sabato 5 ottobre 2024

Altri detrattori di Alessandro Magno: Tito Livio e Lucano.


 

Tito Livio[1] IX, 17-19. 

 

Alessandro morì giovane senza avere mai provato l’avversa fortuna: “nondum alteram fortunam expertus decessit ”. Ciro e Pompeo le furono esposti da una lunga vita. Nei consoli romani che lo avrebbero combattuto se si fossero incontrati (Tito Manlio Torquato p. e.)  c’era  indoles eadem quae in Alexandro animi ingeniique (9, 17, 9) la medesima qualità naturale di coraggio e di ingegno che in Alessandro, e in più la disciplina militaris, la quale iam inde ab initiis urbis tradita per manus, in artis perpetuis praeceptis ordinatae modum venerat ” (9, 17, 10), già fin dagli inizi della città tramandata di mano in mano, era giunta a una forma d’arte regolata da norme immutabili.

Tito Manlio Torquato durante la guerra contro i Latini (340-338 a. C.) condannò a morte il figlio che aveva osato combattere contro il suo ordine, di capo e di padre, dopo averlo accusato in questo modo:"tu, T. Manli, neque imperium consulare neque maiestatem patriam verĭtus, adversus edictum nostrum extra ordinem in hostem pugnasti, et, quantum in te fuit, disciplinam militarem, qua stetit ad hanc diem Romana res  solvisti " (Livio, 8, 7, 15) tu, Tito Manlio, senza riguardo per il comando dei consoli e per l'autorità paterna, hai combattuto il nemico contro le nostre disposizioni, fuori dallo schieramento, e, per quanto è dipeso da te, hai dissolto la disciplina militare, sulla quale sino ad ora si è fondata la potenza romana.

G. De Sanctis commenta questa guerra notando che la forza vincente dei Romani era "la consuetudine di sfruttare nella lotta per l'esistenza tutte le forze fino al limite estremo senza alcuna compassione di sé"[2].

Insomma la disciplina per i Romani del tempo di Al. era fas, legge divina, legge di natura, non mos, costume soggetto a mutamenti.

Non avrebbero ceduto ad Alessandro Manlio Torquato e Valerio Corvo insignes ante milites quam duces (Livio, 9, 17, 13) distinti come soldati prima che comandanti, né i Deci , devotis corporibus in hostem ruentes, che si erano precipitati contro il nemico con i corpi consacrati, né Papirio Cursore illo corporis robore, illo animi! (9, 17, 14) .

 Decio Mure fu collega di Tito Manlio Torquato nel consolato del 340. Fece atto di devotio nella battaglia del Vesuvio (340 contro i Latini) immolandosi agli dèi mani. Il figlio ripetè il gesto nel 295 al Sentino.

 Nemmeno quel Senato di cui Cinea, ambasciatore di Pirro a Roma ex regibus constare dixit,[3] disse che era formato da re, vinctus esset consiliis iuvenis unius (9, 17, 14), sarebbe stato vinto dagli accorgimenti di un solo giovane.  

    Se Alessandro si fosse incontrato con uomini grandi quanto i consoli romani Manlio Torquato, Valerio Corvo (console più volte nel IV secolo) , i Deci, Papirio Cursore (console nel 326), o con i senatori avrebbe detto che non aveva a che fare con Dario, praedam verĭus quam hostem, che egli aveva sbaragliato incruentus[4], senza spargimento di sangue, mulierum ac spadonum agmen trahentem, quando il “grande re” si tirava dietro uno stuolo di donne e di castrati, oneratum fortunae apparatibus suae, appesantito dallo sfarzo della sua fortuna.

Alessandro non osò altro che disprezzare opportunamente quella vanità: nihil aliud quam bene ausus vana contemnere (9, 17, 16).

Inoltre: era altra cosa l’Italia dall’India per quam temulento agmine comisabundus incessit (9, 17, 17) attraverso la quale passò gozzovigliando con uno stuolo di ubriachi.  Non ebbe nemmeno la forza di sopportare i successi che lo corruppero. Referre in tanto rege  piget superbam mutationem vestis et desideratas humi iacentium  adulationes (9, 18, 4), rincresce ricordare in un re tanto grande lo sfarzoso cambiamento del modo di vestire e le desiderate adulazioni di quelli prosternati a terra, insopportabili ai Macedoni, et foeda supplicia et inter vinum et epulas, caedes amicorum et vanitatem ementiendae stirpis” (5), e gli orrendi supplizi e le uccisioni degli amici tra il vino e i banchetti e la vanità di mentire la stirpe.

Alessandro per giunta fu un uomo dal breve destino, il popolo romano guerreggia con poche sconfitte da otto secoli.

Certo nei tredici anni di Alessandro (336-323) la fortuna è stata meno varia che negli otto secoli dei Romani. I consoli avevano meno tempo per conseguire vittorie, erano osteggiati dai tribuni della plebe, potevano essere ostacolati dalla temerarietà o dall’incapacità del collega ed ebbero anche altre difficoltà.

Come armi: clupeus sarīsaeque illis (9, 19, 7), scudo e lunga asta; i Romani lo scutum , maius corporis tegumentum, et pilum, il giavellotto, arma che si lancia e colpisce con maggior forza dell’asta. Statarius uterque miles, sapevano combattere a piè fermo, ma la phalanx era immobile e unius generis, uniforme, mentre la romana acies era formata da diverse parti: hastati, i giovani,  principes, triarii , e i velĭtes armati alla leggera, facili a dividersi e a riunirsi. Il soldato romano era ottimo nei lavori di fortificazione e quis ad tolerandum melior? Quale più bravo a sopportare la fatica? Ad Alessandro sarebbe bastato perdere una sola battaglia per perdere la guerra; i Romani non furono piegati da Caudio 321 né da Canne 216.

Se Al. avesse incontrato Sanniti e Cartaginesi avrebbe rimpianto i Persiani et  cum feminis sibi bellum fuisse dixisset, avrebbe detto di avere combattuto con delle donne. I Romani continueranno a vincere “modo sit perpetuus huius qua vivimus pacis amor et civilis cura concordiae”. 

          

Valerio Massimo gli rimprovera tre cose: di avere rinnegato suo padre, di avere preso abitudini persiane e di pretendere onori divini: “ nec fuit ei pudori filium, civem, hominem dissimulare” (Factorum et dictorum memorabilium libri[5], 9, 5, ext. 1), non si vergognò di nascondere il figlio, il cittadino, l’uomo.

Un’accusa di snobismo e di creazione di un falso mito.

 

 

Lucano[6]presenta Alessandro come un re pazzo e un bandito che ha avuto successo: proles vesāna Philippi,/ felix praedo " (Pharsalia, X, 20-21). Generato quale esempio non utile al mondo di come tante terre si trovino sotto il dominio di uno solo: "non utile mundo-editus exemplum, terras tot posse sub uno-esse viro"[7] (26- 27). Venuto dalle spelonche della Macedonia, disprezzò Atene vinta dal padre, e si precipitò tra i popoli d'Asia humana cum strage (31), mescolò fiumi sconosciuti con il sangue[8]: insanguinò quello dei Persiani l'Eufrate, quello degli Indiani il Gange, lui terrarum fatale malum (34), sidus iniquum- gentibus (35-36), stella infausta per i popoli. Infine fu la natura a imporre il termine della morte al re pazzo: vaesano …regi (v. 42).

 

Pesaro 5 ottobre 2024 ore 19, 50 giovanni ghiselli.

 

 



[1] 59-17 d. C.

[2]Storia Dei Romani , vol II, p. 261.

[3] dopo la vittoria del re epirota, ottenuta nella battaglia di Eraclea (280 a.C.), Pirro lo inviò a Roma per dettare le condizioni di pace e restituire i prigionieri catturati al termine della battaglia.

[4] Vedremo quanto questa affermazione sia falsa e contraria all’obiettività “epica” (cfr. S. Mazzarino) della storiografia antica.

[5] Nove libri pubblicati nel 31 d. C.

[6] 39-65 d. C. 

[7] "I versi di Lucano esprimono un giudizio forse esasperato e unilaterale, che però, riferito alla reputazione postuma di Al., è fin troppo vero" (Bosworth,  Alessandro Magno, p. 199).

 

[8] Altro che incruentus!

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