Verso le sei e mezzo l’accompagnai al cinema, il Contavalli attualmente sparito. C’era una storia d’amore interpretata dall’ottimo Mastroianni e dalla giovane, splendida Kinski che assomigliava a Ifigenia. Una storia simile, forse, alla nostra. Doveva vedere un pezzetto di film da raccontare al marito per giustificare la lunga assenza da casa.
Sicché alle sette mi ritrovai solo. Non cercai nessuno: avevo bisogno di riflettere sull’evento dal quale poteva venire scombussolata la mia intera esistenza che travagliosa era già e poteva cambiare stile, anche in peggio. Intanto dovevo risolvere il legame quasi biennale con due donne di Bologna, come ho già detto. Altre due o tre erano abbastanza lontane per non dovermene preoccupare, del resto pure loro si prendevano scarsa cura di me. Sapendo di questa poliginia indefessa, Gianna una triestina brava mi aveva detto: “Tu non sei un uomo, sei una prostituta. Da chi hai preso?”
“Da mamma no di certo-risposi- la madre mia è santa”.
Le due che vivevano nei paraggi erano Esculapia e Pinuccia. Le vedevo a turno e con entrambe a turno facevo l’amore nel talamo grande senza amare la prima, un’impiegata, né la seconda: un medico, medico donna per essere chiaro.
Non volevo rinunciare ai vantaggi che queste amicizie mi offrivano, né dovevo far loro del male né inquinare la mia identità con la menzogna. Fino a quel momento avevo taciuto e dissimulato ma simulare non dovevo e non potevo. Dissimulatore sono stato alcune volte in mezzo ai nemici, simulatore mai. Con queste due ero stato reticente ma ero deciso a raccontae tutto quanto prima sia all’una sia all’altra. Separatamente, a turno.
Anticipo che con Pinuccia iniziai la confessione dicendo: “orribili furono i peccati miei, ma la tua bontà, come quella divina, ha braccia tanto grandi che continuerai a volermi bene lo stesso”. L’infelice capì subito tutto: che non volevo più fare l’amore con lei. Ma era buona davvero: un paio di anni più tardi mi invitò al suo matrimonio chiedendomi di portare Ifigenia con me. Cosa che feci. La ragazza era molto decorativa anche nei matrimoni altrui.
Con Esculapia mi limitai a dirglielo senza fronzoli letterari. Da scienziata psicologizzante qual era, non si rivolse a Dio bensì provò a darmi sensi di colpa.
Poi c’era il problema di Cerbero, il marito che Ifigenia voleva lasciare e probabilmente l’avrebbe fatto ben presto. Ma dopo, dove si sarebbe appoggiata? Temevo sulle mie spalle non abbastanza vigorose da reggere il peso di una convivenza preponderante rispetto alle forze che avevo: tutt’altro che erculèe . Forti avevo soltanto le gambe dopo anni di bicicletta e corsa. Le braccia , poco usate, e il dorso mai oberato da fidanzate e altrettali macigni erano invece da saltimbanco dell’amore . Non avrei potuto reggere peso di sposa o di altra pesona stabile in casa mia.
Senza contare le mie consanguinèe dalle quali dipendeva il mio essere un poverello che tuttavia poteva pur sempre viaggiare, andare al cinema e a teatro, comprare dei libri.
La mamma, la nonna e le zie detestavano i proletari ancora più dei criminali e non avrebbero accettato Ifigenia quale fidanzata del loro rampollo. Avevano puntato quasi tutto su me.
Avei dovuto sposare un’ereditiera io, o per lo meno, una docente di ruolo, dallo stipendio assicurato per tutta la vita. E con una dote, visto che loro a me promettevano buona parte della loro roba. Solo se mi fossi comportato bene però. E a loro una come Ifigenia sicuramente non andava bene.
Anche i colleghi, tra non pochi dei quali ero già malfamato come libertino, non avrebbero certo lasciato passare inosservata, ingiudicata e del tutto impunita la mia relazione con la bella supplente che faceva gola ai maschi eterosessuali e invidia alle femmine per la sua avvenenza. Dunque la nostra relazione doveva restare nascosta il più possibile per la mia tranquillità. Ecco perché la sera tardi, quando messo nella cuccia il marito, Ifigenia andò in bagno, aprì i rubinetti e mi telefonò, le chiesi, da vile qual ero, di non raccontare a nessuno quanto era accaduto, nemmeno alle amiche, le tre grazie Clorinda, Donatella e Diletta, che il giorno dopo le avrebbero telefonato per sapere come fosse andata. Ifigenia promise, ma dal tono di voce compresi che non aveva trovato nobile la mia ansiosa paura del giudizio di cicchessia dopo la gioia che lei mi aveva donato, contraccambiata, nel pomeriggio piovoso. E’ proprio vero che nella felicità non si entra mai tutti interi. Tanto meno interi tutti e due.
Aggiungo una nota erudita riguardo all’entrare interi nella gioia. Potete saltarla se non siete letterati e non vi interessa.
Nel poema di Apollonio Rodio, i Greci prepararono il letto nuziale per Medea e Giasone nell’antro divino dove una volta viveva Macride, la figlia di Aristeo il quale scoprì il prezioso prodotto delle api e il succo dell’olivo. Era l’aveva fatta fuggire e costretta a rifugiarsi là poiché Macride aveva unto con il miele le labbra di Dioniso bruciacchiato dal fuoco di Semele la principessa tebana che aveva generato il bambino fornicando con Zeus il quale l’aveva fatta partorire folgorandola.
Giasone e Medea non avevano ancora fatto l’amore
Nel letto i due fuggiaschi posero il vello d’oro e le Ninfe portarono fiori. Orfeo suonava mentre altri argonauti cantavano l’imeneo. I due sposi avrebbero preferito fare l’amore una volta giunti a Iolco ma noi stirpe infelice degli uomini non possiamo entrare nella gioia con piede intero o{lw/ podiv (Le Argonautiche, IV 1166) e un’amara afflizione -pikrh; ajnivh- sempre si insinua in mezzo ai momenti del nostro piacere.
Giasone e Medea insomma avevano paura. Erano inseguiti dai Colchi cui Alcinoo li avrebbe consegnati se Medea fosse stata ancora vergine.
Dunque urgeva la deflorazione della ragazza. Un atto dovuto e , dunque, privo di gioia.
Anche io quella sera ero in ansia temendo un avvenir malfido. Solo con le finniche mi ero lasciato andare alla gioia. Ma di quelle tre donne ero sicuro che se ne sarebbero andate molto lontano senza crearmi problemi.
Sarebbero tornate dai loro Puntila e tanti saluti.
Erano creature di un mondo lontano e diverso dal mio. Nessuna interferenza sulla mia vita una volta tornato ciascuno a casa sua.
A Bologna vivevo e fornicavo nella casa che mi era stata comprata da due zie pretificate, e mi tornava spesso addosso il macigno che nel passato mi era stato imposto sulle spalle a casa e in parrocchia.
Se da bambino provavo a dire: “che bella giornata oggi!”, sentivo ribattere in tono minaccioso¨stai attento, però giannetto, stai molto attento!”.
“Perché?” domandavo
“Ti può capitare ogni male: non sei mai stato prudente!”
“Il rischio è bello”, pensavo, ma a loro non lo dicevo.
Quando andavo in parrocchia il domine raccontava ogni volta che un ragazzino era stato trovato morto nel letto dopo uno dei suoi frequenti e ripetuti “ pensieri seguiti da atti impuri”.
Una terza zia vergine e stravagante quando uscivo con lei e incrociavamo una bambina mi suggeriva di rivolgerle parole spregiative: “dille passeraccia!”.
Io invece mi ne sentivo attirato dalle bambine belline già alle elementari Carducci, sicché temevo di morire, poi di andare all’inferno tra “i peccator carnali che la ragione sommettono al talento”.
Guardare con desiderio le ragazze era peccato allora.
Abbandonarle sarebbe stato peccato in futuro
“Meritamente però ch’ io
potei
abbandonarti, or grido alle frementi
onde che batton il Montefeltro, e i pianti miei
sperdono sordi dell’Illiria i venti”.
.
Insomma la femmina umana veniva quasi sempre associata alla colpa e al dolore.
Già da ragazzino cercavo un aiuto nella letteratura. Ma l’abito letterario non mi proteggeva abbastanza dai soffi gelidi della superstizione che mi abbuiava l’anima suggestionata dai preti durante le prediche poi ribadite, pur se con parole ornate, dal dogmatico Dante , poi dal sacerdotale, anzi vescovile Manzoni per dirne solo due. Questi due mi insegnavano a palare e a scrivere, non a pensare. Saranno i Greci a presentarmi tutto come problema a insegnarmi la necessità di indagare pima diu tutto me stesso.
Bologna 9 dicembre 2024 ore 11, 23 giovanni ghiselli
p. s.
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