Lucrezio e la Poetica di Aristotele. Epicuro poi Epitteto, Nietzsche e Shakespeare.
Vedo un articolo di Paola Mastrocola nell’inserto domenicale (26 luglio 2015) di “Il Sole 24 Ore” (p. 36). Il titolo è Bellezza della distanza.
Il pezzo utilizza il De rerum natura di Lucrezio e la Poetica di Aristotele non senza superficialità e confusione.
Sentiamo l’autrice: “Prendiamo Lucrezio, il famoso inizio del secondo libro del De rerum natura: “Suave, mari magno turbantibus aequora ventis- e terra magnum alterius spectare laborem”, “E’ bello, quando i venti turbano le acque sul vasto mare, guardare la fatica di un altro da terra. Prendere le distanze. Guardare da lontano, al sicuro, possibilmente inattivi. Prendersi il lusso di contemplare. La distanza dell’artista dal mondo (…) Per questo forse mi fa specie un poeta (o scrittore, o artista più in generale) che chatta o twitta. Per carità, faccia quel che gli pare. Mi sembra leggermente contronatura”. Eventualmente la Mastrocola poteva fare riferimento al Tonio Kröger di Thomas Mann. Ma fa confusione chatta o twitta anche lei.
Lucrezio allievo di Epicuro
Il discorso di Lucrezio è molto più complesso. Vediamolo meglio
Il proemio del II libro del poema dunque celebra il piacere (suave) di abitare i templi sereni fondati dalla dottrina dei sapienti e di là contemplare gli obnubilati, gli erranti smarriti, i ciechi di mente
O miseras hominum mentis, o pecora caeca! [1](14)
Questi non si accorgono che la natura non chiede altro, latrando, che il corpo sia esente dal dolore e l’anima dagli affanni.
Il maestro di Lucrezio, Epicuro voleva raggiungere l’ajtaraxiva, mancanza di turbamento e l’ajponiva, mancanza di dolore nel corpo, voleva hjdonai; katasthmatikaiv, piaceri stabili, piuttosto che in movimento kata; kivnhsin.
“Ergo corpoream ad naturam pauca videmus-esse opus omnino, quae demant cumque dolorem” (De rerum natura, II, 20-21) e offrano invece il piacere.
Cfr. l’ Ep. A Meneceo di Epicuro 127 sg. Tw`n ejpiqumiw`n aij me;n eijsi fusikaiv, aiJ de; kenaiv, kai; tw`n fusikw`n aiJ me;n ajnagkai`ai, aiJ de; fusikai; movnon. Dei desideri alcuni sono naturali, altri vuoto, e tra i naturali alcuni sono necessari, altri soltanto naturali
Ebbene tutto ciò che è naturale è a portata di mano:"to; me;n fusiko;n pa'n eujpovristovn ejsti” (130), parabile.
Naturale e necessario è mangiare e bere togliendosi la fame. Naturale ma non necessario è il desiderio di un cacio speciale, non naturali né necessari sono quelli che nascono da vana opinione: p. e. il desiderio di ottenere certi onori
Ciò che è vano invece è difficile da procacciarsi: to; de; keno;n duspovriston.
Il colmo della ricchezza è l’aujtavrkeia, bastare a se stessi.
Epitteto stoico d il quale dice che non dobbiamo far dipendere la nostra felicità da altre persone. “Chi vuole essere libero, non desideri e non rifugga qualcosa che dipende da altri- ti tw`n ejp j a[lloi~-, altrimenti servire è una necessità eij de; mhv, douleuvein ajnavgkh (Manuale, 14)
Epitteto suggerisce anche questo “ricorda che sei uJpokrith;" dravmato" attore di un dramma ma non ne sei il regista. Tu devi recitare bene il ruolo assegnato e scelto da un altro (Manuale, 17).
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Tutto questo può costituire un antidoto ai veleni della pubblicità che vuole inculcare frenesia consumistica negli sprovvisti di cultura classica.
La virtù massima è la frovnhsiς, la prudenza, il discernimento dei veri piaceri.
La vita piacevole viene prodotta da un sobrio giudizio.
Il saggio epicureo è un asceta poiché assoggetta i piaceri della carne a una disciplina rigorosa. Inoltre è un cenobita, uno che vive in un koinovbion, una comunità di persone staccate dalla società: lavqe biwvsaς, vivi nascosto.
Per guarire dai mali basta il tetrafvrmakoς.
Può sembrare il trionfo dell’individualismo, un atomismo portato anche nella polis che non è più politica. L’indivualismo epicureo non è la misantropia di Cnemone: il koinovbio~ è koino;~ bivo~, la vita comune. Per me è stata la vita nei collegi universitari: il Morgagni e l’Irnerio di Bologna poi il collegio di Debrecen
Invero gli Epicurei non furono i porci di cui parla Orazio: “me pinguem et nitidum bene curata cute vises-cum ridere voles Epicuri de grege porcum”, Epistola ad Albio, I, 4, 15-16
Seneca e Cicerone sul piacere epicureo.
Seneca, sebbene stoico, giudica con equità e difende Epicuro da una cattiva reputazione diffusa.
Nel De vita beata (13) dice che virtus e voluptas sono inconvenientia, inconciliabili. L’uomo effusus in voluptates, ructabundus semper atque ebrius, dà ai suoi vizi il titolo di virtù, e si autorizza con Epicuro.
Invero la voluptas di Epicuro è sobria ac sicca, e molti volano al richiamo di quel nome cercando un patrocinio e una copertura per le loro libidini quaerentes libidinibus suis patrocinium aliquod ac velamentum. Dunque la voluptatis laudatio è perniciosa, ma questa non si trova in Epicuro il quale prescrive norme rette e anche severe (recta et tristia) e il suo piacere è riportato a una piccola ed esile misura voluptas enim illa ad parvum et exīle revocatur ed egli impone al piacere la medesima legge che noi diamo alla virtù: iubet illam parēre naturae, ordina alla voluptas di obbedire alla natura e ciò che basta alla natura è troppo poco per la lussuria.
La setta di Epicuro male audit, infamis est, et immerito, è malfamata a torto.
In effetti l’epicureismo deve il suo successo anche a queste sue contraddizioni: proclama il piacere come bene supremo e lo estenua con il suo ascetismo, contrappone la malinconia rassegnata al vitalismo, afferma il sensismo integrale ma poi lo sottopone al giudizio della mens, nel meccanicismo introduce la libertà, combatte la superstizione e predica la fede.
Il primo dialogo del De finibus bonorum et malorum (del 45) ambientato nella villa di Cicerone a Cuma c’è una discussione sulla dottrina epicurea esposta da Lucio Manlio Torquato e criticata da Cicerone.
Cicerone sostiene che il piacere è sommo bene per le bestie: aliud aliquid hominis summum bonum reperiendium est, voluptatem bestiis concedamus (II, 33). Le più grandi virtù giacciono prostrate sotto il principio del piacere: “Maximas virtutes iacere omnis nocesse est voluptate dominante (II, 35). In questi anni Sirone teneva scuola epicurea a Posillipo, e Filodèmo di Gadara a Ercolano.
Ancora Cicerone: non c’è bisogno di fare entrare il piacere nel consesso delle virtù, tamquam meretricem in matronarum coetum (II, 3),
L’uomo è nato per il pensiero e l’azione ad intelligendum et agendum diversamente dalle bestie (II, 12): il cavallo per correre e così via.
Torniamo all’articolo della Mastrocola che passa ad Aristotele e alla tragedia greca senza fare citazioni, poi si ripete su Lucrezio.
“La catarsi è la stessa cosa, in fondo”. Io credo che sia tutt’altra cosa invece.
Ma sentiamo come argomenta l’autrice
“Quando a scuola spiego la tragedia greca, mi ci soffermo a lungo. Catarsi è purgazione”. Mi sembra una traduzione piuttosto gastrica o viscerosa di kavqarsi~ che è uno dei due concetti fondamentali della Poetica di Aristotele riguardo alla tragedia. L’altro è quello di mivmhsi~ :"La tragedia è dunque imitazione di azione seria e compiuta (mivmhsi~ pravxew~ spoudaiva~ kai; teleiva~) che, con una certa estensione e con parola ornata hJdusmevnw/ lovgw/ (…) di attori che agiscono e non attraverso un racconto, per mezzo di pietà e terrore, compie la purificazione da tali affezioni"(di j ejlevou kai; fovbou peraivnousa th;n tw'n toiouvtwn paqhmavtwn kavqarsin, 1449b, 28).
Come si vede le viscere c’entrano poco. Chi scrive nei giornali dovrebbe utilizzare i classici in maniera meno disinvolta.
Del resto Nietzsche critica il concetto di catarsi in questo modo: “La catarsi di Aristotele sembra una scarica patologica di cui non è chiaro se sia da annoverare tra i fenomeni della medicina o quelli della morale (La nascita della tragedia, cap. 22)
“Gli altri affetti hanno un’azione tonica: ma solo due affetti depressivi-e questi sono quindi particolarmente dannosi e malsani-la compassione e la paura, dovevano, secondo Aristotele, venire espulsi dall’uomo mediante la tragedia come purgante: la tragedia, eccitando a dismisura questi stati pericolosi, ne redime l’uomo-lo rende migliore. La tragedia come cura contro la compassione”[2].
Forse la Mastrocola risente di queste parole.
Catarsi e mimesi si ritrovano nell’Amleto di Shakespeare.
Il principe di Danimarca dice: “I have heard-that guilty creatures, sitting at a play,-have, by the very cunning of the scene,-been struck so to the soul that presently-they have proclaim’d their malefactions” (Hamlet, II, 2), io ho udito che delle persone colpevoli, davanti a un dramma, sono state colpite, dall’abilità della scena, fin dentro l’anima, in maniera tale che hanno confessato subito i loro misfatti.
Più avanti anche la teoria della mimesi è espressa da Amleto : egli definisce “the purpose of playing”, lo scopo dell’arte drammatica, “ whose end, both at the first and now, was and is, to hold as ‘twere, the mirror up to nature” ( Hamlet, III, 2), il cui fine, all’inizio come ora, è sempre stato quello di reggere, per così dire, lo specchio alla natura.
Torniamo all’articolo in questione
“Detto un po’ semplicisticamente, guardando sulla scena un re che muore ci si purga dalla paura che la morte tocchi solo a noi”.
Troppo semplicisticamente, non “un po’ ”.
Ancora la Mastrocola, quella che ha raccontato la scuola al suo cane, e non spregevolmente a dire il vero.
“Ci si libera un po’. Si prova un certo sollievo. Per prima cosa siamo contenti di non essere noi a morire in quel momento, bensì il re; lo dice bene Lucrezio, se continuiamo: guardare da lontano i tormenti che qualcuno patisce non vuol dire prendere piacere delle altrui sventure, ma concedersi la dolcezza di vedere da quali mali tu sei (per il momento!) esente. Seconda cosa, assistendo a una tragedia, abbiamo la prova che la morte riguarda tutti, persino i re. Ma che cos’è esattamente che ci rilassa e ci regala questo senso di liberazione? La distanza appunto. Il fatto che il re muoia, ma nella finzione della scena. Nel teatro c’è addirittura una doppia distanza: quella fisica tra il pubblico in platea e l’attore in scena, e quella simbolica, dovuta alla finzione, per cui nessuno muore davvero sul palco”.
Per quanto riguarda la distanza del pubblico dalla scena, Nietzsche approva la definizione del Coro della tragedia proposta da Schiller nella "famosa prefazione alla Sposa di Messina [3] , dove si considerava il coro come un muro vivente che la tragedia traccia intorno a sé, per isolarsi in purezza dal mondo reale e conservare a se stessa il suo terreno ideale e la sua libertà poetica...Certo è un terreno "ideale" quello su cui, secondo la giusta intuizione schilleriana, il coro greco dei satiri, il coro della tragedia originaria, suole muovere i suoi passi: un terreno che si eleva molto al di sopra della strada dove camminano i mortali...Il satiro come coreuta dionisiaco vive in una realtà religiosamente riconosciuta sotto la sanzione del culto e del mito...il satiro, il fittizio essere naturale, sta rispetto all'uomo di cultura nella stessa relazione in cui sta la musica dionisiaca rispetto alla civiltà. Di quest'ultima Riccardo Wagner dice ch'essa viene annullata dalla musica, come la luce delle lampade dalla luce del giorno. Allo stesso modo, penso, si sentiva annullato l'uomo di cultura greco di fronte al coro dei satiri; e questo è l'effetto primo della tragedia dionisiaca, che cioè lo stato e la società, e in generale gli abissi che si aprono fra uomo e uomo, cedono ad un prepotente sentimento di unità che ci riconduce nel cuore stesso della natura. Il conforto metafisico con cui...ogni tragedia ci congeda (il quale ci dice come la vita nel fondo delle cose sia...indistruttibilmente potente e lieta), questo conforto, dico, appare con corporea evidenza e chiarezza nella forma del coro dei satiri, come coro di esseri naturali, che vivono per così dire indistruttibili dietro tutte le civiltà e restano eternamente gli stessi malgrado ogni mutamento delle generazioni e della storia dei popoli"[4].
Abbiamo visto che comunque i classici entrano nel linguaggio dei politici e dei giornalisti.
Bologna 24 ottobre 2024 giovanni ghiselli ore 10, 46
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[1] Cfr, Dante “o insensate cure de’ mortali” Paradiso XI, 1
E Persio (34-62): O curas hominum, o quantum est in rebus inane! (I, 1)
Il nostro corpo ha bisogno di poche cose per lenire il dolore
[2] Frammenti postumi, primavera 1888, 15 (10).
[3] Del 1803 ndr.
[4] La nascita della tragedia , cap. 7.
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