Lunedì sedici marzo 1981, dopo la scuola, tornai sulla collina dove Il ventotto ottobre del 1978 avevo portato la ragazza dopo averla incontrata davanti alla libreria Feltrinelli. E' un'altura senz'alberi, situata tra il botteghino di Zocca sulla valle di Zena e Pianoro sulla via della Futa. Arrivato, fermai la bianca Volkswagen dove allora avevo lasciato la nera. Ne uscii e ridiscesi lungo l'erto pendio fino al cupo fondo dove era terminata la nostra corsa precipitosa. Sedetti per terra nel luogo infimo dove ci eravamo fermati. Il cielo era freddo, ventoso, scuro di nubi. Ricordai che due anni e quattro mesi prima, invitando la ragazza a seguirmi giù per quel campo scosceso dove si addensavano le rapide ombre del pomeriggio autunnale, avevo voluto indicarle la l'oscurità dell'anima mia. Nella primavera misera, priva di grazia, rimpiangevo l’ottobre di Ifigenia. Cominciai a risalire la china con la mano destra tesa dietro la schiena, per ripetere e ritualizzare il gesto di allora, quando avevo offerto aiuto alla ragazza insicura tirandola su. Pensavo che quell'autunno lontano era stato preceduto da un triennio di studio feroce: tre anni interminabili passati a riempirmi la testa di paradigmi, traduzioni, manuali, letture critiche ; un lavoro che doveva procedere spietatamente, tutti i giorni, in ogni stagione. Se mi concedevo una pausa, per ristorare il cervello di aria e di luce, andavo proprio su quel colle sopra la valle di Zena , ma solo nel primo pomeriggio della domenica, in automobile, tacito e solo, perché l’evasione non mi togliesse energie e concentrazione dovute allo studio. Avevo un paio di compagne di letto che potevo vedere solo di rado e a turno per giunta, siccome dovevo indirizzare perfino i sentimenti sui libri, oggetto di studio e di ogni libidine forte. Prima delle nove di sera non volevo vedere nessuno, per paura di perdere tempo e l'autonomia necessaria a conseguire l'alto scopo di imparare tanto, e tanto bene da farmi non solo ascoltare ma pure ammirare dalle ragazze e dai ragazzi. Anche dalle colleghe carine se possibile, quando ne venivano arruolate per delle supplenze. "Ne va della vita", mi dicevo talora; "se fallissi, non potrei più sopportarmi". Invece avevo raggiunto lo scopo, l'ammirazione dei giovani, e il premio di tanta fatica: Ifigenia stessa. Una talmente giovane e bella che prima di quella vittoria davvero olimpica , non avrei osato nemmeno guardare in faccia. Elena, l’ Augusta, l’accrescitrice era bella non meno di lei ma non così giovane. Studio feroce dunque, ma non disperato, né matto, né vano, anzi pieno di buone speranze,razionale, e fiducioso di conseguire un contraccambio concreto, una borsa di studio1 non certo in denari che non mi interessavano punto, ma in termini di accrescimento spirituale e vitale. Compresi subito che per insegnare qualche cosa, prima bisognava piacere, e per questo dovevo procurarmi, oltre la sicurezza nelle parti tecniche del latino e del greco, un vasto repertorio di lezioni storiche, letterarie, filosofiche, ricche di contenuti interessanti, ornate da citazioni efficaci, dette a memoria senza alcuna incertezza, collegate tra loro con intelligenza. Per questo tipo di insegnamento non avevo modelli; casomai contromodelli, siccome dovevo discostarmi dai metodi appresi ascoltando tediato i professori usuali che annoiano se stessi e gli studenti con lezioni fiacche, povere di cultura e carenti di vita. Sapevo di avere i mezzi per farcela, anche se all'inizio, quando presi l'incarico, i ragazzi più preparati del liceo Rambaldi di Imola ne sapevano non meno di me. Avevo paura, tremavo, ma non me ne lasciai travolgere, né volli tentare di fingere. Feci la cosa migliore che potevo: mi lasciai guidare dagli allievi ottimi, li ascoltai, compresi che cosa dovevo imparare per interessarli. E studiai, spietatamente verso me stesso sul momento. Ma con il tempo tale spietatezza sarebbe diventata pietas e ne sarei stato ricompensato dagli dei e dagli uomini. La guida piùsicura verso le cose buone che ho dato e avuto, sono stati i ragazzi. Con Ifigenia dunque avevo ricevuto il premio sperato, voluto con tutta la forza, e di valore adeguato all'immane fatica. Eppure non ne ero stato felice poiché avevo voluto appropriarmi di quella ricompensa meravigliosa e divina, divorandola con voracità animalesca, invece di rispettarla e contemplarla fino a comprenderne tutta la bellezza, la poesia, la provenienza celeste. Era una persona, una creatura umana, non era materia. L’Augusta coetanea Elena me l’aveva insegnato, mentre Ifigenia non ne aveva coscienza, non lo sapeva e non me lo ricordava. Mentre risalivo la china del colle, ad un tratto il cielo si aprì, e un raggio di sole per un momento riscaldò la terra, ravvivò il verde della vegetazione novella. Interpretai quella luce fendente le nubi come una ierofania che preannunciava il ritorno di Ifigenia.
Nota 1 Cfr. il romanzo Tess of the D'Ubervilles (del 1891) di T. Hardy dove Angel Clare si rivolge a Tess dicendole : " darling, the great prize of my life-my Fellowship" (XXXII capitolo), cara, il più grande premio della mia vita, la mia borsa di studio
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Già docente di latino e greco nei Licei Rambaldi di Imola, Minghetti e Galvani di Bologna, docente a contratto nelle università di Bologna, Bolzano-Bressanone e Urbino. Collaboratore di vari quotidiani tra cui "la Repubblica" e "il Fatto quotidiano", autore di traduzioni e commenti di classici (Edipo re, Antigone di Sofocle; Medea, Baccanti di Euripide; Omero, Storiografi greci, Satyricon) per diversi editori (Loffredo, Cappelli, Canova)
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martedì 15 ottobre 2024
Ifigenia. CLXCIX. Il cammino ripercorso e ripensato. La ierofania.
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