Rimasi a Pesaro fino al 29 dicembre leggendo i miei autori, andando al mare e contando i secondi che la luce guadagnava ogni giorno sul buio, donandomi liete speranze. Ifigenia invece mi telefonava tenendomi in apprensione: restando sul generico.
Le sue parole non costituivano un balsamo per la mia inquietudine bensì la accentuavano. Ero del resto determinato a non permetterle di ridurmi a un rottame umano, come forse sperava, magari per poi darmi una mano rendendosi indispensabile. Oppure il colpo di grazia. Dovevo difendermi e stavo anche io sulle mie.
Sembrava che avesse lasciato il marito e fosse tornata a vivere con i suoi genitori nella Bolognina. Diceva che frequentava delle amiche che le facevano conoscere gente nuova. Io a questo punto la incoraggiavo dicendole: “fai bene, così potrai scegliere”, quindi la salutavo. Non volevo ricevere altre ferite.
Non ero tranquillo. Del resto non volevo che contasse su di me per il suo futuro. Bella era bella, per carità, ma non abbastanza educata e fine. Non credevo nemmeno che avrebbe seguitato a insegnare imparando.
La mattina del 30 dicembre partìi per un giro in Etruria con quattro colleghi. Uno era Silvano, quello che mi era stato vicino al tempo della storia di Päivi e della bambina abortita. Aveva con sé una compagna: Lidia, una nostra collega beneducata. Ero amico di entrambi: con lei avevo scambiato alcuni inviti a cena, con Silvano, ricorderete, ero stato a Debrecen, a Hortobgyi, a Capo nord e pure a Berlino est ospiti di un amica comune, Cornelia che avevo conosciuto nell’estate di Päivi.
Ci aveva ospitati in un appartamento luminoso, pieno di libri situato nella Unter der Linden a due passi dal Museo di Pergamo.
La compagnia di questo ultimo viaggio dunque mi era congeniale anche se non c’era nessuna donna tanto appetibile da potere distrarmi dall’ assillo, l’oi\stro~, il tafàno che era il pensiero di Ifigenia.
Eppure con queste persone avevo maggiori argomenti e interessi in comune che con quella ragazza in cerca del suo posto nel mondo.
Questi comites portavano addosso le stigmate di una vita sofferta che li aveva affinati e dotati di una sensibilità rispettosa: non invadente né petulante. Quando mi appartavo, mi lasciavano stare da solo con i miei pensieri. Ci scambiavamo comunque saluti e sorrisi. Andammo a vedere Civita di Bagnoregio, un borgo rimasto senza abitanti sulla cima di un colle sterile, giallo, striato da calanchi di friabile tufo: mi fece pensare a un uccello semispennato, impagliato e inchiodato sul tronco tagliato di un albero secco. Io ero indurito e mezzo ibernato dal gelo nemico. Giravamo su strade ghiacciate tra case disabitate e alcuni altri turisti intirizziti. Pativo il freddo più del mio solito: il sole già vicino al tramonto non scaldava la terra nemmeno con un rivolo di quel fiume di fervida luce che nel mese di agosto mi aveva riempito di forza e allegria durante il giro ciclistico in Grecia quando pregavo gli dèi di farmi incontrare una donna della mia levatura.
Il sole al tramonto del 30 dicembre invece spennellava sui campi infecondi e sulle macerie prive di vita una tinta scialba, bianchiccia, o piuttosto incolore. Una cosmesi inefficace come quella tentata da tinte scadenti e scadute sui pochi capelli di un vecchio malvissuto dal cranio pieno di macchie vituperose.
Così sbiadita e sconciata sarebbe stata la mia esistenza se tornando a Bologna non avessi ritrovato il piacere sessuale e il calore affettivo dei mesi precedenti, e i compiti, cioè le cose da fare ogni giorno anche per lei, magari non senza prospettive per i mesi seguenti, almeno fino a metà di luglio quando intendevo tornare a Debrecen dove avrei incontrato la buona Cornelia, la comunista aristocratica Cornelia. Suo padre era un intellettuale di Berlino est, dirigente telelevisivo della DDR.
Una ragazza educata e fine che incontrerete anche voi lettori, durante l’estate seguente, a debrecen.
Bologna 17 dicembre 2024 ore 12, 27
giovanni ghiselli.
p. s.
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