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Il pubblico
Il pubblico, con l’abitudine di recarsi a teatro, si è via via raffinato.
Il coro delle Rane (405 a. C.) di Aristofane suggerisce ai due poeti - Eschilo contro Euripide - che si contendono il trono della poesia di citare qualcosa di leptovn ti kai; sofovn (Rane, 1108). Non devono preoccuparsi della ignoranza degli spettatori (mh; tiς ajmaqiva prosh'/ toi'ς qewmevnoisin); non devono temerla: wJς oujkeq j ou{tw e[cei, poiché non è più così.
Ciascuno capisce le vostre parole belle (e{kastoς manqavnei ta; dexiav) Le loro nature si sono anche raffinate. Dunque si può affrontare qualunque argomento qeatw'n g j ou[nec j o[ntwn sofw'n (1118) siccome gli spettatori se ne intendono.
Platone (428-348) invece qualche decennio più tardi, nelle Leggi scritte negli ultimi anni di vita) critica gli agoni drammatici frequentati troppo spesso, e male, da un pubblico becero, trascinato dalla musica caotica diffusa da poeti ignoranti, maestri di disordinate trasgressioni, i quali mescolavano peani con ditirambi, confondendo, appunto, tutto con tutto (pavnta eij~ pavnta sunavgonte~, Leggi, 700d); di conseguenza le càvee dei teatri divennero, da silenziose, vocianti, e al posto dell’aristocrazia del gusto subentrò una sfacciata teatrocrazia per quanto riguarda quest’arte (701). Come se fossero stati tutti sapienti, diventarono impavidi e l'audacia generò l'impudenza (701b).
Aristotele nella Politica scrive di un doppio pubblico di spettatori: quelli colti e quelli grossolani, meccanici vili, teti, gentaglia (Politica 1342 a)
Lo rileva anche Aristofane nelle Ecclesiazuse
Nell’Esodo (1154-1183) la corifea suggerisce ai saggi di preferire questa commedia alle altre in concorso rilevandone le parole sagge; poi invece invita quelli che ridono volentieri a giudicare il poeta per le facezie- dia; ton; gevlwn krivnein ejmev (1156) che non mancano.
Dunque le Ecclesiazuse possono piacere a due tipi di pubblico.
Le maschere
L’impiego delle maschere permetteva a ciascun attore di impersonare più ruoli, ivi compresi quelli femminili: un espediente al quale era inevitabile fare ricorso in un teatro che utilizzava solo interpreti di sesso maschile e nel quale vigeva una norma che limitava a tre il numero massimo di attori a disposizione di ciasun tragediografo.
Le maschere erano fatte di lino-talvolta anche di cartapesta o di cuoio-su cui veniva passato dello stucco: una volta divenute rigide, si procedeva a dipingerle: quelle femminili di bianco, quelle maschili di un colore più scuro. Opportunamente fissate al mento o alla nuca con delle stringhe, coprivano l’intero volto; ad esse era assicurata una parrucca, probabilmente di lana.
Conclusione
Nel teatro la parola viene non solo detta ma anche mostrata con l’agire del corpo.
Sentiamo Nietzsche: “Io” dici tu, e sei orgoglioso di questa parola. Ma la cosa ancora più grande , cui tu non vuoi credere-il tuo corpo e la sua grande ragione: essa non dice “io”, ma fa “io”. Così parlò Zarathustra, Dei dispregiatori del corpo.
Bologna 16 febbraio 2022 ore 19, 36
giovanni ghiselli
p. s
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