La mattina di venerdì 20 marzo, verso le sette e mezzo, mentre stavo uscendo da casa, sentìi squillare il telefono, del tutto insolitamente tanto presto. "Chi può essere a quest’ora?" mi domandai, sperando che fosse Ifigenia. Il proposito di non amarla più e di prepararmi alla solitudine era debole. Rimasi deluso dalla voce di mia sorella che chiamava da Moena e ci invitava a raggiungerla lassù: c'erano anche suo marito e un gruppo di amici. "Venite", disse, "così stiamo un poco insieme". "Io arrivo questa sera, volentieri; Ifigenia non so: oggi è molto impegnata nella scuola di recitazione", risposi. Non volevo spiegare le nostre tragedie al telefono, prima di correre al lavoro. "Aspettala", mi esortò Margherita. "Venite insieme domani mattina: noi rimaniamo fino a domenica sera". "Glielo dirò", conclusi,"comunque tu e io ci vediamo". Mia sorella non si era accorta che la ragazza non gradiva la compagnia dei suoi amici, né la sua, anzi oramai nemmeno la mia. Per strada pensavo che era meglio se a Moena andavo senza di lei: avrebbe fatto scene odiose, come l'ultima notte dell’anno. Non era capace di sciare, non sapeva o non voleva osservare, tanto meno ascoltare; chi avremmo trovato non le piaceva; con me non andava d'accordo. Non amava neppure il sole, sebbene all'abbronzatura tenesse parecchio, secondo la solita pretesa parassitaria di avere tutto, in cambio di niente. E in ogni caso era innamorata di un altro: che cosa voleva ancora da me? Il sangue? Entrai in classe e assegnai il compito di latino. Mentre i ragazzi traducevano, cercavo di stabilizzare il vacillante proposito di terminare il rapporto. Scrissi all'Antonia che l'amore più grande, della mia vita era finito. Aggiunsi una frase tratta da Leopardi "anche io davo il mio contento in custodia alla malinconia"1. Voleva essere l'epigrafe sulla pietra tombale della relazione che invece aveva ancora davanti due mesi e 24 giorni di vita spesso penosa . All'inizio dell'intervallo ero incerto se telefonarle, cosa che avevo fatto sempre, come un rito quasi dovuto, ogni volta che uscivo di classe e andavo alla cabina telefonica di via Monte Grappa. Formai il numero poco convinto, tanto che lo sbagliai. Lo rifeci con l'intenzione di dirle soltanto che la salutavo poiché subito dopo la scuola sarei andato in montagna. Non intendevo invitarla. Ma il telefono era occupato. Allora sentii una voglia impaziente e nervosa della sua voce. Finalmente rispose. "Ciao - dissi -. Ti telefono per salutarti: subito dopo la scuola vado a Moena. Ci sono Margherita e i suoi amici". Senza esitare un istante rispose: " Gianni, ti prego, aspettami fino alle sei. Ti prego. Ho voglia di venire con te, anche di vedere tua sorella. Mi sono svegliata di ottimo umore. Mi manchi". Così mi spiazzò, mi eccitò, mi commosse. Mi vennero le lacrime agli occhi; ebbi un'erezione immediata. Non fui capace di mantenermi fedele al primo proposito, di tenerla in rispetto e a distanza da me, come avrei voluto, siccome immaginavo che a Moena e in presenza di Margherita si sarebbe comportata da canaglia. Oppure da disgraziata. O entrambe le cose. "Sì tesoro, ti aspetto, sì vieni, mi fa tanto piacere davvero", risposi. Non che fossi acciecato al punto di non prevedere dispiaceri grossi; il fatto è che in fondo credevo di averne bisogno, per capire meglio e fare capire a quanti mi avrebbero letto. Non sei curioso, lettore, di quest'ultimo viaggio da Bologna a Moena dei due amanti degenerati in quasi nemici? Nel pomeriggio andai a correre i 5000 metri al campo sportivo: lo feci in un tempo buono per il mese di marzo. Allora pensai che portandola in montagna con me, non solo facevo del bene a lei, siccome la aiutavo a non degradarsi con quel ballerino di mezza tacca, ma anche a me stesso in quanto frequentandola potevo acquistare della consapevolezza pure soffrendo. Alle sei e mezzo dunque partimmo per la valle di Fassa. Le mie intenzioni erano buone. All'inizio eravamo in discreta armonia. Cantavamo Marinella di Fabrizio De Andrè, scambiandoci sguardi per quanto lo consentiva la guida, e sorridendoci, come due che si vogliono bene, o addirittura si amano. Andava così nel novembre del '78, il primo mese del nostro rapporto, quando ci guardavamo nelle pupille con ammirazione reciproca, con allegria, con gioia, e osservandola io non potevo fare a meno di ringraziare la Mente dell'Universo di averla messa sulla mia strada. Appena usciti dal casello di Padova ovest però, mi innervosii poiché avevo dimenticato di fare benzina nell'autostrada, mentre fuori le pompe erano già chiuse. Ifigenia intanto, accesa la radio, aveva cercato e trovato la musica rock, e la teneva a tutto volume. "Musa drogata"2 pensai. Né mi aiutava a rimediare la necessaria benzina. Mi domandavo:" Che cosa è venuta a fare in montagna con me?". A Borgo Valsugana finalmente vidi un distributore aperto; dopo il rifornimento mi tranquillizzai un poco. Anche perché erano cessati quei rumori d'inferno. Rimanemmo in silenzio fino a Trento, dove Ifigenia disse: " Ehi, vecchio signore!" "Che cosa vuoi dire?", le domandai. "No, tu devi rispondere-Dei immortali!-", ordinò. Stetti al gioco:"Dei immortali!". "Vecchio signore, non scappare!". Dovevo rispondere: "Non scappare? Vecchio signore? A Giulio Cesare questo?". Erano battute del Cesare e Cleopatra di Bernard Shaw3 . La fanciulla le aveva provate all'Antoniano, nel pomeriggio. Per un quarto d'ora fu divertente, ma ripetuta decine di volte la scena divenne monotona, quindi ossessiva, noiosa e odiosa. Non la finiva più di ripetere:"Ehi, vecchio signore!". Con voce da bimba. Smisi di risponderle, ma continuò fino a Moena. "Mancanza di misura", pensavo,"di educazione, di intelligenza" probabilmente è adatta a quel ballerino utile solo ad allungare una fila4. Si rispondeva da sola. Con voce da uomo. Piacere depravato. "Sfinge, tu abusi dei secoli (…) "Sono più giovane di te, benché tu abbia ancora una voce da Bimba (…) Ma che regina d'Egitto!". Verso l'una arrivammo. Disse:"Buonanotte, vecchio signore", poi si avviò verso camera sua. Mi sentivo così poco amato, così strumentalizzato, e provai tanto risentimento che pensai:"Se non vado a letto con quella, gliela do vinta ancora una volta. E' venuta a Moena solo per abbronzarsi e sfruttarmi: non prova attrazione, né stima, né affetto per me. Adesso però le faccio vedere cosa provo io per lei". Mi involgarivo, mi mettevo a un livello più basso e triviale del suo: Ifigenia non voleva fare sesso con me; il mio cattivo demone aveva intenzione di esigerlo per dispetto, con rabbia e con odio. Andai in camera mia a posare il bagaglio, quindi salii la rampa di scale che ci separava e bussai alla porta della sua stanza. Mi aprì. Entrai. Le chiesi:"Hai voglia di dormire?" "No", rispose pur stropicciandosi gli occhi, come faceva, a qualsiasi ora, quando voleva dare a vedere di essere già mezza morta di sonno. "Bene", dissi, "allora neanche io. Quindi facciamo l'amore". Come se fosse dovuto farlo comunque: anche senza tenerezza, né simpatia, poiché era quanto mi spettava in cambio dell'aiuto per l'esame, e del fatto che l'avevo portata in montagna. Certo, poteva dirmi che non se la sentiva e sarei tornato subito in camera mia, ma non lo fece e ne seguì un concubito squallido. "Ecco il peccato vero", pensai,"non è fare l'amore, come ci inculcavano i preti, ma fare sesso in questo modo che nega la gioia". Quindi cominciai a vestirmi, senza parlare. Volevo andarmene, ma Ifigenia disse:"Gianni, resta a dormire con me". La guardai. Era nuda. Aveva un'aria davvero stanca, quasi sofferente e malata. Mi diede pena. La sua dignità residua non le consentiva di cadere con il nostro rapporto in una specie di semiprostituzione senza reagire con una scena di affetto e con una simulazione di amore. "D'accordo", risposi. Volevo contribuire a salvarci la faccia, ma sapevo che nella sua richiesta non c'erano sentimenti buoni per me. Dormii un paio di ore, poi tornai in camera mia, pieno di compassione e disgusto . Non doveva succedere più uno schifo del genere.
Note
1 Leopardi, Zibaldone, 27 Dic. 1820. 2Cfr. Platone, Repubblica, 607a:" eij de; th;n hJdusmevnhn Mou'san paradevxh/ ejn mevlesin h] e[pesin, hJdonhv soi kai; luvph ejn th'/ povlei basileuvseton ajnti; novmou te kai;..lovgou", se invece accoglierai la Mu sa drogata nei canti o nei poemi, il piacere e il dolore regneranno nella tua città invece della legge e del pensiero. 3Atto primo, quadro secondo. 4Cfr. T. S. Eliot, Il canto d'amore di J. Alfred Prufrock, vv. 114-116:"No! I am not Prince Hamlet, nor was meant to be;/am an attendant lord, one that will do/to swell a progress, start a scene or two", no, io non sono il Principe Amleto, né ero destinato a esserlo;/io sono un cortigiano, sono uno/ utile forse a ingrossare un corteo, ad avviare una scena o due.
Pesaro 16 ottobre 2024 ore 11, giovanni ghiselli
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Già docente di latino e greco nei Licei Rambaldi di Imola, Minghetti e Galvani di Bologna, docente a contratto nelle università di Bologna, Bolzano-Bressanone e Urbino. Collaboratore di vari quotidiani tra cui "la Repubblica" e "il Fatto quotidiano", autore di traduzioni e commenti di classici (Edipo re, Antigone di Sofocle; Medea, Baccanti di Euripide; Omero, Storiografi greci, Satyricon) per diversi editori (Loffredo, Cappelli, Canova)
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mercoledì 16 ottobre 2024
Ifigenia CCII. L'ultimo viaggio da Bologna a Moena. Cesare e Cleopatra. Il peccato vero: fare sesso per dispetto.
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