sabato 12 ottobre 2024

Ifigenia CLXXXVII. “Donna, mistero senza fine bello!”


 

 

Come Dio volle, arrivò l'ora di cena. Per fortuna la cameriera della colazione

non c'era. Oltretutto in effetti non era un granché.

Non avevo più alcuna voglia di vedere la mia compagna in quello stato pieno di furia o di lagna: mi faceva pena e mi dava fastidio. Il quesito dilemmatico era se, dopo mangiato, era meglio chiederle di fare

l'amore con estrema cautela, o non proporglielo affatto.

Mentre la guardavo con sguardo che voleva essere mite, mi

sembrò che se avessi fatto una proposta erotica, probabilmente

avrei provocato un'altra reazione di dolore o di intolleranza.

-Come osi, dopo quanto hai detto? Senza contare quello che

avresti fatto se non fossi fuggita da quel precipizio! Appena in

tempo!”-

"No, no, per carità – pensai –, è meglio stare zitti!".

Parlava lei traendo profondi sospiri dal'imo petto. Diceva che tra

noi due infelicissimi, si erano alzate barriere di incomprensione

alte e fredde più degli algidi monti che incoronano la valle di

Fassa.

Era molto più commediante e barocca del solito. Sfoderava pose e

accenti melodrammatici inconsueti pure per lei, avida di esibire se

stessa. Sentivo che qualche cosa non funzionava nel suo cervello,

e le rispondevo in maniera generica, come faccio con Stefania, la

vecchia amica demente, quando ha le crisi nervose:"Eh sì,

purtroppo sì. Sembra anche a me".

Dicevo che se tra noi non andava bene come una volta, la colpa

non era sua né mia: era tutta  del fato.

"La divinità infatti è

invidiosa e turbolenta-citavo-, l'uomo soltanto vicissitudine23,

  e ciò che proviene dal cielo non è consentito stornarlo". Non volevo più

litigare né discutere con lei che per quel giorno, secondo le mie

previsioni, non avrebbe riacquistato il controllo del cavallo

cretino, violento, che la trascinava indietro verso un passato

doloroso e spaventoso.

Finita la cena, ci alzammo per avviarci verso le camere. Salimmo

in silenzio le rampe comuni, finché arrivammo dove le strade

nostre si dividevano:"Hic locus est, partis ubi se via findit in

ambas"24,  pensai. Lì ci fermammo in silenzio. Aspettavo che

dicesse qualche parola convenzionale come "buona notte".

Ed ecco che invece mi chiese:"Vuoi che facciamo l'amore?"

"Io sì – feci, piacevolmente stupito –, e tu?"

La fanciulla pazza, invece di rispondere si mise a fissarmi in

silenzio.

"Le orecchie, quantunque non sia una caracal, sono

aguzze "25 pensai, evitando di muovermi, come si deve fare con gli

animali  strani e bizzarri. Non volevo decidere io; ero quasi sicuro che se

mi fossi incamminato da una parte o dall'altra, ella si sarebbe

sdegnata; forse mi avrebbe dato un morso rabbioso o una rapida unghiata.

Nessuno dei due si spostava. Dopo un tempo non breve,

Ifigenia disse:"Viemmi vicino: ho tanto bisogno di te,

Gianni.". Mi avvicinai senza arrivare a toccarla. Mi abbracciò lei,

poi mi baciò. Non trovò opposizione né una partecipazione

entusiasta.

Quindi affermò:"Il mondo è proprio cattivo, ma io ti amo tanto".

Poi scostò il suo volto dal mio e riprese a fissarmi.

"Facciamo finta di niente", pensai. A questo punto però sembrava

auspicare e aspettare una proposta.

Azzardai:"Vieni cocca, andiamo in camera mia".

Non rispose; continuava a puntarmi. Allora, con cautela, le presi la

mano sinistra e sussurrai:"Vieni tesoro, andiamo". Poi cominciai a

guidarla, a tirarla pianino pianino, facendo piccoli passi. Cercavo

di comportarmi con fermezza, ma anche con tutti i riguardi di cui

hanno bisogno tali creature finite in balìa del cavallo demente.

 

Ho imparato dalla coetanea Stefania. Una volta, nei primi anni

settanta, quando non sapevo trattarla, diede in escandescenze in

piazza Garibaldi, l'ombelico di Padova, soltanto perché le avevo

detto che I diavoli, un film di Ken Russel, mi era piaciuto.

"Sei un comunista e un porco!" gridò nell'agorà affollata, alle sette

di sera. Poi mi colpì con un ombrello, in mezzo alla testa,

facendomi male. Quindi fuggì, lasciandomi semi intontito in


mezzo alla gente esterrefatta. Qualcuno cercò di prestarmi soccorso.

Un' ora più tardi  l’amica matta venne a casa mia

tutta pentita: si scusò dicendo che la colpa era stata non sua ma di

mestruazioni atroci. "Sì, e di quel cavallo tutto nero, peloso e

cretino", pensai.

E della mimesi materna, aggiungo ora. Falcia l'autonomia delle

donne. Le femmine rimangono appendici delle madri, i maschi dei

padri, quando ce l'hanno, e pochissimi crescono fino a diventare

persone indipendenti dai genitori: maximum scelus, maternus (vel

paternus) amor est26

Un'altra volta, verso la fine del decennio scorso, ifigenia mi vide

assumere l'atteggiamento di riprovazione fredda ma risoluta che

presento alla vista dei commedianti irragionevoli: la vecchia amica

Stefania si lasciò disarmare, e da furibonda divenne prima

lamentosa, poi benigna al punto da offrici il suo appartamento e da

andare a dormire dalla mamma, a Venezia, per lasciarcelo tutto.

Furente divenuta gentile.

Non voglio dire che i maschi sono migliori, anzi. Hanno piuttosto

il problema della tirannide dei costumi  diffusi: lo sfoggio della presunta virilità,  la rinuncia a ogni interesse con il passare del tempo. tranne il gioco delle carte e le partite di calcio.  Tutti dovremmo liberarci da questi ceppi e afferrare la briglia del cavallo nero della nostra biga mentale: ne acquisteremmo energia e disciplina.

Quando, uscita Stefania, ci trovammo soli, Ifigenia scoppiò a

ridere per la commedia cui avevamo assistito, come se tali follie

non fossero state un pericolo serio anche per noi due.

"Hai fatto finta di niente mentre la pazza infuriava, vero?", mi

domandò. Le spiegai che con i matti bisogna mostrare una calma

forte e sicura di sé.

 

Ebbene questa necessità si presentava di nuovo

a Moena, la sera dell'otto marzo del 1981, quando nella mia compagna

vedevo formarsi una furia minacciosa o un nichilismo assoluto , e facevo di tutto per evitare uno scontro. Pensavo che non fosse utile

chiederle un chiarimento dei suoi stati d'animo, poiché

probabilmente non ne aveva coscienza; del resto se pure l'avesse

avuta non avrebbe saputo spiegarla, e anche se l' avesse saputo,

non lo avrebbe fatto, siccome non si fidava di me. Nemmeno di se

stessa si fidava questa Desdemona, la disgraziata dal demone difficile, talora anche cattivo. Comunque facemmo l'amore tre

volte, e abbastanza di gusto. Io l'avrei iterato ancora, poiché

trovavo in qualche modo eccitante quell'intermittenza mentale,

quel barbaglio  lampeggiante della sua coscienza ; ma la

fanciulla divenne pazza di nuovo, come Geronimo27,  e questa volta troppo per proseguire.

Dopo il terzo orgasmo sembrava allegra e compiaciuta; io già

molto contento di quel risultato, quasi stropicciandomi le mani

dalla contentezza, andai nel bagno a lavarmi, per continuare a

battere il ferro caldo come si dice, ma quando, tre minuti più tardi,

tornai nella stanza da letto, quella piangeva a dirotto.

Le domandai:"Cosa c'è tesoro?". Non rispose. Le chiesi se potessi

aiutarla. Disse che nessuno poteva fare nulla per lei, infelice,

svuotata, forse anche malata nel corpo.

"Ho capito: allora vestiamoci subito; ti accompagno in camera,

così ti riposi", dissi con tono pacato, guardandola negli occhi

senza ironia né incertezza. Con le donne in crisi è necessario

comportarsi così; gli uomini che invece di prendere le briglie del

cavallo pazzo si lasciano calpestare, oppure montano in furia, si

meritano le zoccolate che ricevono in faccia.

Ifigenia saliva i gradini con passi di enorme stanchezza.

Sembrava che andasse a morire. La salutai, poi tornai in camera

mia, contento di dormire da solo.

Note

23

Cfr. Erodoto, Storie, I, 32 pa'n ejsti a[nqrwpo" sumforhv

24

Virgilio, Eneide, VI, 540.  Questo è un luogo dove la via si scinde in due.

25

Cfr. E. Canetti, Auto da fé, trad. it. Bompiani, Milano, 1990, p.789.

26

Il crimine più grande contro se stessi è imitare i genitori per tutta la vita,

traduzione libera. Cfr. Seneca:"maximum Thebis scelus/maternus amor est”,

Oedipus, vv. 627-628,  il delitto più grande a Tebe è l'amore della madre.


27" Hieronymo's mad again” ( T. S. Eliot, The waste land, v. 437 citato da La tragedia spagnola (1586) di Thomas Kid.

 

p. s.

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