L’arrivo a Debrecen nel luglio del 1966
Voglio ricordarti, lettore, quell’approdo a Debrecen dove giunsi da un mare tempestoso per farti vedere quanto possano una forte volontà, una capacità di comprendere e un poco di buona fortuna nel cambiare in meglio, nel risollevare la vita di un essere umano, di un ventenne già quasi caduto nell’abisso della disistima, del disprezzo di sé e della vita.
Era una sera dell’estate del ’66, intorno alla metà di luglio ; avevo precisamente 21 anni e otto mesi quando, al tramonto del sole, arrivai nell’ignota cittadina ungherese dopo un viaggio inquieto con un veicolo vetusto e malsicuro, una Fiat 600 che, attraversando la puszta, aveva schiacciato migliaia di insetti brulicanti nell’aria della grande pianura e negli ultimi chilometri si era arrossata del loro sangue.
Ma il più insanguinato, almeno metaforicamente, ero io caduto sulle spine della vita dopo la fine del liceo.
Il parabrezza coperto di moscerini morti mi rendeva poco perspicuo il percorso rimasto da compiere.
Anche la mia visione mentale era tutt’altro che lucida.
Stavo seguendo le mie Erinni che apparivano a me, come una volta a Oreste. Anche io dovevo dire alle persone che mi sorprendevano trasognato e notavano con offensiva meraviglia la mia difformità " uJmei'~ me;n oujc oJra'te tavsd j, ejgw; d ‘ oJrw'”[1], voi non vedete queste, ma io le vedo".
Le Furie mi incalzavano ovunque e solo dopo vari tentativi di fuggire invano, cominciavo a capire che dovevo seguirle: “ejlauvnomai de; koujkevt j a]n meivnaim j ejgwv”[2] , sono sospinto e non posso più restare io.
Venivo da una famiglia piena di decadenza.
Avevo reagito cercando di primeggiare a scuola e in bicicletta. Ci ero riuscito: nelle elementari Carducci, nelle medie Lucio Accio, nel liceo Terenzio Mamiani di Pesaro ero stato sempre il più egregio di tutta la classe.
In seguito ai successi negli agoni scolastici e ciclistici che imponevo a me stesso quasi ogni giorno vincendoli spesso, mi ero montato la testa sebbene non fossero gare davvero olimpiche, e mi davo stupide, empie arie da superuomo: aiutavo magari quelli meno bravi, però non nascondevo il mio disprezzo mentre li lasciavo copiare o suggerivo. In bicicletta vincevo ogni sfida in salita e a cronometro, poi davo dei rammolliti e debosciati ai vinti.
Se, per esempio provavano a giustificarsi dicendo che li vincevo perché non fumavo, rispondevo: “allora tu, invece di gareggiare con me, fatti ricoverare in manicomio o al Cottolengo!”
Dopo ogni gara mi lanciavo a gridare l’alalà della vittoria rinfacciando la sconfitta ai perdenti. Errori che avrei pagato con la sofferenza fino a quando non li avessi capiti: “tw`/ pavqei mavqo"”[3], attraverso la sofferenza, la comprensione.
In effetti il dolore, paradossalmente, mi avrebbe guarito e reso migliore. Di nuovo Eschilo e anche Giobbe.
L’arroganza non apparteneva alla mia natura autentica: era stata una reazione alla povertà di affetti.
Quello che è il mio carattere vero mi punì. Cioè mi castigai da solo con le mie mani che mettevano continuamente cibo nelll’insatiabilis rictus, il grugno ingordo di ragazzo degradato a porceo grasso, quasi deforme. Naturalmente con questo regime smisi di gareggiare in bicicletta e inebetìi la mente. Lo studio mi costava fatica, la bici da ottimo cosmetico, da Pegaso nicoforo, mi era diventata estranea e insignificante. Insomma persi la mia identità. E' la perdita massima, il detrimentum maximum, e il maximum scelus. Stavo andando a Debrecen dopo quasi tre anni di tale degradazione, una deminutio mei ipsius. Mi ero imbestiato male.
Oramai pensavo che dovevo risalire la china della sventura oppure morire. Redde me meo Ioanni, dicevo a me stesso, depelle suis hanc diram faciem, rendimi al Giovanni che sono, elimina questo orribile aspetto da suino!
Lucio imbestiato in asino aveva pregato Iside con parole simili ed era stato esaudito.
Non scrivo nulla che non sia testimoniato: dal mio vissuto o dalla lezione dei classici.
Apuleio e Callimaco in queste ultime tre righe.
Ma torniamo ai fatti.
Negli ultimi venti chilometri, precisamente da Hajdúszoboszló, avevo forzato la vecchia automobile per arrivare nella remota Università estiva prima che il sole, la santa faccia di luce, sparisse dall’orizzonte, lasciandomi nel buio dell’immensa distesa, coltivata ma priva di alberi, popolata ma da poche persone distribuite in case isolate, in piccoli e radi borghi pressoché primitivi, dove oltretutto parlavano una lingua veramente straniera, uno strano idioma agglutinante di cui, attraversando la terra magiara tutto quel giorno, mi ero accorto di capire pochissimo.
L’esame di lingua e letteratura ungherese dato a Bologna mi aveva fruttato un trenta e la borsa di studio per l’Università estiva della cittadina universitaria in terra magiara, ma non era bastato a mettermi in grado di capire né di farmi comprendere nella lingua di quel paese. Me la cavavo con l’inglese e, se questo non bastava, aggiungevo il latino. Non avevo buttato via del tutto l’abito letterario che avevo scelto fin da scolaro, quando mi accorsi che mi stava bene, mi donava.
Me ne ero accorto già in terza elementare quando il maestro Gasperi faceva girare i miei temi come esempi in diverse altre classi delle Carducci di Pesaro.
Poi alle medie Lucio Accio, la professoressa di latino e italiano, Giulia Gattoni, una bella donna bruna, disse per anni che non aveva mai avuto un alunno intelligente come me. Già allora avevo deciso di continuare a studiare il latino nel liceo classico. Non mi sbagliavo: il latino, poi il greco sarebbero entrati nella mia identità e mi avrebbero aiutato in ogni occasione. Anche lì in Ungheria come vedrete.
Qualche giorno più tardi, con l’automobile in panne, fui soccorso da un prete che venutomi incontro mi domandò: “loqueris latina lingua?”
“Loquor” risposi, quindi potei avere indicazioni utili nel nostro italiano antico. Chi ha già letto la storia di Helena finnica ricorderà che la sera della nostra piccola crisi, quando cercai di fare l’amore senza darle spiegazioni, la bella donna disse “I am not ”, poi sussurrò una parola inglese che non compresi. Le feci segno che non avevo capito. E lei, bella e fine qual era, chiarì: in latin is materia.
“Magnifica-pensai- davvero, non sei solo materia!”. Poi glielo dissi.
A quel punto ogni porta era aperta, anche quella della felicità.
Ma eravamo nel luglio del 1971: nel frattempo mi ero laureato, avevo insegnato per più di un anno, avevo fatto 100 giorni di servizio militare e al mio apprendistato avevano dato il contributo più grande e più bello già nove femmine umane, umanissime anzi.
L’amore e il dolore sono state due grandi lezioni per me.
Bologna 6 ottobre 2022 ore 20, 13
giovanni ghiselli
p. s.
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[1] Eschilo, Coefore, 1061.
[2] Eschilo, Coefore, 1062
[3] Eschilo, Agamennone,
177.
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