Ne provai dolore, compassione, rimorso: le chiesi scusa. Ma la giovane donna, miserevole e implacabile, continuava a piangere. Le spiegai che non ne potevo più di essere sfruttato con protervia, senza riconoscenza, senza nessun sentimento buono, né alcuna collaborazione a quanto facevo. Non rispose. Le chiesi di essermi meno figlia e più compagna, di aiutarmi attivamente a creare qualche cosa di grande e bello, poiché con lei che mi stava vicino senza collaborare non ce l'avrei fatta mai. Rispose solo:"Ho capito". Quindi uscì dalla bianca Volkswagen ed entrò in casa sua. In questa scena forse io sembro il carnefice e Ifigenia, la vittima. Tali sembriamo. 1 Cfr. Catullo, Carmi,11, vv. 15-16:"pauca nuntiate meae puellae/non bona dicta", riferite alla mia ragazza poche parole non buone.
Bologna 26 ottobre 2024 ore 9, 57 giovanni ghiselli
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Già docente di latino e greco nei Licei Rambaldi di Imola, Minghetti e Galvani di Bologna, docente a contratto nelle università di Bologna, Bolzano-Bressanone e Urbino. Collaboratore di vari quotidiani tra cui "la Repubblica" e "il Fatto quotidiano", autore di traduzioni e commenti di classici (Edipo re, Antigone di Sofocle; Medea, Baccanti di Euripide; Omero, Storiografi greci, Satyricon) per diversi editori (Loffredo, Cappelli, Canova)
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sabato 26 ottobre 2024
Ifigenia CCXXVI La tragedia del Luna park.
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