Entrai nella sala dei professori situata nel cosiddetto piano nobile. Lì c’erano anche le aule delle classi seconda e terza F dove si trovavano i miei allievi ed ex alunni ancora in agitazione perché mi restituissero al loro apprendistato. Soprattutto attivi erano i maturandi che continuavano a inviare petizioni al preside e al consiglio d’istituto tra i lamenti desolati della collega dolorosa che era stata messa al mio posto senza che l’avesse richiesto.
Era una donna triste. La chiamavano Mortimer. Eta un’altra vittima del preside.
Alla fine di novembre non c’era più niente da fare, come avvenne nelle mortali strette delle Termopili difese da Leonida il leone spartano con la sua esigua schiera contro gli innumerevoli prepotenti invasori.
Una prepotenza che del resto sarebbe stata sconfitta e umiliata a Platea. Con il tempo, molto tempo invero, anche questa deminutio subìta da me avrebbe avuto la sua controparte.
Continuavo a frequentare il primo piano e la sala dei professori, nonostante ce ne fosse un’altra di sotto, dove avevo l’aula della mia quarta ginnasio, perché lassù nel piano perduto, tenevo ancora i libri nel cassetto con il mio nome e mi faceva piacere incontrare ogni mattina gli alunni che avevo avuto negli anni precedenti e a loro volta mi vedevano volentieri chiedendomi di non abbandonarli. Oltretutto nel piano nobile, c’era più luce.
Vedevo Ifigenia durante l’intervallo delle undici quando andavamo nel “nostro bar” abbastanza discosto dalla scuola. Ma torniamo alla prima ora della mattina del 30 novembre. Non avevo incontrato la collega bella la cui vista mi rallegrava.
Mi confortavo ripassando mentalmente le idèe da riferire ai ragazzini che volevo educare. Le avevo tratte il giorno prima dalla lettura attenta dell’Idiota di Dostoevskij: anche gli allievi quattordicenni mi stimolavano a studiare. Se non potevo aiutarli subito a crescere attraverso la tragedia greca o Platone , potevo farlo con gli ottimi autori della letteratura moderna dato che insegnavo pure italiano. Avevo già iniziato a parlare del grande romanziere russo e avevo notato che quei novizi mi ascoltavano con interesse. Poi mi ponevano domande. C’era tempo di fare questo tipo di lavoro, oltre quello di insegnare i rudimenti delle nobili lingue antiche, tutto il tempo necessario a fare bene entrambe le cose, siccome avevo 18 ore settimanali in una sola classe. Avrei approfittato dell’esilio dal liceo per studiare i classici moderni che nei tre anni di dedizione quasi assoluta ai greci e ai latini avevo dovuto trascurare.
Ero intanto seduto nella sala dei professori nell’attesa della seconda campanella. Eravamo disposti intorno a un grande tavolo. Alcuni chiacchieravano, altri leggevano il giornale. C’era pure chi seguitava a bere o mangiare.
A un tratto mi tornò in mente una collega brava e buona, una docente di filosofia del liceo D’Azeglio di Torino. Una signora più attempata di me e più esperta di insegnamento liceale. Durante l’esame di maturità, dove avevo il ruolo di membro interno e invitavo miei allievi a ricordare La nascita della tragedia , l’ amica torinese mi aveva suggerito di leggere e studiare tutto Nietzsche. Le domandai perché mi avesse dato questo consiglio: “ perché sei così aristocratico!” rispose. Una sera, mentre si andava a cena insieme in una casa borghese, mi fece un altro complimento dicendomi che non potevo esimermi dal rompere un vaso cinese.
“Che cosa vuoi dire?” le domandai?
Mi spiegò che il principe Myškin si trovava a disagio nel salotto degli Epančin in mezzo a persone inautentiche, quindi non poté evitare di rompere il vaso cinese, secondo la profezia della bellissima figlia del padrone di casa, Aglaja che gli aveva detto:"Dovete almeno rompere il vaso cinese nel salotto! E' stato pagato caro"[1].
Ancora non conoscevo bene Dostoevskij, né tutto Nietzsche, e quanto mi disse questa cara donna e preziosa maestra mi spinse a studiare tanto il filosofo tedesco quanto il romanziere russo che avrebbero arricchito il mio spirito non meno dei classici antichi.
Avrei poi imparato che il principe Myskin non era un aristocratico solo di nome ma anche di fatto, ed era un educatore. Egli racconta:" I bambini ci curano l'anima...venivano spesso da me pregandomi che raccontassi loro qualche cosa; credo che lo sapessi fare bene, giacché mi ascoltavano sempre con grande piacere. In seguito, presi l'abitudine di studiare e di leggere, con l'unico scopo di potere intrattenerli"[2].
Era quanto facevo io da tre anni. Durante quell’esame di maturità nel luglio del 1978 ero felice: il preside era ancora la persona per bene che due anni prima mi aveva accolto da vero gentiluomo qual era e i miei studenti mi avevano aiutato a educare le loro anime mentre curavo la mia. Il presidente di commissione era un altro gentiluomo, un professore di Storia romana alla Normale di Pisa che mi avrebbe aiutato nella vita insegnandomi il suo bello stile di uomo colto, buono, generoso e leale.
Umberto Laffi, un uomo come dovrebbe essere ogni uomo.
Era incerto se bocciare una ragazza fragile in tutto. La commissione era divisa. Il suo voto era decisivo. Io, per aiutare l’allieva, lo sfidai a una gara ciclistica fino a Pianoro. Dissi che se avessi vinto avrei meritato il premio del diploma di maturità all’allieva. Era una ragazza in difficoltà nella vita e volevo aiutarla. Rimandammo la votazione al giorno seguente, l’ultimo. Nel pomeriggio vinsi l’agone davvero olimpico per quella adolescente che venne maturata. Anche Umberto fu contento di questa soluzione.
Quell’anno scolastico finì in bellezza.
Nel mese di agosto avrei fatto un giro ciclistico in Grecia, da solo tanto ero forte e sicuro di me. In settembre però nella bella scuola dove insegnavo sarebbe arrivato un preside di levatura tutt’altra rispetto alle due persone nobili e antiche di cui ho raccontato.
Bologna 10 aprile 2025 ore 9, 51 giovanni ghiselli
p. s.
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