Volevo entrare nel casinetto nostro per osservare, aspirarne gli odori e ricordare. Ma poco prima di arrivarci, in un campo verde di grano notai il corpo massacrato di un piccolo gatto: lo guardai con attenzione e mi commossi pensando che Ifigenia per un certo tempo era stata indifesa come quella bestiola nel momento in cui qualche barbaro l'aveva ammazzata. Quando mi aveva chiesto aiuto per crescere mi aveva offerto in cambio il suo corpo bello, ma, saziata la grande libidine , io non sapevo più che farne, e lei non aveva altro da offrirmi; ebbene in tali circostanze, alla creatura appiccicosa, noiosa, lamentosa, non avevo fatto tanto male da schiacciarla e annientarla. Questa era una consolazione non piccola. Concluso il pellegrinaggio, rientrai nell'osteria per nutrirmi. Chiesi un solo panino, nemmeno grande, e un bicchier d'acqua, secondo la promessa fatta la sera prima all' ex compagna. Quindi tornai a casa. Erano le quattro. Pioveva. Mi sentii molto solo e infelice. Scesi nell'autorimessa per vedere se c'era ancora la sua bicicletta, una Bianchi nera, nuova fiammante. Non la vidi. Era venuta a prenderla, con le chiavi che le avevo lasciato, senza salire in casa, oppure salendo mentre ero fuori. Provai il terrore di averla perduta davvero, e per sempre. Salii sulla mia bicicletta e pedalai sotto la pioggia fino alla libreria Feltrinelli del centro dove ci eravamo dati il primo appuntamento nell'autunno del '78. Poi tanti altri. Mi fermai davanti alla vetrina più grande. Di fronte ci sono le torri. Lì confluiscono diverse strade. Il cielo, uniformemente grigio, non mi attirava: non lo guardavo come fa Agave, la madre carnefice del figlio alla fine delle Baccanti, e come faccio spesso anche io cercando di ricavarne saggezza. Dalle vie confluenti nel luogo dove mi trovavo, dalla San Vitale in particolare, speravo di vedere arrivare ancora una volta lei, la donna che mi aveva lasciato. Come il sole da una nuvola acquosa, in quel tempo lontano Ifigenia era sbucata da via San Vitale appunto, arteria angusta e buia che a lungo andare porta fino a Ravenna e alla marina. Indossava un impermeabile chiaro, foderato di lana; aveva i capelli neri, luminosi, non lunghi, e negli occhi scuri, brillanti di gioia, racchiudeva un sorriso rivolto alle sue stesse speranze, alla sua attesa d'amore, e alla mia. Purtroppo quel giorno lontano non avevo apprezzato debitamente i presagi lieti, le promesse e le speranze di felicità impresse nel volto della ragazza che avanzava splendidamente verso di me per rendermi partecipe dei suoi doni celesti. Anche per questo speravo di vederla arrivare un'altra volta. Troppo occupato dalla brama, prima, poi dalla rischiosa occupazione di godere la sua carne fresca e soda, avevo perduto l'occasione di contemplare e comprendere la poesia incarnata in lei. In quel tempo volevo trovare il Giovanni di Mozart dentro di me, l'ingannatore, l'iniquo 19, il seduttore che abita sul monte di Venere e Kierkegaard definisce "l'ncarnazione della carne"20.. Da imbecille qual ero, avevo seguito una suggestione fantasiosa perdendo un'occasione di felicità reale. Però forse quanto non avevo realizzato vivendo, l'avrei compiuto scrivendo. Valeva la pena di ripercorrere con la memoria e fissare su tanti fogli con la parola scritta, la storia di due anni e quattro mesi passati con lei; anche di un'enorme fatica pluriennale era degna quell'opera, pure a discapito di ogni altra occupazione, essa andava compiuta, siccome con tale impresa avrei capito e fatto capire quanto in tanti altri libri non si poteva trovare raffigurato con la chiarezza e la densità che volevo raggiungere. Dovevo comprendere e fare capire ai miei lettoi per quale ragione un benessere fondato su orgasmi molto numerosi e piacevoli, però istantanei, malsicuri, bisognosi di iterazioni e conferme continue, non fosse cresciuto fino a diventare gioia certa - eujdaimoniva, un buon rapporto con il mio demone e con quello di lei. Con tale proposito tornai a casa. Guardai i pochi appunti che avevo preso durante la relazione e le rarissime lettere scambiate con la ragazza. Avrei dovuto usare la forza della memoria. Presi in mano per primo il foglio che Ifigenia mi aveva scritto e mai spedito quando ero a Debrecen: il mancato espresso che aspettavo ogni giorno finché arrivò un telegramma che lo preannunciava; da allora lo agognavo ogni momento del dì e della notte, con dolore e sospetto crescente a mano a mano che il tempo passava, invano, fino all'ultimo giorno dell'atroce vacanza, quando ripartii per Bologna e decisi che era assurdo soffrire per una creatura del genere, probabilmente infedele, sicuramente bugiarda. Rilessi dunque la lettera che la ragazza mi consegnò quando ci incontrammo a casa mia. Ne sottolineai e trascrissi alcune parole:"Ho visto i tuoi occhi: avevi un'espressione dolce e sorridevi. Dio com'eri bello!". “Tutt’al più lepido moretto”, pensai con ironia tratta da Così fan tutte. Poi però volli esaminarmi in uno specchio, quello del bagno, fissato sopra il lavabo. Brutto proprio, non ero diventato, eppure rispetto al tempo della felicità sessuale, avevo assunto un'espressione dura, tirata, che certamente non mi donava. Tornai nello studio a meditare sulle parole di quel foglio. Quando le lessi per la prima volta, nell'agosto del '79, vi cercavo una cosa sola: un indizio del tradimento di cui ero quasi sicuro. Il 15 marzo del 1981 invece mi sembrò una prova d'amore. Annotai anche queste frasi:"Per me ora sei l'Unico: il più intelligente, il più sensibile, il più sincero, il più giusto, il più dolce, il più desiderabile, il più sensuale. Tu sei così completo! Rappresenti la vera bellezza spirituale. Davvero per me sei così. Ed io, io ti amo e tu mi ami. Non è una cosa meravigliosa? Ce l'abbiamo fatta! Il nostro amore è troppo vero, unico e profondo perché la prova potesse fallire. Abbiamo vissuto insieme, giorno dopo giorno, arricchendoci ed essendo tanto felici. Sono emozionata e contenta perché finalmente sono riuscita a scriverti". Misi la lettera tra le carte da usare per il romanzo. Se mi fosse arrivata a Debrecen, non avrei smesso di amarla. Quando, troppo tardi, la lessi a Bologna, mi sembrò stupida e falsa. Un anno e mezzo dopo invece ne sottolineavo e trascrivevo le espressioni con venerazione commossa. Era diventato un documento prezioso, come l’apoteosi tardiva di un’ eroina ingiustamente condannata dal popolo ingrato cui aveva reso benefici immensi. Solo dopo la morte era stata onorata, santificato, invocata nelle orazioni, e vanamente rimpianta per sempre. Giovanna d’Arco magari. Pensato questo, decisi di non divagare e copiai le poche parole scritte da quando conobbi Ifigenia al 31 dicembre del '78. Tredici ottobre:"Oggi una nuova collega giovane e bella mi si è offerta, ma l'ho rifiutata". Nemmeno una parola di commento."Soltanto.. anni dopo ci ricordiamo che il più grande avvenimento della nostra vita sentimentale si è attuato, senza che avessimo il tempo di accordargli una lunga attenzione, quasi di prendene conoscenza", pensai ricordando un suggerimento di Proust 21 .
Dalla metà di novembre compare la paura di amare. "I mostri, la peste clericale, le zie pretificate", pensai. Dicembre ha poche parole su alcuni errori di stile, di intelligenza della ragazza e sull'angoscia che mi avevano inflitto. Alle cinque e tre quarti il sole sbucò dalle nuvole. "Presagio di estate felice?" mi domandai citando il mio dramma. Significherebbe il recupero delle forze vitali intirizzite. Nota assai positiva in data 4 maggio 1979:" Sto accettandola in tutti i suoi aspetti". Un sentimento raro. Durante quegli ultimi giorni felici, raggiungemmo il culmine. Doveva esserci una fusione o trasfusione anche mentale. Altrimenti non avremmo fatto l'amore così tante volte, così dappertutto: anche in mezzo ai cespugli quasi spinosi, agli avvallamenti dell'autostrada, poco cupi di giorno e d'estate, nei gabinetti mobili e rumorosi, quasi vociferanti dei treni in corsa. Gli appunti del mese di Debrecen, piuttosto abbondanti, descrivono giorno per giorno la decadenza e la fine. della nostra fantastica intesa. Ne avrei ricavato un lungo episodio, un antefatto ricco di casi dolorosi prima, lieti e amorosi poi, dal primo viaggio verso Debrecen nel luglio del 1966 ai successivi fino al 1976, e avrei raccontato la terapia che quella università estiva aveva costituito per me, le amicizie, gli amori che ci avevo trovato, aprendomi la mente, provincializzandomi e acquistando fiducia in me stesso22. Note 19 Cfr. Don Giovanni di Mozart-Da Ponte, I, 5: “Stelle! L'iniquo fuggì”. 20 Cfr. L'idea del Don Giovanni e la musica di Mozart, trad. it. Mondadori, Milano, 1981, p.98.
21 Cfr. M. Proust, All'ombra delle fanciulle in fiore, trad. it. Einaudi, Torino, 1978, p.475-476.
22 Questo antefatto è già stato pubblicato da Pontevecchio editore nell’ottobre del 2023. Il volume di circa 200 pagine è intitolato Tre amori a Debrecen.
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Già docente di latino e greco nei Licei Rambaldi di Imola, Minghetti e Galvani di Bologna, docente a contratto nelle università di Bologna, Bolzano-Bressanone e Urbino. Collaboratore di vari quotidiani tra cui "la Repubblica" e "il Fatto quotidiano", autore di traduzioni e commenti di classici (Edipo re, Antigone di Sofocle; Medea, Baccanti di Euripide; Omero, Storiografi greci, Satyricon) per diversi editori (Loffredo, Cappelli, Canova)
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Ciclo di incontri alla biblioteca «Ginzburg». Protagonisti della storia antica
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martedì 15 ottobre 2024
Ifigenia CLXCVII. Continua il pellegrinaggio. La rassegna degli appunti commentati con il senno, tardivo, del poi.
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