sabato 5 ottobre 2024

Seneca deprezza e disprezza Alessandro Magno


 

Seneca nel De ira (40 d. C.) ricorda che Al. "Clitum carissimum sibi et unā educatum inter epulas transfōdit manu quidem suā , parum adulantem et pigre ex Macedone ac libero in Persican servitutem transeuntem" (III, 17, 1). Non solo: Nam Lysimachum, aeque familiarem sibi leoni obiecit (2). Lisimaco se la cavò, ma poi commise a sua volta efferatezze enormi[1].  In una delle   Epistole, Alessandro è presentato come esempio di quella voluntaria insania che è l'ubriachezza : ammazzò Clito "et intellecto facinore mori voluit, certe debuit " (82, 19). 

Più avanti (82, 23) dice che fu l'intemperantia bibendi a mandarlo alla tomba.

 

Nel De beneficiis [2] Seneca presenta Al. come un vesanus adulescens il quale seguiva le orme di Ercole e di Libero (Herculi Liberique vestigia sequens) ma con Ercole non aveva nulla in comune. Ercole infatti non vinceva per sé (Hercules nihil sibi vicit) : lui era malorum hostis, bonorum vindex, terrarum marisque pacator. E’ il lato buono di Ercole che ha pure un dark side.

Alessandro invece fu "a pueritia latro gentiumque vastator, tam hostium pernicies quam amicorum, qui summum bonum duceret terrori esse cunctis mortalibus, oblitus non ferocissima tantum, sed ignavissima quoque animalia timeri ob malum virus" (I, 13, 3), dimentico che non solo gli animali più feroci ma anche i più vili sono temuti per il loro veleno

Alessandro era meno ricco di Diogene al quale poteva offrire meno di quanto egli poteva rifiutare.  Diogene multo potentior, multo locupletior fuit omnia tunc possidente Alexandro; plus enim erat, quod hic nollet accipere, quam quod ille posset dare (V, 4, 4).

 Alessandro era povero poiché non si accontentava mai: “tantum illi deest quantum cupit” (VII, 2, 6), tanto gli manca quanto ancora desidera. Quando si fu spinto sul mar Rosso plus deerat quam quā venerat (VII, 2, 5) gli mancava più terra di quella per dove era giunto.

Il saggio dopo avere contemplato il cosmo può dire parole che si addicono a Dio: “Haec omnia mea sunt!” perché non c’è nulla al di là del tutto quia nihil est extra omnia. (VIII, 3, 3)

 

Al era infelice: poiché aveva un soprannome discrepante con la piccolezza della terra.

Seneca in Ep. 91, 17 afferma che Al. fu infelice poiché apprese dalla geometria quam pusilla terra esset ; capì o avrebbe dovuto capire che non poteva essere grande: quis enim esse magnus in pusillo potest?

 

Vediamo Alexandros: anche secondo Pascoli non basterà l'immensa conquista compiuta a soddisfare gli illimitati desideri, o meglio il desiderio di infinito del re Alessandro Magno che, pentito della conquista, piange dicendo:"Montagne che varcai! dopo varcate,/sì grande spazio di su voi non pare,/che maggior prima non lo invidïate./Azzurri, come il cielo, come il mare,/o monti! o fiumi! era miglior pensiero/ristare, non guardare oltre, sognare: il sogno è l'infinita ombra del vero" (vv. 14-20). Quindi piange: “E così, piange, poi che giunse anelo:/piange dall’occhio nero come morte;/piange dall’occhio azzurro come cielo” (Pascoli, Alexandros,vv. 41-43).

 

Dopo avere vinto Dario e occupato l’India, pauper est Alexander (Seneca, Ep. 119, 7), si sente povero: scrutatur maria ignota, in oceanum classes novas mittit et ipsa, ut ita dicam, mundi claustra perrumpit, spezza le barriere del mondo.

 

 

 Al. fu infelice anche per il fatto che lo spingeva la smania di devastare le terre altrui: “Agebat infelicem Alexandrum furor aliena vastandi” (Ep. 94, 62). Seneca prosegue dicendo che era simile alle bestie feroci quae plus quam exigit fames mordent. Mise il giogo a nazioni che Dario aveva lasciato libere. Cerca di seguire le orme di Ercole e Libero e ipsi naturae vim parat (94, 63). 

Inoltre fu infelice perché aveva ammazzato Clito e perduto Efestione e si macerava ora per il rimorso ora per il rimpianto: id enim egerat ut omnia potius haberet in potestate quam adfectus (Ep. 113, 29), era riuscito a dominare tutto tranne le proprie passioni.

Seneca è coerente con le posizioni degli Stoici e  dei Peripatetici  che vedevano in Al. un tiranno e attribuivano i suoi successi alla fortuna.

Una tradizione confutata da Plutarco[3] nello scritto giovanile De Alexandri Magni fortuna aut virtute.

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Nelle Naturales quaestiones Seneca manifesta avversione contro gli storici di Alessandro : è meglio spengere i propri vizi piuttosto che raccontare ai posteri quelli degli altri: "quanto satius est sua mala extinguere quam aliena posteris tradere! "

Quanto potius deorum opera celebrare quam Philippi aut Alexandri latrocinia ceterorumque, qui, exitio gentium clari, non minores fuere pestes mortalium quam inundatio…" (III. Prefazione, 5). Cfr. il capo come mivasma e pestis.

Pesaro 5 ottobre 2024 ore 19, 43 giovanni ghiselli

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[1] Nel 301 a Ipso in Frigia sconfisse e uccise Antigono Ciclope. Ebbe la Tracia e l'Asia minore occidentale, Seleuco quella orientale. Nel 285 divenne re di Macedonia dopo averne cacciato Pirro e Antigono Gonata. Nel 281 venne sconfitto e ucciso da Seleuco a Curupedio presso Magnesia al Sipilo. Seleuco poi fu assassinato da Tolomeo Cerauno che divenne re di Macedonia. Nel 279 il Cerauno fu ucciso dai Celti e Antigono Gonata, figlio di Demetrio Poliorcete e nipote di Antigono Ciclope divenne re di Macedonia.

[2] In sette libri completati nel 64 d. C.

[3] "Che profitto trarrà dalla lettura delle Vite del nostro Plutarco? La mia guida si ricordi a che cosa mira il suo compito; e imprima nella mente del suo discepolo non tanto la data della distruzione di Cartagine, quanto piuttosto i costumi di Annibale e di Scipione" Montaigne , Saggi,  (del 1588),  p. 206

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