NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

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lunedì 7 febbraio 2022

Nietzsche e i classici VIII parte.


Lo stile della nobiltà. La sprezzatura.

L’aristocratico rifugge da ogni affettazione.

L’aristocratico non teme il giudizio degli altri: “Degeneres animos timor arguit [1], la paura svela gli animi vili. Didone innamorata parla adda sorella Anna magnificando Enea

L’uomo di razza aristocratica avverte se stesso come colui che determina il valore, egli non sente la necessità di essere approvato, giudica: “quello che nuoce a me è di per se stesso nocivo”; sa di essere colui che conferisce pregio alle cose, che crea i valori. Egli onora tutto ciò in cui riconosce se stesso: è la morale dell’esaltazione di se stessi”[2].

Questa non ha certamente bisogno di affettazione.

Leggiamo la sentenza granitica (175) che chiude il terzo libro di La gaia scienza [3]: “Qual è il suggello della raggiunta libertà?-Non vergognarsi davanti a se stessi”.

 

Sentiamo un grande autore dall’animo aristocratico“Io mi reputo meno brutto degli altri e sdegno perciò di contraffarmi; anzi buono o reo ch’io mi sia, ho la generosità, o di’ pure la sfrontatezza di presentarmi nudo, e quasi come sono ucito dalle mani della Natura”[4].

 

L’ idea della studiata disinvoltura come virtù suprema dello stile si trova in Petronio: sia quello di Tacito, sia nel Satyricon.

Scrive Tacito (Annales , XVI, 18):"dicta factaque eius, quanto solutiora et quandam sui neglegentiam praeferentia, tanto gratius in speciem simplicitatis accipiebantur , le sue parole e azioni, quanto più erano libere e manifestavano una certa noncuranza di sé, con tanto maggior gradimento erano prese come segno di semplicità.

Faccio a due esempi di autori di estrazione aristocratica i quali

mettono in forte rilievo la finezza della sprezzatura: in I promessi sposi  il conte zio per dare un'impressione di potenza al padre provinciale:"gli fece trovare una corona di commensali assortiti con un intendimento sopraffino. Qualche parente de' più titolati, di quelli il cui solo casato era un gran titolo; e che, col solo contegno, con una certa sicurezza nativa, con una sprezzatura signorile, parlando di cose grandi con termini famigliari, riuscivano, anche senza farlo apposta, a imprimere e rinfrescare, ogni momento, l'idea della superiorità e della potenza"[5].

Una nobile semplicità si trova in Anna Karenina  del conte Tolstoj:" Levin riconobbe le maniere piacevoli della donna del gran mondo, sempre calma e naturale (…) Non soltanto Anna parlava con naturalezza e intelligenza, ma con un'intelligenza noncurante, senza attribuire alcun pregio ai propri pensieri e attribuendo invece gran pregio ai pensieri dell'interlocutore"[6] .

 

In All'ombra delle fanciulle in fiore, Proust scrive di Saint Loup che aveva il pregio della naturalezza, e di “un'eleganza disinvolta, senza nulla di pretenzioso e compassato, senza rigidità, e senza appretto”. Questo è una sostanza chimica che dà lucentezza e tono alle stoffe

Viveva nel lusso ma "in modo negligente e libero, senza puzzare di soldi, senza darsi arie di importanza; il fascino di quella naturalezza lo ritrovava perfino nell’incapacità che Saint Loup aveva conservata (…) d’impedire al proprio viso di riflettere un’emozione" né cercava di impedire al suo viso di riflettere un'emozione.

Si vedeva in quel giovane l'agilità ereditaria dei grandi cacciatori, il loro disprezzo per la ricchezza. A loro i soldi servivano solo per festeggiare gli amici. "Vi sentivo soprattutto la certezza o l'illusione che avevano avuto quei grandi signori di essere “più degli altri” e grazie alla quale non avevano potuto lasciare in legato a Saint-Loup quel desiderio di mostrare che “si vale quanto gli altri”, quella paura di sembrare troppo premurosi che rende così rigida e goffa la più sincera amabilità plebea"(p. 334 e p. 337).

Musil in L'uomo senza qualità  scrive:" Una casta dominante rimane sempre un poco barbarica (…) Erano invitati insieme in residenze campestri, e Ulrich notò che vi si vedeva sovente mangiare la frutta con le mani, senza sbucciarla, mentre nelle case dell'alta borghesia il cerimoniale con coltello e forchetta era rigidamente osservato; la stessa osservazione si poteva fare a proposito della conversazione che quasi soltanto nelle case borghesi era signorile e distinta, mentre negli ambienti aristocratici prevalevano i discorsi disinvolti, senza pretese, alla maniera dei cocchieri. Le dimore borghesi erano più igieniche e razionali. Nei castelli patrizi d'inverno si gelava; le scale logore e strette non erano una rarità, e accanto a sontuose sale di ricevimento si trovavano camere da letto basse e ammuffite. Non esistevano montavivande né bagni per la servitù. Ma, a guardar bene, c'era proprio in questo un senso più eroico, il senso della tradizione e di una magnifica negligenza! (p.269).

“E' chiaro come il sole che soccorrere i poveri è un dovere cavalleresco e che per la vera alta nobiltà non c'è poi una così gran differenza tra un fabbricante e un suo operaio” (p. 84).

 

Nel Faust di Goethe, Margherita, ripensando all’approccio di Faust, dice a se stessa:

“Che è di famiglia nobile

Glielo si legge scritto in fronte,

se no, mica era sfacciato keck- 2682 così”[7].

L’antitesi della sprezzatura è l’affettazione.  

Baldassarre Castiglione in Il cortegiano[8]  prescrive al gentiluomo di fuggire sopra tutto "la ostentazione e lo impudente laudar se stesso, per lo quale l'uomo sempre si còncita odio e stomaco da chi ode" (I, 17). Egli deve schivare "quanto più si pò, e come un asperissimo e pericoloso scoglio, la affettazione; e, per dir forse una nova parola, usar in ogni cosa una certa sprezzatura", ossia una studiata disinvoltura, un’apparenza di naturalezza "che nasconda l'arte e dimostri ciò che si fa e dice venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi. Da questo  credo io che derivi assai la grazia… " (I, 26).

Sentiamo Leopardi a proposito dell’affettazione nello scrivere: “l’affettazione è la peste d’ogni bellezza e d’ogni bontà, perciò appunto che la prima e più necessaria dote sì dello scrivere, come di tutti gli atti della vita umana, è la naturalezza (28. Feb. 1821)[9].

Anche Dostoevskij in I fratelli Karamazov considera l'affettazione segno di cattiva educazione: Alioscia sebbene affascinato da Gruscenka" si domandava con un'oscura sensazione sgradevole e quasi con commiserazione perché ella strascicasse le parole a quel modo e non parlasse in tono naturale. Evidentemente, lo faceva perché trovava bella quella pronuncia strascicata e quella sdolcinata e forzata attenuazione delle sillabe e dei suoni. Certo, non era che una cattiva abitudine di dubbio gusto, la quale testimoniava un'educazione volgare e una volgare comprensione, acquisita sin dall'infanzia, delle convenienze e del decoro"[10].

 

La neglegentia (ajmevleia) degli autori.

L’Anonimo Sul sublime in un capitolo  (XXXIII)  annovera Omero tra i grandissimi nei quali egli stesso ha rilevato non pochi difetti ("oujk ojlivga...aJmarthvmata") i quali però non sono errori volontari ma piuttosto sviste dovute a casuale noncuranza ("paroravmata di j ajmevleian eijkh'/") e prodotte distrattamente dalla loro stessa grandezza. E' la stessa neglegentia  che faceva parte anche dello stile raffinato del Petronio di Tacito elegantiae arbiter [11]. In effetti tale noncuranza spesso geniale, talvolta difettosa, è preferibile all'ineccepibile correttezza di Apollonio Rodio. Comunque i difetti e le imperfezioni degli "eroi della letteratura" come Omero, Sofocle, Pindaro, Demostene e Platone sono insignificanti e non valgono a inficiare la loro grandezza.

 

Nietzsche: “Sottigliezza nell’errare. Se Omero, come si diceva, ha dormito qualche volta[12], è stato più saggio di tutti gli artisti dalla insonne ambizione. Bisogna lasciare riprendere fiato agli ammiratori col trasformarli, di quando in quando, in censori: nessuno infatti sopporta una buona qualità interrottamente attiva ed abbagliante, e invece di far del bene, un maestro diventa, in tal modo, un correttore che odiamo mentre ci fa strada”[13].

 

“ Ma non dobbiamo avere troppa ragione, se vogliamo avere dalla nostra quelli che ridono: avere un granello di torto è perfino indizio di buon gusto”[14].

“Per gli errori dei grandi uomini occorre avere rispetto perché sono più fecondi delle verità dei piccoli”[15].

Analoga valutazione estetica si trova nel Prologo dell'Andria dove Terenzio si difende dall'accusa di contaminatio menzionando i suoi maestri Nevio, Plauto, Ennio:" quorum aemulari exoptat neclegentiam/potius quam istorum obscuram diligentiam" (vv. 20-21), dei quali egli, l’autore, preferisce cercare di eguagliare la negligenza piuttosto che la buia diligenza di costoro, ossia del malevolo vecchio poeta (vv. 6-7) Luscio Lanuvino e degli altri detrattori.

 

Sulla “negligenza” dei sommi scrittori, da Omero in avanti, anche Leopardi dà un giudizio positivo: “ Così i poeti antichi non solamente non pensavano al pericolo in cui erano di errare, ma (specialmente Omero) appena sapevano che ci fosse, e però franchissimamente si diportavano con quella bellissima negligenza che accusa l’opera della natura e non della fatica. Ma noi timidissimi, non solamente sapendo che si può errare, ma avendo sempre avanti agli occhi l’esempio di chi ha errato e di chi erra, e però pensando sempre al pericolo (…) non ci arrischiamo di scostarci non dirò dall’esempio degli antichi e dei Classici (…) ma da quelle regole (ottime e Classiche ma sempre regole) che ci siamo formate in mente, e diamo in voli bassi né mai osiamo alzarci con quella negligente e sicura e non curante e dirò pure ignorante franchezza, che è necessaria nelle somme opere dell’arte, onde pel timore di non fare cose pessime, non ci attentiamo di farne delle ottime, e ne facciamo delle mediocri (…) insomma non c’è più Omero Dante l’Ariosto, insomma il Parini e il Monti sono bellissimi, ma non hanno nessun difetto” (Zibaldone, 9-10).

Più avanti Leopardi sostiene che Ovidio “con quel tanto aggirarsi intorno agli oggetti (…) fa manifesta la diligenza, e la diligenza nei poeti è contraria alla naturalezza. Quello che nei poeti dee parer di vedere, oltre agli oggetti imitati, è una bella negligenza e questa è quella che vediamo negli antichi, maestri di questa necessarissima e sostanziale arte, questa è quella che vediamo nell’Ariosto, Petrarca ec…” (Zibaldone, 21).

            Bologna 7 febbraio 2022 ore 18, 31

giovanni ghiselli

p. s

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[1] Virgilio, Eneide, IV, 13.  

[2] Di là dal bene e dal male. Che cosa è aristocratico? , 260.

 [3] 1882.

[4]U. Foscolo,  Ultime lettere di Jacopo Ortis, Padova 11 dicembre.

[5] I promessi sposi , capitolo XIX.

[6] Anna Karenina (1873-1877), trad. it. Milano, 1965, pp 703 e 704.

[7] Faust I, sera.

[8] Il libro del cortegiano fu scritto tra il 1513 e il 1518 e venne pubblicato nel 1528.

[9] Zibaldone 705.

[10] I fratelli Karamazov, (1880), Trad. it.  Milano, 1968, p. 208.

[11]In Annales , XVI, 18.

[12] Cfr. Orazio, Ars poetica 359: indignor quandoque bonus dormītat Homerus”, mi sdegno ogni volta che il bravo Omero sonnecchia.

[13] Nietzsche, Aurora, Libro quarto, 344

[14] Di là dal bene e dal male, Le nostre virtù, 221

[15] Nietzsche, Appunti filosofici 1867-1869. Adelphi, Milano 1993, p. 95.

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