lunedì 14 ottobre 2024

Ifigenia CLXCIII. Cesare e Cleopatra. Il divorzio con il decalogo


 

 

Il 13 marzo corsi i 5000 metri in 21,52. Non è un bel tempo, ma

era il primo della stagione che, anzi, avevo anticipato di un mese.

Lo  stimolo era sempre Ifigenia che, pur non amandomi più,

né volendomi bene, mi spingeva ad agire e a patire per il mio

bene. La sera le feci una densa lezione: doveva prepararsi su un atto di Cesare e Cleopatra di Bernard Shaw . Le serviva per l’esame di recitazione e ne fu contenta: aveva il volto ridente, gli occhi socchiusi e la

semichiostra superiore dei denti un poco sporgente dal labbro abbronzato e

 appena rialzato9 : riconoscevo l'aria infantile, ingenua, quasi da scoiattolo boschivo dei primi giorni felici; sembrava

perfino che mi amasse di nuovo, o per lo meno che fosse

affascinata un'altra volta da me; invece, tutt'al più mi era grata,

siccome, nonostante il suo disamore, continuavo a sgobbare per

lei.

 

Il  14 marzo andai a prenderla all’uscita dalla sua scuola  per

invitarla sull'Appennino a prendere il sole. Era sabato, il mio

giorno libero. Mi vide arrivare dentro la Volkswagen cui

avevo attaccato gli sci. Mi venne incontro.

La invitai a salire se voleva e poteva venire con me fino  al Corno alle scale per ripassare l'abbronzatura. Fece due salti di gioia, come ai tempi belli della

sua supplenza nel liceo, quindi si allontanò, di corsa, per impetrare il

permesso dai suoi maestri. Non fu difficile:  disse che doveva andare

da un medico.

Percorremmo il tragitto parlando di scuola e di esami; non

eravamo scontenti. Ma quando fummo arrivati su quella montagna

triste, senza sole, già priva di neve, non trovammo niente di

buono, né di nuovo da dirci. Si parlava ancora una volta delle

nostre emozioni vane e cattive. Ci fermammo un'ora soltanto.

Come fummo a Bologna, verso le sei, l'accompagnai a casa sua,

poi tornai nella mia. Eravamo d'accordo che ci saremmo sentiti

alle dieci per decidere che cosa fare.

Entrai nello studio illuminato dal sole finalmente sbucato dalle

invide nuvole vinte. Stava per tramontare non lontano oramai

dalla grande pianura del nord: gradevole segno di primavera.

Eppure sentivo di essere completamente solo su questa terra, di

non provare interesse per alcuna persona vivente tranne la giovane

donna che non ne provava per me. Perfino lo studio, gli alunni, la

scuola, in quel tempo mi piacevano poco. Probabilmente Ifigenia non

poteva amarmi proprio perché mi vedeva privo di una  vita

indipendente dalla sua: di fatto ero meno vivo che morto. Andai in

camera a buttarmi sul letto: mi sentivo incapace di fare

qualsiasi cosa. Ripensai con struggimento ai vari periodi della

nostra storia, tutti meno infelici di tali giorni orrendi, e in età

nemmeno più tanto verde 10.

Era stato meno brutto, sebbene parecchio angoscioso, anche il periodo in cui non la amavo più, e forse nemmeno lei amava me, però non voleva che la lasciassi.

Allora, distesa su quel letto con gli occhi socchiusi e il breve

labbro appena rialzato sui denti, le braccia aperte, le gambe

divaricate, impaurita come un gattino nero che miagola per il

terrore di essere abbandonato, "non ti deluderò-diceva-dammi solo

dell'altro tempo".

"Certo, tesoro-la confortavo-io starò con te  finché tu avrai bisogno di me, e in ogni caso non voglio farti del male". Questo era vero, ma era pur vero che  ero innamorato di un'altra. La situazione allora era penosa, ma quel 14

marzo di mia disfatta totale la rimpiangevo. Quella sera stessa accadde un fatto imprevisto, anche se non imprevedibile, tale comunque che diede

un'altra svolta e altri sobbalzi alla nostra vicenda già declinante

per una strada accidentata, irta di sassi, forata da buche e  tortuosa.

Alle dieci le telefonai, poi andai a prenderla.  Avevamo preso

l'accordo di stare un paio di ore nel letto: il tempo di fare

comodamente l'amore. Lo facemmo un numero sufficiente di volte

e con discreta soddisfazione, mia se non altro. La terza però ci

eravamo stancati: a me era sembrato di pedalare in salita con un

rapporto troppo lungo; lo Stelvio con il 21 per chi sa di ciclismo; il

tipo di sforzo che danneggia il cuore, dicono.

 

Stavamo facevando una pausa dunque e si riprendeva fiato, con gli occhi

rivolti al soffitto, quand'ecco che all'improvviso Ifigenia

disse:"Ti devo parlare". Rabbrividii, poi la guardai. "Di’ pure".

"Gianni, io non avevo molta voglia di vederti e di stare con te

questa sera; anzi è da qualche tempo che non sento più spinte forti

verso di te; certo non come una volta".

Fece una pausa, ma  non intervenni."Tu non ne hai colpa-riprese-:

oggi sei stato particolarmente carino venendo a prendermi là. Ma

dopo, hai visto? Non c'era niente di buono da dirci. Abbiamo

parlato soltanto delle nostre emozioni malsane, e non ancora

smaltite evidentemente. Forse quanto sto dicendo non è giusto né

logico, ma adesso  sento così. Perciò non dobbiamo più

frequentarci, almeno per un certo periodo. Poi si vedrà".

"Ho capito", risposi con tono calmo e condiscendente. "Se tu senti

così, non porti questioni di logica né di giustizia, né, tanto meno,

di convenienza. Fai bene a lasciarmi. In effetti c'è molta

stanchezza tra noi: la provo anche io". Le accarezzai una guancia,

le feci un sorriso mesto e le domandai:"Toglimi una curiosità, anzi

un dubbio tesoro: hai ancora, o di nuovo in testa il maestro di

danza?"

"No", rispose in modo secco ma non tanto sicuro. In ogni caso mi

consolò un poco. Non soffrivo come la notte del 19 novembre:

oramai la decadenza estrema del rapporto mi aveva stremato e

sentivo anche io che ci voleva un rivolgimento, qualunque esso

fosse. Peggio di così non poteva andare.  Non ho mai capito le coppie di sciagurati che restano insieme nella disistima, nei maltrattamenti, nell’odio reciproco. Ne ho viste tante dappertutto.

La guardavo con attenzione finché era nuda: poteva essere l'ultima

volta della mia vita. Glielo dissi.

"Non si sa- rispose-, non parliamo di questo. Lasciamo fare al

destino".

Le chiesi i consigli finali, il suo testamento spirituale per me. Mi

ha lasciato un decalogo o codice cui ogni giorno da quella sera

lontana ho obbedito.

"Conserva – disse - tutto il bene che hai ricevuto da me. Dimentica

il male. Non ingrassare, non bere alcolici, non imbruttire. Non

smettere di insegnare divinamente come sai. Rifuggi i vizi e le

debolezze della gente ordinaria. Ma soprattutto riprendi a scrivere

presto; questa volta però devi creare qualche cosa di grande:

racconta tutta la nostra storia, procurati e regalami la gloria eterna.

Mettici dentro le nostre giornate, le scene, i viaggi che già in sé non

sono banali; tu poi aggiungi lo stile dell'epico, dell'universale. Usa

la forza che hai dentro: tendila come un arco per colpire la sfera

emotiva dei lettori. Devi adoperare la penna come un martello

implacabile che stritoli i luoghi comuni: ricorda l'"atrox stilus "11 di

Petronio . Devi farlo per me e per te stesso. Il talento ce l'hai. Prometti?"

"Sì, farò tutto questo angelo mio, mia Musa, te lo prometto".

"E io – domandò – che cosa devo fare per non perdere la tua

stima?"

"Tu sei bella e intelligente, creatura. Non degradarti, non lasciarti

corrompere dai mascalzoni o dagli imbecilli.  Non buttarti via. Continua a studiare, a leggere, a pensare con la tua testa, a non accettare i

compromessi, a fuggire lontano dalla volgarità. Coltiva lo spirito.

Conserva l'aspetto splendidissimo di cui ti hanno dotata benigni

gli dei: sii sempre la bellezza che vedo adesso, che vidi la prima

volta due anni e mezzo fa, in questo letto dove ho vissuto le mie gioie più grandi. Bei tempi per tutti e due, credo. Mangia con moderazione, non bere alcolici nemmeno tu, non fumare, fai molta ginnastica che è la cosmesi migliore 12.

In maniera correlativa al mio scrivere, tu devi recitare, poiché il tuodestino migliore è fare l'attrice".

Ifigenia sorrise e  disse:"Farò tutto questo. Tu sei tanto caro

gianni". Poi mi accarezzò e cominciò a rivestirsi. Sarebbe finita

bene la nostra storia se fosse finita qui. Le guardavo il seno, le natiche, la

vita, le cosce, le braccia che si coprivano come si annuvola il sole,

e mi chiedevo se avrei potuto contemplarla di nuovo in camera mia,

nuda o svestita a festa.

"Vedremo", pensai, come mi aveva

suggerito lei stessa."Lasciamo fare al destino".

Quindi l'accompagnai a casa senza antipatia. Ci salutammo con un

bacio augurandoci buona fortuna. Come avremmo fatto il 15

giugno seguente. Sembrava un addio. Tornai subito a casa. Non

ero troppo infelice. Nel mio studio dilagava la luce di una luna

pienissima. Ero stanco e assonnato, ma il momento era solenne e

mi sentii in dovere di scrivere qualche parola.

Ifigenia aveva rivelato un'anima nobile, lasciandomi quando

aveva ancora bisogno di me. Il suo esame  non era lontano:

avrebbe potuto resistere, per convenienza, altri quattro o cinque mesi;

invece se n'era andata poiché non sentiva più di amarmi e non

stava volentieri con me. Questo significava che non mentiva

quando diceva di amarmi; certamente era stata più schietta di me;

io di mia iniziativa non l'avrei lasciata mai, per tante ragioni, ma

soprattutto per l'utile . Prima di stendermi nel grande letto dove

forse non l'avrei vista altre volte, scrissi che la nostra vicenda si era

conclusa con  stima e gratitudine eterna per quella creatura mia

che mi aveva insegnato a essere meno insicuro, cretino e cattivo.

 

Note

9

Cfr. L. Tolstoj, Guerra e pace, trad. it. Mondadori, Milano, 1979, p.12.


 

 

10

Cfr. Leopardi, La sera del dì di festa, vv.23-24.

11

Cfr. Satiricon, 4:"ut verba atroci stilo effoderent ", in modo che correggessero

le parole con penna implacabile.

12

Cfr. Platone, Gorgia, 465b.

 

Pesaro 14 ottobre 2024 ore 10, 26 giovanni ghiselli

 

p. s

 

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