Il 13 marzo corsi i 5000 metri in 21,52. Non è un bel tempo, ma era il primo della stagione che, anzi, avevo anticipato di un mese. Lo stimolo era sempre Ifigenia che, pur non amandomi più, né volendomi bene, mi spingeva ad agire e a patire per il mio bene. La sera le feci una densa lezione: doveva prepararsi su un atto di Cesare e Cleopatra di Bernard Shaw . Le serviva per l’esame di recitazione e ne fu contenta: aveva il volto ridente, gli occhi socchiusi e la semichiostra superiore dei denti un poco sporgente dal labbro abbronzato e appena rialzato9 : riconoscevo l'aria infantile, ingenua, quasi da scoiattolo boschivo dei primi giorni felici; sembrava perfino che mi amasse di nuovo, o per lo meno che fosse affascinata un'altra volta da me; invece, tutt'al più mi era grata, siccome, nonostante il suo disamore, continuavo a sgobbare per lei.
Il 14 marzo andai a prenderla all’uscita dalla sua scuola per invitarla sull'Appennino a prendere il sole. Era sabato, il mio giorno libero. Mi vide arrivare dentro la Volkswagen cui avevo attaccato gli sci. Mi venne incontro. La invitai a salire se voleva e poteva venire con me fino al Corno alle scale per ripassare l'abbronzatura. Fece due salti di gioia, come ai tempi belli della sua supplenza nel liceo, quindi si allontanò, di corsa, per impetrare il permesso dai suoi maestri. Non fu difficile: disse che doveva andare da un medico. Percorremmo il tragitto parlando di scuola e di esami; non eravamo scontenti. Ma quando fummo arrivati su quella montagna triste, senza sole, già priva di neve, non trovammo niente di buono, né di nuovo da dirci. Si parlava ancora una volta delle nostre emozioni vane e cattive. Ci fermammo un'ora soltanto. Come fummo a Bologna, verso le sei, l'accompagnai a casa sua, poi tornai nella mia. Eravamo d'accordo che ci saremmo sentiti alle dieci per decidere che cosa fare. Entrai nello studio illuminato dal sole finalmente sbucato dalle invide nuvole vinte. Stava per tramontare non lontano oramai dalla grande pianura del nord: gradevole segno di primavera. Eppure sentivo di essere completamente solo su questa terra, di non provare interesse per alcuna persona vivente tranne la giovane donna che non ne provava per me. Perfino lo studio, gli alunni, la scuola, in quel tempo mi piacevano poco. Probabilmente Ifigenia non poteva amarmi proprio perché mi vedeva privo di una vita indipendente dalla sua: di fatto ero meno vivo che morto. Andai in camera a buttarmi sul letto: mi sentivo incapace di fare qualsiasi cosa. Ripensai con struggimento ai vari periodi della nostra storia, tutti meno infelici di tali giorni orrendi, e in età nemmeno più tanto verde 10. Era stato meno brutto, sebbene parecchio angoscioso, anche il periodo in cui non la amavo più, e forse nemmeno lei amava me, però non voleva che la lasciassi. Allora, distesa su quel letto con gli occhi socchiusi e il breve labbro appena rialzato sui denti, le braccia aperte, le gambe divaricate, impaurita come un gattino nero che miagola per il terrore di essere abbandonato, "non ti deluderò-diceva-dammi solo dell'altro tempo". "Certo, tesoro-la confortavo-io starò con te finché tu avrai bisogno di me, e in ogni caso non voglio farti del male". Questo era vero, ma era pur vero che ero innamorato di un'altra. La situazione allora era penosa, ma quel 14 marzo di mia disfatta totale la rimpiangevo. Quella sera stessa accadde un fatto imprevisto, anche se non imprevedibile, tale comunque che diede un'altra svolta e altri sobbalzi alla nostra vicenda già declinante per una strada accidentata, irta di sassi, forata da buche e tortuosa. Alle dieci le telefonai, poi andai a prenderla. Avevamo preso l'accordo di stare un paio di ore nel letto: il tempo di fare comodamente l'amore. Lo facemmo un numero sufficiente di volte e con discreta soddisfazione, mia se non altro. La terza però ci eravamo stancati: a me era sembrato di pedalare in salita con un rapporto troppo lungo; lo Stelvio con il 21 per chi sa di ciclismo; il tipo di sforzo che danneggia il cuore, dicono.
Stavamo facevando una pausa dunque e si riprendeva fiato, con gli occhi rivolti al soffitto, quand'ecco che all'improvviso Ifigenia disse:"Ti devo parlare". Rabbrividii, poi la guardai. "Di’ pure". "Gianni, io non avevo molta voglia di vederti e di stare con te questa sera; anzi è da qualche tempo che non sento più spinte forti verso di te; certo non come una volta". Fece una pausa, ma non intervenni."Tu non ne hai colpa-riprese-: oggi sei stato particolarmente carino venendo a prendermi là. Ma dopo, hai visto? Non c'era niente di buono da dirci. Abbiamo parlato soltanto delle nostre emozioni malsane, e non ancora smaltite evidentemente. Forse quanto sto dicendo non è giusto né logico, ma adesso sento così. Perciò non dobbiamo più frequentarci, almeno per un certo periodo. Poi si vedrà". "Ho capito", risposi con tono calmo e condiscendente. "Se tu senti così, non porti questioni di logica né di giustizia, né, tanto meno, di convenienza. Fai bene a lasciarmi. In effetti c'è molta stanchezza tra noi: la provo anche io". Le accarezzai una guancia, le feci un sorriso mesto e le domandai:"Toglimi una curiosità, anzi un dubbio tesoro: hai ancora, o di nuovo in testa il maestro di danza?" "No", rispose in modo secco ma non tanto sicuro. In ogni caso mi consolò un poco. Non soffrivo come la notte del 19 novembre: oramai la decadenza estrema del rapporto mi aveva stremato e sentivo anche io che ci voleva un rivolgimento, qualunque esso fosse. Peggio di così non poteva andare. Non ho mai capito le coppie di sciagurati che restano insieme nella disistima, nei maltrattamenti, nell’odio reciproco. Ne ho viste tante dappertutto. La guardavo con attenzione finché era nuda: poteva essere l'ultima volta della mia vita. Glielo dissi. "Non si sa- rispose-, non parliamo di questo. Lasciamo fare al destino". Le chiesi i consigli finali, il suo testamento spirituale per me. Mi ha lasciato un decalogo o codice cui ogni giorno da quella sera lontana ho obbedito. "Conserva – disse - tutto il bene che hai ricevuto da me. Dimentica il male. Non ingrassare, non bere alcolici, non imbruttire. Non smettere di insegnare divinamente come sai. Rifuggi i vizi e le debolezze della gente ordinaria. Ma soprattutto riprendi a scrivere presto; questa volta però devi creare qualche cosa di grande: racconta tutta la nostra storia, procurati e regalami la gloria eterna. Mettici dentro le nostre giornate, le scene, i viaggi che già in sé non sono banali; tu poi aggiungi lo stile dell'epico, dell'universale. Usa la forza che hai dentro: tendila come un arco per colpire la sfera emotiva dei lettori. Devi adoperare la penna come un martello implacabile che stritoli i luoghi comuni: ricorda l'"atrox stilus "11 di Petronio . Devi farlo per me e per te stesso. Il talento ce l'hai. Prometti?" "Sì, farò tutto questo angelo mio, mia Musa, te lo prometto". "E io – domandò – che cosa devo fare per non perdere la tua stima?" "Tu sei bella e intelligente, creatura. Non degradarti, non lasciarti corrompere dai mascalzoni o dagli imbecilli. Non buttarti via. Continua a studiare, a leggere, a pensare con la tua testa, a non accettare i compromessi, a fuggire lontano dalla volgarità. Coltiva lo spirito. Conserva l'aspetto splendidissimo di cui ti hanno dotata benigni gli dei: sii sempre la bellezza che vedo adesso, che vidi la prima volta due anni e mezzo fa, in questo letto dove ho vissuto le mie gioie più grandi. Bei tempi per tutti e due, credo. Mangia con moderazione, non bere alcolici nemmeno tu, non fumare, fai molta ginnastica che è la cosmesi migliore 12. In maniera correlativa al mio scrivere, tu devi recitare, poiché il tuodestino migliore è fare l'attrice". Ifigenia sorrise e disse:"Farò tutto questo. Tu sei tanto caro gianni". Poi mi accarezzò e cominciò a rivestirsi. Sarebbe finita bene la nostra storia se fosse finita qui. Le guardavo il seno, le natiche, la vita, le cosce, le braccia che si coprivano come si annuvola il sole, e mi chiedevo se avrei potuto contemplarla di nuovo in camera mia, nuda o svestita a festa. "Vedremo", pensai, come mi aveva suggerito lei stessa."Lasciamo fare al destino". Quindi l'accompagnai a casa senza antipatia. Ci salutammo con un bacio augurandoci buona fortuna. Come avremmo fatto il 15 giugno seguente. Sembrava un addio. Tornai subito a casa. Non ero troppo infelice. Nel mio studio dilagava la luce di una luna pienissima. Ero stanco e assonnato, ma il momento era solenne e mi sentii in dovere di scrivere qualche parola. Ifigenia aveva rivelato un'anima nobile, lasciandomi quando aveva ancora bisogno di me. Il suo esame non era lontano: avrebbe potuto resistere, per convenienza, altri quattro o cinque mesi; invece se n'era andata poiché non sentiva più di amarmi e non stava volentieri con me. Questo significava che non mentiva quando diceva di amarmi; certamente era stata più schietta di me; io di mia iniziativa non l'avrei lasciata mai, per tante ragioni, ma soprattutto per l'utile . Prima di stendermi nel grande letto dove forse non l'avrei vista altre volte, scrissi che la nostra vicenda si era conclusa con stima e gratitudine eterna per quella creatura mia che mi aveva insegnato a essere meno insicuro, cretino e cattivo.
Note 9 Cfr. L. Tolstoj, Guerra e pace, trad. it. Mondadori, Milano, 1979, p.12.
10 Cfr. Leopardi, La sera del dì di festa, vv.23-24.
11 Cfr. Satiricon, 4:"ut verba atroci stilo effoderent ", in modo che correggessero le parole con penna implacabile. 12 Cfr. Platone, Gorgia, 465b.
Pesaro 14 ottobre 2024 ore 10, 26 giovanni ghiselli
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Già docente di latino e greco nei Licei Rambaldi di Imola, Minghetti e Galvani di Bologna, docente a contratto nelle università di Bologna, Bolzano-Bressanone e Urbino. Collaboratore di vari quotidiani tra cui "la Repubblica" e "il Fatto quotidiano", autore di traduzioni e commenti di classici (Edipo re, Antigone di Sofocle; Medea, Baccanti di Euripide; Omero, Storiografi greci, Satyricon) per diversi editori (Loffredo, Cappelli, Canova)
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lunedì 14 ottobre 2024
Ifigenia CLXCIII. Cesare e Cleopatra. Il divorzio con il decalogo
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