A metà dicembre, quando fummo sicuri che la mia pièce aveva raggiunto la migliore delle sue forme possibili, convocammo alcuni dei miei ex alunni e proponemmo loro di partecipare alla recita. Ifigenia ne fece una lettura interpretativa. Le ragazze e i ragazzi offrirono volentieri la loro collaborazione. La mia compagna si impegnò a prepararli e a sostenere la parte principale: quella dell’educatore bravo, studioso, preparato, seguito dagli studenti eppure ostacolato dall’ambiente corrotto.
Il 27 dicembre andai a Milano dove si trovavano i miei genitori. Ifigenia mi avrebbe raggiunto il pomeriggio del trenta. La sera saremmo andati alla Scala dove la Fracci e Nureyev ballavano il Romeo e Giulietta di Prokof ’ev. Mio padre mi aveva procurato i biglietti. Quando ci eravamo salutati a Bologna, Ifigenia aveva detto di amarmi. L’avevo contraccambiata e sembrava che tutto procedesse bene, come doveva. Mentre l’aspettavo nella cupa stazione sormontata da una tetra gabbia per elefanti, pregustavo la gioia di vedere spuntare dalla pianura nebbiosa e gelata la splendidissima amante tutta per me. Ma quando il treno arrivò e, dieci minuti più tardi, dopo l’uscita degli ultimi viaggiatori, apparve Ifigenia, costei aveva un’espressione ostile nel volto, un ceffo e un ghigno da canaglia plebea. Doveva avere incontrato da poco un altro corteggiatore che le si addiceva di più e la mia presenza ingombrante, importuna, le dava fastidio. “Ermes in lei ha posto una mente da cane”, pensai ricordando Esiodo e aggiungendo la mia antipatia, la mia paura dei cani dovuta agli inseguimenti subiti da tre o quattro bestiacce randage, ringhiose, affamate mentre pedalavo da solo in luoghi deserti. Avevano tentato di farmi subire la sorte di Atteone il figlio di Autonoe e nipote di Cadmo mutato in un cervo da Artemide offesa e sbranato dai cani. Appena mi fu arrivata accanto, domandò: “che cosa vuoi?”. Era il suo modo di manifestare insofferenza e disprezzo. “Niente da te”- risposi- almeno fino a quando sarai tanto scortese”. Rispose che la imbarazzava incontrare i miei genitori che ci ospitavano fino al pranzo del 31. Dopo saremmo andati in una casa di Bratto dove ci aveva invitati mia sorella che passava il Capodanno lassù con suo marito e alcuni loro amici, persone borghesi verso le quali Ifigenia era maldisposta, pregiudizialmente, cioè senza conoscerli punto. Anche l’idea di andare tra i monti le dava fastidio. A parte la Scala, tutto le spiaceva di quella trasferta. Me compreso. Qualche giorno più tardi mi rinfacciò il proprio sacrificio dicendo che avrebbe preferito andare in discoteca con un paio di amiche conosciute nella scuola di danza. Aggiunse che nel treno per Milano aveva conosciuto un uomo interessante: si erano scambiati gli indirizzi e ed era rimasta cinque minuti a parlare con lui dopo l’arrivo alla stazione. Voleva liquidarmi o sottomettermi. Fatto sta che ne provai ripugnanza. Il mio dramma non era bastato a salvare la dignità del nostro rapporto. Probabilmente le avevano detto che non valeva niente, che io ero un perdente e che lei mentre stava con me si lasciava sfuggire stupidamente ben altre occasioni, molto migliori e degne della sua avvenenza. L’uomo del treno probabilmente le aveva promesso qualcosa che l’attirava e lei ce l’aveva con me per non avere potuto accettare subito. “Ogni lasciata è persa” avrà pensato, oppure “avrei dovuto acciuffare l’occasione che è calva di dietro”. Questo gliel’avevo insegnato io stesso.
Pesaro otto ottobre 2024 ore 10, 59. giovanni ghiselli
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Già docente di latino e greco nei Licei Rambaldi di Imola, Minghetti e Galvani di Bologna, docente a contratto nelle università di Bologna, Bolzano-Bressanone e Urbino. Collaboratore di vari quotidiani tra cui "la Repubblica" e "il Fatto quotidiano", autore di traduzioni e commenti di classici (Edipo re, Antigone di Sofocle; Medea, Baccanti di Euripide; Omero, Storiografi greci, Satyricon) per diversi editori (Loffredo, Cappelli, Canova)
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martedì 8 ottobre 2024
Ifigenia CLXVI. La fine dell’anno 1980. Un pomeriggio tragico alla stazione di Milano.
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